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Editoriale 2005-1

by Mariapina Dragonetti

A cura della Redazione


Nei mesi che ci separano dal precedente fascicolo di Zetesis abbiamo assistito ad avvenimenti di grande rilievo sulla scena mondiale e destinati a essere ricordati nella storia. Citiamo tra tutti la morte di Giovanni Paolo II, un pontefice che ha segnato in maniera profonda le vicende del mondo contemporaneo (non soltanto della Chiesa), e l’elezione al soglio pontificio di un’altra grande personalità di notevolissima statura umana e culturale, Benedetto XVI. Ma anche altri avvenimenti, purtroppo luttuosi, hanno toccato da vicino la nostra Redazione: la morte di don Luigi Tropia, maestro dei più anziani tra di noi, che aveva avviato negli ormai lontani anni Sessanta il lavoro di studio e di approfondimento da cui poi sarebbe scaturita Zetesis, quando, ancora giovanissimi (per la maggior parte studenti universitari), ci trovavamo nelle anguste sale di via Dante 7 a riflettere e a discutere con gusto e partecipazione sulle pagine di Sofocle o dei Padri della Chiesa; poi, a pochi giorni di distanza, la morte di don Luigi Giussani, che molti di noi hanno avuto come maestro nelle aule del liceo o dell’università e che ha contribuito in modo notevole alla nostra formazione e al nostro modo di avvicinare e interrogare i testi e gli autori (non soltanto antichi) per cogliere gli aspetti più vivi della loro umanità, del loro interrogarsi sul significato della vita. Ci sembra doveroso iniziare il numero di Zetesis con un ricordo affettuoso e partecipe di queste due grandi figure di sacerdoti, alle quali questo fascicolo è idealmente dedicato.

Nelle ultime settimane abbiamo assistito a vicende che hanno una ricaduta notevole anche sul nostro lavoro. Alludiamo ai due referendum, francese e olandese, che hanno visto sconfessata non l’idea di Europa (che consideriamo un valore positivo), ma una certa impostazione burocratica, mercantile, e quindi in ultima analisi riduttiva e gretta dell’idea di Europa. I nostri lettori sanno che questo è un problema che ci tocca da vicino, perché da sempre affermiamo che lo specifico del nostro lavoro è incentrato sul recupero delle nostre radici culturali, che noi riconosciamo nell’interazione dell’eredità classica e cristiana (abbiamo toccato in più sedi la questione e sul sito abbiamo inserito molto materiale su questo problema). La costituzione europea aveva cancellato ogni accenno al patrimonio di valori che costituisce la nostra identità culturale: si è voluto affermare un’idea di Europa in cui conta solamente il rispetto di parametri economici o l’affermazione di regole astruse (ricordiamo, anni fa, una lunga ed estenuante discussione del parlamento europeo sull’eviscerazione dei polli, che produsse un meticoloso regolamento, ove si definiva in maniera precisa che cosa si deve intendere per pollame, per carcassa e così via): ogni legge elaborata in sede comunitaria si estende per decine o centinaia di pagine e la formula magica “coerente con le norme comunitarie” diviene il nuovo criterio che presiede a ogni decisione, anche piccola o pratica, del nostro vivere quotidiano. A questo si sono aggiunti, col passare degli anni, un’intransigenza e un dogmatismo pressoché assoluto nell’affer­mazione di ciò che la cultura dominante considera “politicamente corretto”: in nome della volontà di cancellazione di ogni discriminazione si è arrivati a imporre un modello culturale unico che viene affermato in modo intollerante, con l’emarginazione di fatto di ogni modo di pensare che si ispiri a valori differenti da quelli accreditati come ufficiali. Il tutto in un’epoca che fa del pensiero debole e del relativismo un altro valore assoluto! Questa politica miope, meschina e autolesionista è stata assunta proprio in un periodo che vede la presenza tra noi di identità