Libertà di educazione, anno IV, 1980, pp. 19-22 (1)
Un problema eluso: perché la civiltà greco-romana nella scuola?
Nel convegno di Bergamo, svoltosi nella seconda metà di luglio del 76, un gruppo di insegnanti di materie classiche si trovava per la prima volta insieme ad affrontare il problema della presenza nella scuola della civiltà greco-romana. Eravamo una quindicina di persone, in situazioni scolastiche diverse: insegnanti del biennio e triennio di liceo classico e insegnanti di liceo scientifico o istituto magistrale (spesso provenienti dalla facoltà di lettere moderne e comunque docenti solo di latino e non di greco). Il lavoro svolto in quei giorni, di cui apparve una breve relazione sul numero 3-4 di Libertà di educazione (settembre 1976, pag. 28, a cura di M. Zelioli), giustamente prese in esame, prima che tecniche e metodi didattici, il problema fondamentale che non può non porsi a chiunque studi o insegni tali materie e che tuttavia è quasi sempre eluso, sia nella scuola secondaria, sia nelle facoltà universitarie di lettere classiche: quale sia cioè il significato e il valore della civiltà greco-romana, che posto abbia nella società attuale e che cosa abbia ancora da comunicare ad essa. Il fatto è che questo problema, come si diceva, è sempre stato eluso: le motivazioni per lo studio del latino e del greco, quando emergevano, erano o patentemente anacronistiche (vedi la concezione neoclassica della civiltà greca come armonica e perfetta, modello perenne per ogni altra civiltà) o strumentali (vedi lo studio della lingua latina come mezzo per formare la mente, insegnare la logica e il ragionamento, ecc.). Quando poi si era abbastanza seri da rendersi conto delle contraddizioni e della precarietà che la civiltà greca, come ogni altra civiltà umana, portava dentro di sé (né è naturalmente per noi concepibile assumere come modello una civiltà precristiana), e dell’assurdità di studiare una lingua per altri scopi che non fossero l’incontro con la civiltà che l’ha prodotta (senza dire che la lingua latina, se una logica insegna, insegnerà la sua logica, vale a dire ancora la logica aristotelica e ad ultimum la nostra logica, non certo la logica in assoluto) si tornava ancora al punto di partenza. Nel convegno di Bergamo affrontammo dunque per la prima volta insieme il problema, anche se alcuni di noi da tempo, singolarmente o in piccoli gruppi, se l’erano posti ed erano giunti ad alcune conclusioni. I risultati di Bergamo, per la parte che ci riguardava, furono evidentemente iniziali e precari, come apparve chiaro a chi ne lesse la relazione. Ma era già assai importante che la questione fosse posta e che in un convegno di insegnanti fosse dato spazio ad un settore della scuola fino ad allora poco considerato anche nel movimento, sull’onda di preconcetti assai diffusi.
Rilevavamo allora come studiare la civiltà greco-romana significasse anzitutto «recuperare il legame con le origini della nostra storia, mentalità, tradizione», in una società in cui «la scuola stessa, che di tale tradizione dovrebbe aiutare a far memoria pur senza sterili nostalgie, educa sempre meno lo sguardo a guardar lontano». Ricordavamo inoltre l’importanza di conoscere una civiltà che ha attuato «un affronto particolarmente significativo e maturo dei problemi fondamentali dell’uomo» e in cui si è storicamente incarnato l’annuncio cristiano.
Molto iniziale era l’analisi dei motivi di rifiuto di questi studi da parte della cultura attuale: rilevavamo soprattutto la preminenza data alla scienza e il sospetto verso la civiltà romana, particolarmente, in séguito alla strumentalizzazione che ne aveva fatto il fascismo. Ma il dato più importante del convegno fu il desiderio emergente di continuare in un lavoro, sia singolarmente sia in comune. Naturalmente un lavoro in comune, data la diversa dislocazione geografica, era assai diffìcile. Decidemmo allora di rivederci periodicamente, nei limiti della possibilità di spostamenti, e di tenerci in contatto per lettera: a me e a mio marito, fu chiesto di fare da tramite. Negli anni trascorsi da allora abbiamo cercato di svolgere questo compito.
