“À quoi ça sert?” A che cosa serve? È la domanda che fa da titolo a un recente intervento di Didier Lamaison sull’insegnamento delle lingue antiche.(1) O in altri termini: perché affannarsi dietro parole morte e ingiallite dal tempo, quando 1’Autore stesso della vita ha fatto irruzione nella storia presentandosi come Parola di vita e di salvezza eterna? È a partire da questa domanda che conviene riprendere dal fondo la motivazione della nostra presenza nella scuola e nella società come specialisti e docenti di civiltà e di lingue che sembrano irrimediabilmente lontane dall’orizzonte della nostra esperienza e dei nostri interessi.
A che serve studiare il latino? È una domanda che, più o meno tacitamente, viene rivolta solamente a noi docenti di lettere classiche, e sottende l’idea che il tempo dedicato (altri direbbe e penserebbe perso) a queste materie potrebbe essere utilmente impiegato per altre attività più fruttuose e di utilità pratica e immediata. E’ una posizione che non ha neppure il merito dell’originalità. Già nel XVII secolo Alessandro Tassoni considerava “perdimenti di tempo” questi studi e poiché non gli pareva utile che la gioventù stesse “consumando tutto il fior dell’età dell’età nell’ozio delle scuole, imparando e disputando cose sofistiche e vane”, proponeva come scopo dell’insegnamento che i giovani “imparino di leggere e scrivere nella lingua loro”.(2) Ed all’inizio dell’Ottocento nell’Eugenio Onegin, il poema-romanzo di Puškin, leggiamo: “Il latino è oggi passato di moda: così, se devo dirvi la verità, egli sapeva di latino quanto basta per decifrare un’epigrafe, per dir due parole su Giovenale, per mettere un vale alla fine delle lettere … Non aveva alcun desiderio di frugare nella polvere delle cronache della terra … Biasimava Omero, Teocrito, ma leggeva Adam Smith, ed era un profondo economista, sapeva cioè giudicare in che modo lo Stato si arricchisca, di che viva”.(3)
Nessuno chiederebbe al docente di matematica e d’inglese perché si studiano le loro materie perché si è intimamente convinti dell’utilità pratica e sociale di queste discipline, anche se di fatto è ben raro che Le evenienze della vita conducano alla risoluzione di sistemi di equazioni di secondo grado e nella comunicazione, orale o scritta, dell’inglese il ricorso alle conoscenze scolastiche ha un’importanza ben limitata. Ma di fatto questo diverso atteggiamento degli allievi, o meglio della comunità scolastica (perché, nel fondo del cuore, 1’inutilità pratica delle nostre discipline è ampiamente condiviso da genitori e da colleghi, e ultimamente in modo sempre più diffuso anche dai gestori di scuole private e dai presidi, ivi compresi i presidi dei licei classici), ha finito per influenzare anche noi, fino ad imporci di trovare, a qualunque costo, un’utilità pratica e immediata allo studio del latino e del greco. Ed è stata una strategia perdente, che ha finito per dequalificare lo studio delle nostre materie, condizionandone spesso in senso negativo anche la didattica. Oltretutto una posizione che nasce da una posizione sostanzialmente scorretta già alla base, in quanto ignora che anche la presenza della matematica e dell’inglese nei curricolo scolastici non è giustificata da considerazioni di natura pratica, bensì dal loro carattere di materie ampiamente formative, tali da fornire all’allievo strumenti di valutazione culturale che gli consentono di inserirsi in maniera non passiva e non acritica nel tessuto sociale.