culturali extraeuropee, che giustamente rivendicano una possibilità di espressione della propria tradizione e del proprio mondo valoriale, il che porta all’emergere di problemi inconsueti, con la necessità di assumere decisioni e sperimentare soluzioni nuove ogni giorno (non solo nella convivenza tra nazioni, ma anche sul posto di lavoro, nelle scuole e così via), problemi che la burocrazia europea pensava di esorcizzare semplicemente ignorandone l’esistenza o mettendo a tacere l’ineludibile necessità (ben percepita dall’uomo comune) di essere noi a nostra volta fedeli a noi stessi, alla nostra identità, alla nostra storia. Chiaro poi che, in una simile prospettiva, la cosiddetta Europa poteva essere allargata a qualsiasi altro stato, oggi alla Turchia, domani magari alla Mongolia o alla Nuova Zelanda. Per fare un paragone, citiamo un passaggio del discorso pronunziato dal presidente della Repubblica Indiana, A.P.J. Abdul Kalam, nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario dell’Indipendenza: «Adesso consentitemi di condividere con voi, amici miei, un altro argomento decisivo, che rappresenta un’ulteriore, autentica necessità per il nostro Paese: noi non possiamo sostenere una prospettiva di Nazione senza l’unità di pensiero e d’intenti di tutto il suo popolo. La nostra grande forza sta nel nostro tradizionale pluralismo e nel retaggio di una civiltà di almeno 3000 anni. Mi sono sempre domandato in che cosa consistesse la forza di questo retaggio: da una fusione, unica nel suo genere, che si è realizzata da numerose e diverse culture, religioni e concezioni di vita, provenienti da molte parti del mondo e che è diventata la base del modo di vivere indiano». In un crogiolo di etnie, di lingue e di religioni come è l’India a che cosa può fare appello l’autorità politica se non al retaggio di valori comuni che costituisce l’anima e il cuore di una cultura? Qualche cosa di analogo avremmo desiderato e desidereremmo anche per l’Europa, e a qualche cosa di analogo pensavano sicuramente le grandi personalità che hanno dato l’avvio al processo d’integrazione europea, ma nulla di tutto ciò è più presente ai burocrati della generazione attuale, prigionieri di ben altri miti e ben altre vedute.
In questa atmosfera, la prima doccia fredda si è riversata proprio sul paese le cui autorità maggiormente si erano battute per la cancellazione delle radici ideali nel preambolo della costituzione. Non siamo così ingenui da pensare che il no referendario sia stato dettato semplicemente dalla mancanza del riferimento alle radici cristiane nella costituzione: motivazioni diverse, non sempre condivisibili, si sono incrociate e assommate, fino a portare al rigetto, con un risultato anche pesante in termini numerici (e confermato a pochi giorni di distanza da un risultato ancora più sfavorevole nel referendum olandese): ma certo l’idea di Europa proposta da chi ha voluto il referendum non era in grado di appassionare l’elettorato: molti motivi di dissenso o di incertezza possono venire superati, quando si ha dinanzi un progetto politico e ideale su cui vale la pena comunque dare il proprio consenso, un progetto che in qualche misura affascina e riflette valori condivisi (anzi, è un’evenienza che normalmente accade nelle elezioni politiche: si dà il proprio voto a un partito perché se ne condivide il progetto ideale, anche se rimangono dubbi o dissensi su parti anche importanti del programma o sulle concrete proposte di realizzazione). La cultura che domina nelle stanze di Bruxelles, col suo corredo di posizioni relativiste e nichiliste, di egualitarismo astratto, di diritti senza doveri, di diffidenza o di ostilità verso tutto ciò che la cultura e la tradizione occidentale ha proposto attraverso millenni di storia, di arte, di pensiero, esce seccamente sconfitta da un giudizio che lascia poche possibilità di appello.