Superare l’«assenteismo» della cultura cattolica
Un desiderio che sentivamo urgente dentro di noi era quello di allargare il campo delle persone con cui confrontarci, di aprire cioè un dialogo con chiunque altro insegnasse o studiasse questa cultura: forse la cosa apparirà strana a chi insegna altre materie, tenendo conto, come si è detto, che era già difficile mantenere i rapporti con i pochi del gruppo iniziale; ma per noi era urgente contribuire a far nascere il problema del significato di questi studi, proprio perché era il problema in sé il grande assente nel mondo della scuola e dell’università e, spiace dirlo, soprattutto negli ambiti culturali cattolici. Di recente, infatti, avevamo partecipato ad un corso di aggiornamento nazionale, dove ci aveva colpito la massiccia, per non dire unica, componente marxista fra i relatori e il livello tecnicamente avanzato, pur se assai unilaterale e riduttivo, degli interventi. Ci pareva che anche il problema di fondo fosse, in quell’ambito, affrontato, se pure di striscio, con una risposta essenzialmente sociologica. Tale risposta (che si può sostanzialmente riassumere così: si studiano gli autori greco-romani per conoscerne le strutture sociali) ci sembrava limitata e strumentalizzante, ma era pur sempre una risposta ad una domanda: più grave era il fatto che altrove, specie negli ambiti a noi più vicini, neppure ci si ponesse la domanda e si continuasse a lavorare nell’illusione di una neutralità e non problematicità del proprio lavoro.
Le possibilità di incontri sono state in questi anni veramente molte, in parte ricercate da noi, in parte fortuite o meglio provvidenziali: abbiamo potuto conoscere insegnanti e universitari di Milano, Torino e Genova; attraverso le trasferte per gli esami di maturità abbiamo avuto contatti con Napoli e Catania; altre persone abbiamo conosciuto nei convegni di Rimini del 78 e 79. Parecchie di queste persone erano, come si è detto, studenti universitari; e questo ci pare importante, non solo perché in gran parte si trattava di futuri insegnanti (alcuni anzi lo sono nel frattempo diventati) ma soprattutto perché il significato e le modalità di affronto di questi studi sono problema a nostro parere comune a chi studia all’università, a chi insegna e chi fa ricerca: anzi proprio all’università (a livello di studenti o di ricercatori) c’è maggiormente il rischio di ridursi a puri tecnici, dato che manca l’impatto, spesso anche se non sempre stimolante, con i discenti. Una particolare modalità di incontro ci è stata offerta dai corsi di Nuova Scuola, che abbiamo tenuto, in tre diverse tornate, fra il 78 e il 79: i primi due, aperti anche a universitari, affrontavano il problema fondamentale, che avevamo nel frattempo approfondito, e lo esplicitavano in tentativi di lettura di alcuni autori; il terzo, più particolarmente didattico, riguardava l’insegnamento linguistico del latino e ci ha permesso di incontrare situazioni scolastiche assai differenti fra loro (vale a dire scuole in cui il latino è, almeno inizialmente, scelto, come il classico, e scuole in cui è subito, come lo scientifico e l’istituto magistrale), nonché esperienze didattiche già in atto. Ancora sono stati per noi possibilità di verifica, questa volta direttamente con studenti liceali, vale a dire con i naturali fruitori e desti-natari del nostro lavoro, alcuni momenti di sperimentazione e alcuni incontri svoltisi sia nel liceo dove insegnavamo sia in licei privati di Milano e provincia.