Rispondere dunque che anche studiare il latino (e il greco) “serve” è riduttivo. Si dice che il latino (e il greco) servono per migliorare l’italiano: come giustificare lo studio di particolarità complicate e via dicendo che poco o nulla hanno a che fare con la lingua italiana? Per essere più padroni dello nostra lingua che utilità può avere il paradigma di capio o la conoscenza degli aoristi atematici? Nessuna teoria pedagogica ammetterebbe che si possa imparare qualcosa di semplice proponendo uno studio obiettivamente complesso e irto di difficoltà. Si è voluto inventare una utilità strumentale del latino: prova ne sia il successo che sta avendo in America l’introduzione del latino a partire dalle scuole elementari, col dichiarato proposito di allargare la base di lessico in possesso degli allievi e di migliorarne la resa in inglese, o i tentativi sempre più frequenti di insegnare le lingue antiche ispirandosi alla didattica delle lingue moderne: test, dialoghi, conversazioni, addirittura fumetti e parole incrociate. Il tutto, malinconicamente, lascia il tempo che trova: peggio, ci rende ridicoli, se non è finalizzato ad un obiettivo di più ampio respiro. Il latino è una lingua morta: non può essere utilizzato per esprimere i concetti cardine dell’epoca moderna; i tentativi che si fanno in qualche ambiente per realizzare il latino vivo hanno qualcosa di patetico: come si può pensare che abbia una sia pur lontana credibilità una lingua che usa perifrasi di cinque o sei parole per indicare gli oggetti più comuni, una lingua in cui convive un’imitazione esasperata dell’uso ciceroniano con espressioni maccheroniche che invitano solamente al riso? Questa non è una lingua morta: è una lingua assassinata, come ha scritto molto bene M. Van Uytfange.(4)Il vero latino vivo è la lingua italiana che parliamo quotidianamente: il latino di Cicerone potrà essere utilizzato, in qualche particolarissima circostanza (introduzione ai testi critici, sentenze dei tribunali ecclesiastici), come lingua d’uso per una ristretta cerchia di persone, ma non può essere proposto come mezzo di comunicazione di massa.
Dove trovare dunque la validità formativa del latino? Il discorso va impostato secondo una prospettiva culturale, non solo linguistica. Potremmo dire innanzitutto che nell’attuale emergere di problematiche nuove (si pensi alla bioetica, per esempio), mai come oggi è essenziale per il mantenimento di un sano equilibrio della società una solida preparazione umanistica il più possibile diffusa: la tecnologia è fonte di comodità e di benessere, a patto che non ci si dimentichi dell’uomo. Ma questa risposta sarebbe ancora generica, e non entrerebbe nel vivo del problema.
È la continuità col mondo classico, il legame tutto particolare che connette la nostra cultura attuale col mondo dei greci e dei latini a obbligarci a mantenere vivo il ricordo degli antichi. Non esiste un presente completamente separato dal passato: non esiste per il singolo come non esiste per il contesto in cui il singolo opera. Come tutti i nostri ieri determinano il nostro volto di oggi (e noi saremmo diversi, se non avessimo il bagaglio di esperienze, positive o negative, valorizzate o rinnegate, che ci stanno dietro le spalle) , così il mondo di valori che ci definisce trae il suo essere da una lunga secolare millenaria elaborazione. Recidere il legame col passato significa sempre per chiunque, singolo o civiltà, un impoverimento radicale: la mancanza di memoria, l’amnesia, è uno stato patologico, non costituisce la normalità dell’individuo: in questo senso, non si capisce perché dovrebbe costituire una situazione di normalità per una cultura. Altro naturalmente è dare un giudizio più maturo sulla propria vita precedente in base alle esperienze nuove e ali’accrescersi delle conoscenze, altro è il puro e semplice oblio. Abbeverarsi all’acqua di Lete va bene per i fantasmi, non per uomini dinamicamente vivi e presenti nella società. Poste queste premesse, la nostra presenza nella scuola è un impegno non piccolo, che presenta risvolti sociali di estrema attualità.
Da una parte andrà ripresa coscienza del fatto che non può esistere una speranza di progresso, o semplicemente di autenticità vera e profonda, se una cultura non affonda le sue radici nell’esperienza delle generazioni che l’hanno preceduta: e il discorso è tanto più vero, quando la cultura a cui far riferimento è ricca di stimoli, di suggestioni e di bellezze artistiche e letterarie quanto la cultura greco-latina. Le conclusioni operative sono molteplici. Certo noi non guardiamo più al mondo classico con gli occhi acritici del neoclassicismo: cogliamo realisticamente valori e limiti di questa civiltà, e sappiamo che accanto alla cultura classica vi sono altre grandi tradizioni storiche e culturali del tutto degne di essere affiancate a questa. Ma in quanto ci sentiamo innanzitutto persone che hanno un’identità precisa, il nostro interesse primo va verso queste civiltà: come sarebbe (ed è stato) sciocco