Ancora più vicina cronologicamente è l’esperienza del referendum italiano sulla procreazione assistita. Qui non si è vista solo la vittoria del no, ma il rifiuto netto e deliberato di gran parte della popolazione italiana a esprimersi su un tema così complesso in un modo superficiale o manicheo (come è inevitabile che avvenga in un referendum, dove non si può esprimere un sì o un no argomentato, ma occorre dare una risposta secca a quesiti che imporrebbero risposte circostanziate). La cosa interessante è che il rifiuto a misurarsi con questo referendum è stato di proporzioni nettissime (ha votato appena il 25,5% degli avanti diritto), nonostante la grande e martellante campagna della stampa importante, dei mezzi televisivi, di quasi tutti i partiti, che invitavano a votare come se si trattasse di una ineludibile battaglia di civiltà, con argomenti che in parte facevano appello alle corde più sensibili del cuore degli italiani e in parte presentavano dogmaticamente come verità assolute delle affermazioni scientifiche che nel migliore dei casi erano ancora tutte da verificare. Lo schieramento del sì, massiccio e intransigente, reclutava tra le proprie file una corte dei miracoli quanto mai variopinta e pittoresca, in cui si annoveravano politici e soubrette di regime (quelle sempre disponibili a cercare visibilità, attente a collocarsi nella parte giusta, che è quella del presumibile vincitore), giornalisti e calciatori, grandi nomi di scienziati, di intellettuali, di filosofi (alcuni reclutati all’ultimissimo momento, e visibilmente preoccupati dalla eventualità di non poter trovare già più posto sul carro del vincitore), tutti chiamati a esprimersi su grandi tematiche di bioetica su cui avevano spesso poca o nessuna competenza specifica e di cui forse a malapena avevano sentito parlare. L’élite degli intellettuali, intervenuta nell’agone del dibattito con la presunzione di appartenere a una casta superiore, detentrice della verità e animata dalla coscienza del proprio dovere di guidare, illuminare e riportare sulla retta via la povera umanità comune, è quella che più è uscita con le ossa rotte dalla vicenda: fatichiamo a definire scienziati molti degli intervenuti, perché il loro interesse non sembra rivolto alla “scientia” (il desiderio di sapere e soprattutto di capire sempre meglio le leggi del mondo fisico e naturale e del suo centro ideale, l’uomo, e quindi la tensione a cogliere i perché della vita e dell’agire umano), ma alla bramosia di infrangere sempre nuovi limiti e di acquisire potere e controllo sulle forze della natura: un atteggiamento, dunque, più di alchimisti, di stregoni, di maghi, che non di uomini fatti “per seguir virtude e canoscenza”. Evidentemente nemmeno il premio Nobel e il comparire in spot televisivi (il vertice del successo mondano!) sono garanzia di una percezione della verità delle cose, e non generano una autorevolezza dal punto di vista dell’humanitas. Dovrebbe tenere conto di tutto questo chi da anni predica sulla necessità di limitare lo spazio delle materie umanistiche nelle scuole per ampliare il peso delle materie scientifiche. Se il risultato è questo, sembra opportuno creare nella scuola spazi sempre più ampi di riflessione sull’umano, sul significato e sul valore della vita: anche la scienza è humanitas nella misura in cui trae le ragioni del suo agire e del suo progredire da una tenace consapevolezza del suo significato: un procedere svincolato da un appassionato interrogarsi sulle modalità e sui fini del proprio operare rischia di portare a risultati abnormi: è quello che i Greci avrebbero chiamato hybris, una perdita di percezione del limite, o meglio del valore (perché valore e limite coincidono e interagiscono: la percezione del valore porta a evitare la hybris), e se si rileggessero le pagine di tanti giornali e le parole di vari scienziati schierati per il sì al referendum si scoprirebbero, in certi sconfinamenti di natura eugenetica, affermazioni e passaggi che in modo sinistro e preoccupante ricordano tesi e asserzioni di impostazione nazista.
Sfiducia nella tecnologia fine a sé stessa e priva di motivazioni ideali, timore di una sua potenziale prevaricazione: questo è certamente uno degli insegnamenti che viene dal 75% di astensioni. Come abbiamo accennato, il tutto ha ricadute sensibili anche sul nostro lavoro. Chi di noi non ha mai avuto un qualche piccolo complesso di inferiorità nei confronti dei colleghi di materie scientifiche? In quanti collegi docenti (anche di licei classici) non c’è, più o meno inconsapevole, la percezione che comunque il nostro lavoro dedicato all’humanitas del passato deve essere subordinato di fronte alle richiesto di spazio e di iniziativa che vengono dai colleghi delle materie scientifiche? quanti di noi non si sentono colpevoli quando chiedono a prestito un’ora dai colleghi di scienze o di matematica, perché queste sono le materie vere, mentre le nostre sono poco più che un passatempo o un ornamento? Di quello che avviene in tanti licei scientifici fa fede in misura sufficientemente chiara (e preoccupante) l’articolo-esperienza di L. Cioni che pubblichiamo in questo numero. Ciclone Berlinguer non è passato invano: siamo ancora pieni di cicatrici dopo la profusione a piene mani della supremazia della contemporaneità, dopo le prediche sul liceo classico che corrompe: via la storia antica dalle scuole, se ne faccia poco o nulla (il risultato è che si fa meno storia antica e gli studenti ugualmente hanno idee confusissime sulla storia moderna, come mestamente risulta da periodici sondaggi i cui risultati appaiono di tanto in tanto sulla stampa).
