Il pensatore e scrittore Alessandro Tassoni (1565-1635) diede una risposta polemicamente negativa e ritiene inutile perdita di tempo lo studio dei classici.
Che dunque i fanciulli, che hanno da viver politicamente, e non s’hanno da impiegare in operazioni servili, imparino di leggere e scrivere nella lingua loro, il tengo per necessario. Ma le lettere di che noi trattiamo, sono, come da principio si disse, le dottrine e quelle che con vano nome si chiamano scienze. Dissi con vano nome, perché quelle, che alcune sette di filosofi hanno chiamate scienze, non sono che mere opinioni da diversi diversamente intese, e con ragioni probabili ed apparenti in cento modi difese, come i libri d’Anasidemo Egeo e di Sesto Empirico mostrano. Che se il senso, che palpa egli stesso gli oggetti, s’inganna, che certezza vogliam noi dare a’ pensieri dell’intelletto, che opera per terza mano; e si serve delle chimere, che gli porta innanzi la fantasia, che mezzo le toglie in presto dal senso, e mezzo le si sogna da sé?
Questa sorte di lettere adunque io non istimo necessario in alcuna maniera, che i giovinetti l’imparino; non vedendo che utile possa risultare ad una repubblica, che la gioventù stia consumando tutto il fior dell’età nell’ozio nelle scuole, imparando e disputando cose sofistiche e vane. Ideo ego adolescentulos existimo in scholis stultissimos fieri (disse Petronio Arbitro) quia nihil ex iis quae in uso habemus aut audiunt, aut vident. O di Seneca, de Brev. vitae: Graecorum iste morbus fuit, quaerere quem numerum remigum Ulisses habuisset; prior scripta esset Ilias an Odyssea; praeterea an eiusdem esset auctoris. Che s’ha egli da fare della retorica, o della poesia? Che della logica, fisica e metafisica, e d’altri simili perdimenti di tempo? Che importa egli il saper queste cose? Forse quei, che le sanno, sono migliori cittadini, o più ricchi, o più forti, o più sani, o più prudenti degli altri? Certo no; anzi quei corpi e quegli animi, ch’esercitandosi come faceva la gioventù di Sparta e di Roma, sarebbono stati robusti e valorosi per difesa della repubblica, sedendosi all’ombra in una vita molle ed effemminata, s’inlanguidiscono e snervano: Continuo otio in foeminas degenerantes; come disse Agatarchide de’ sabei. E quegl’ingegni che, applicandogli al governo civile, sarebbono riusciti prudenti, folleggiano intorno a cose leggieri e consumano il patrimonio nell’ozio, riportando alle case loro più vizi che dottrina; non avvertendo i padri, che Ulisse non fu mai chiamato prudente, perch’egli fosse letterato. E sovviemmi di Tacito, là dove parlando degli studi e costumi Greci introdotti in Roma sotto Nerone, disse: Patrios mores funditus everti per accitam lasciviam, ut quod usquam corrumpi et corrumpere queat in urbe visatur; degeneretque studiis externis iuventus gymnasia et otia et turpes amores exercendo. Licinio e Valente e Valentiniano imperadori, Eraclide lizio e Filenide melitense chiamavano le dottrine e le lettere peste e veleno delle republiche. Però a gran ragione Paolo secondo papa (come il Platina nella vita di lui riferisce) esortava i romani che non lasciassero occupare i figliuoli e consumar la gioventù loro in così fatti perdimenti di tempo, de’ quali Marziale, esclamando la sua fortuna, disse: At me literulas stulti docuere parentes.