idealizzare la cultura classica, diminuirne la portata sarebbe altrettanto sciocco, per due motivi almeno: innanzitutto perché la civiltà classica ha offerto ad altri popoli gli strumenti per prendere coscienza della propria identità e per esprimerla, dando così prova di un afflato universalistico (cattolico!) che è invece mancato ad altre culture, in secondo luogo perché è con la cultura greco-latina che è avvenuto il primo incontro del messaggio cristiano, ed è proprio la sintesi culturale greco-latino-cristiana che forma la struttura portante della nostra attuale civiltà europea. Ben lontani quindi dal valutare i classici antichi come modelli inarrivabili, dobbiamo altrettanto onestamente riconoscere che, soprattutto nell’ambito letterario e artistico, molte parte della produzione greco-latina si pone come archetipo di modelli letterari o artistici, di una tradizione quindi che è ben lungi dall’essersi esaurita.(5) Continuità e alterità quindi: questi i due poli attorno a cui orientare l’insegnamento classico. Si tratta insomma di mantenere una memoria col proprio passato, presentando nella maniera più compiuta possibile una civiltà che nello stesso tempo costituisce la base della nostra cultura occidentale e risulta diversa dalla nostra: si dovranno valorizzare gli aspetti sia di continuità sia di diversità. Tesi a valorizzare l’attualità di temi e di problematiche, non si metta troppo in secondo piano, però, la bellezza, anche da un punto di vista del godimento estetico, di tanti testi antichi. Se non altro, le loro lettura potrà collocarsi come importante momento di confronto di fronte ad espressioni più recenti di poesia o di letteratura, consentendo di queste ultime una valutazione realistica e spassionata: alla valutazione critica dei classici hanno contribuito studiosi di ogni epoca e di tutti i continenti: basta questa considerazione per capire l’ampiezza di respiro e l’apertura mentale che questo studio dovrebbe fornire agli allievi. Non dimentichiamo che studiare il classico significa accostare Fiatone, Virgilio, Sofocle, tanti altri maestri dell’arte e del pensiero, che in qualche misura hanno orientato e continuano a orientare il nostro modo di essere e di esprimerci, nella letteratura come nell’arte, nella filosofia come nella scienza: il peso della la cultura greco-romana nella scuola (e non parliamo qui solamente dei licei, delle scuole cioè dove istituzionalmente si studiano queste culture, ma anche delle medie inferiori o delle elementari) dovrebbe essere ben superiore a quello che attualmente le è dato: altro sono i Greci, altro gli Ittiti o i Camuni: non è ammissibile, semplicemente da un punto di vista di serietà culturale, accordare lo stesso peso, per esempio, alle civiltà classiche e alle civiltà della Mesopotamia: il che non significa per nulla sminuire il valore di queste ultime né disconoscere l’eventuale apporto che possono aver dato allo svilupparsi del miracolo ellenico.
All’interno di queste considerazioni si situa lo studio delle lingue antiche (ma delle lingue, non della grammatica!). La conoscenza di ogni cultura implica come necessario lo studio della lingua. Questo studio non deve essere né superficiale né dilettantistico. Agli allievi viene posto nelle mani uno strumento assolutamente indispensabile per essere condotti alla conoscenza di un patrimonio di idee e di valori quanto mai ricco e importante.
La validità formativa così concepita di una disciplina come il latino invita a una valorizzazione continua della propria professionalità: ridurre 1’insegnamento del latino a semplice routine ripetitiva, accontentandosi di testi o di strumenti vecchi, di grammatiche impostate secondo concezioni superate o tali da non dare in modo adeguato un’idea viva e mobile del divenire linguistico, significa inevitabilmente far morire il latino nell’interesse degli studenti, oltreché esporre l’insegnante al rischio di frustrazione o di un’alienazione precoce.
NOTE
(1) D. Lamaison, A quoi ca sert? L’enseignement des langues classiques comme révélateur de la crise de l’éducation, “Bulletin de l’Association G. Bude”, 1989, pag. 133-138
(2) In Pensieri diversi VII, VI: cfr. anche M. e G. Morani, Per una lettura del mondo antico, Milano, Massimo 1978, ove è commentato e parzialmente riportato questo testo. [Ora parzialmente ripreso anche nel nostro sito: clicca qui]
(3) E. Onegin, I 6-7 (tr. E.Bazzarelli).
(4) M. Van Uytfange, Après les “morts” successives du latin: quelgues réflexions sur son avenir, “Hommages a J. Veremans”, Bruxelles 1986, pag. 328-354
(5) Cfr. M. Morani, Signori della parola, “Il nuovo Areopago” 1982, pag. 141-151; sull’ importanza delle lingue classiche nella formazione della “sintassi europea” discorro in un paio di articoli la cui pubblicazione è prevista prossimamente su “Nuova Secondaria” [Si può leggere sul sito: clicca qui]. Altri testi significativi sul valore delle civiltà classiche si troveranno in appendice a Morani M. e G., Per una lettura del mondo antico, cit.