Del resto gli epigoni, anche appartenenti a diversa area politica, non hanno migliorato di molto la situazione: hanno semplicemente eliminato gli aspetti estremi della sua impostazione e razionalizzato qualche particolare, ma il nucleo centrale rimane intatto. Sul progetto di riforma della scuola superiore abbiamo preso posizione come Redazione di Zetesis: una nostra mozione (che ripubblichiamo in questo numero) esprime in modo chiaro le nostre preoccupazioni e i nostri suggerimenti: la mozione è stata inviata al Ministero (da cui non si è avuto riscontro: non che ci aspettassimo reazioni diverse peraltro) e alle oganizzazioni professionali ed è disponibile sul Forum del sito per chi vorrà intervenire a dire la sua sull’argomento. Poiché la mozione già esprime con chiarezza la linea della Redazione, non entriamo in questa sede nel merito delle varie questioni. Ci limitiamo a una sola osservazione, che tocca la più strampalata delle trovate che i nostri riformatori avevano in serbo: nel quinto anno delle superiori una materia sarà insegnata in inglese. Chi (e come e dove) troverà nei prossimi anni personale in grado di insegnare filosofia o fisica in inglese (parlare in inglese – in inglese corretto e fluido, si spera! – per un’ora su problematiche complesse non è come dire quattro frasi per le vie di Londra chiedendo dove è la metropolitana più vicina). Trasformiamo (ricicliamo, come si usa dire) i professori di filosofia (o fisica o greco) in professori di inglese o trasformiamo i professori di inglese in professori di filosofia (o fisica o greco)? E che senso ha leggere Hegel e Schopenhauer in inglese? Può capitare spesso di leggere un saggio, un commento o una traduzione di Euripide in inglese (ma anche in francese o in tedesco), ma che senso ha parlare di Euripide per un’ora in inglese in una classe di italofoni? Ci lamentiamo che la Comunità Europea ha declassato l’italiano, valorizzando il carattere ufficiale di inglese, francese e tedesco, e relegando l’italiano al livello dell’estone o del maltese (che, beninteso, sono lingue degnissime di rispetto, ma semplicemente non hanno avuto una letteratura con un Dante Alighieri o un Manzoni, e non hanno avuto nel Rinascimento la funzione che ha avuto l’italiano per gli artisti e i letterati d’Europa), ma non siamo noi stessi a declassare la nostra lingua con questa anglofilia degna di miglior causa?
Tuttavia, al di là delle trovate più o meno estemporanee che si sono susseguite in questi anni, resta il fatto che, qualunque sarà la struttura scolastica in cui ci troveremo a operare, non possiamo che continuare il nostro lavoro di educatori. Insegneremo i classici in un liceo dai contorni diversi, così come continuiamo a insegnare le lingue e gli autori classici in una struttura universitaria orrendamente sfigurata dagli sciagurati provvedimenti che hanno snaturato le facoltà umanistiche, e che pure non ci impediscono di proporre corsi e insegnamenti che cercano di valorizzare il mondo classico e di offrire agli studenti gli strumenti adeguati per interpretarlo. Per riprendere e concludere il discorso iniziale sui referendum, ora che sappiamo in modo esplicito che la cultura del relativismo e del pensiero debole (la cultura della menzogna, in poche parole) non è “la nostra cultura”, ma una cultura nettamente minoritaria che attrae solamente un quarto dell’Italia, siamo richiamati a una responsabilità ancora più grande, perché abbiamo la certezza di potere proporre (anzi abbiamo il dovere di farlo), attraverso la lettura del mondo antico e l’insegnamento delle lingue classiche, temi di riflessione forte, valori e modelli, problematiche e pensieri, a una generazione di giovani che sappiamo disponibile ad accoglierli o quanto meno a confrontarsi con essi: è compito nostro cercare di appassionarli in questa riflessione e in questo confronto, sapendo quanto questo può essere importante per la loro vita e la loro formazione di persone.