Possiamo cominciare a trarre alcune conclusioni, necessariamente multiformi e anche contraddittorie. Ricordiamo che abbiamo sempre avuto rapporti con «addetti ai lavori», cioè con persone che, seppure a diversi livelli, hanno scelto di affrontare questo tipo di studio o di professione; nella maggioranza dei casi si tratta anche di persone coinvolte nell’esperienza cristiana sebbene talora con diverse sottolineature. Abbiamo trovato a volte un desiderio molto vivo di riscoprire un significato in ciò che si stava studiando o insegnando; altrove invece era più emergente un desiderio di ricercare tecniche e modalità nuove di approccio e di comunicazione. Entrambi ci sembrano dati positivi, anche se a volte rilevavamo da un lato una certa timidezza nell’essere da sé creativi, di rischiarsi personalmente nel tentativo di darsi risposte e di verificarle in modo che fossero fruibili da altri, dall’altro il pericolo di far prevalere la tecnica sulla ricerca del valore. Più ci ha preoccupato però una tendenza che è apparsa soprattutto negli ultimi anni abbastanza diffusa, specie a livello universitario e di giovani ricercatori; o meglio, un’inversione di tendenza rispetto ad un’altra, opposta e altrettanto discutibile, di alcuni anni fa. Allora ci era capitato di notare una sorta di complesso di inferiorità in chi affrontava questi studi, perché sarebbero stati causa di un estraniamento dal mondo «reale», oggetto di presenza e di missione. Ora invece capita spesso di incontrare posizioni di «pura professionalità», per cui il richiamare l’urgenza di porsi delle domande e di fare di esse l’oggetto fondamentale del proprio (serio) lavoro sembra essere una perdita di tempo rispetto al lavoro (vero e ufficiale) dell’università. Non conosciamo sufficientemente altri ambiti per sapere se questa tendenza è comune anche ad altri campi della ricerca.
Alcuni esiti del lavoro: saggi e libri di testo
Parallelamente al desiderio di allargare la cerchia di conoscenze e di confrontarci personalmente con altre persone, soprattutto fra quelle vicine nell’esperienza di fede, era sorta in noi la decisione di comunicare alcuni giudizi che ci parevano già abbastanza maturi attraverso i normali canali dell’editoria scolastica. Ci sembrava importante verificare nel concreto della lettura di alcuni autori la serietà di quanto andavamo dicendo; inoltre sapevamo che il libro di testo è ancora assai importante (anzi i ragazzi sono nei confronti del testo fin troppo recettivi) ed era impossibile incidere sulla scuola senza passare attraverso i suoi strumenti. Nacquero così, nel 77 e nel 78, i primi due testi, entrambi per l’ultimo anno del classico. Inoltre, nel settembre del 78, usciva un breve libro in cui cercavamo di sintetizzare i punti fondamentali che avevamo elaborato in quegli anni. Venivano riprese e approfondite le intuizioni di Bergamo sul valore della tradizione, sul senso religioso nella cultura greco-romana, sull’incarnazione del Cristianesimo in questa cultura; si precisava con maggiori strumenti l’analisi dello status quaestìonis; si proponeva un metodo di lettura, tenendo anche conto del problema cruciale dello studio linguistico.
I convegni di studio: nascita del bollettino Zetesis
A Bergamo ci era stato chiesto di fare da tramite: ciò che abbiamo finora raccontato sembra essere altro rispetto al compito assuntoci. In realtà abbiamo cercato di fare in modo che le persone e le realtà da noi incontrate potessero a loro volta incontrarsi. Abbiamo in particolare proposto, circa due volte l’anno, un incontro nazionale (una volta a Bologna, le altre a Milano), invitando insegnanti e universitari con cui eravamo in contatto. Va da sé che la sede escludeva la partecipazione del centro-sud: ma in attesa di possibilità migliori ci siamo trovati ugualmente con chi riusciva ad essere presente. Facciamo alcune considerazioni critiche su questi incontri. Un dato indubbiamente problematico è stato il cambiamento, a volte rilevante, dei partecipanti. Non abbiamo purtroppo tenuto un resoconto neppure schematico, perciò non potremmo dire quante persone abbiano partecipato costantemente a tutti gli incontri: sappiamo però che la maggior parte di volta in volta cambiava (magari «rientrando» la volta successiva), per cui è stato evidentemente difficile proseguire un discorso senza dover ogni volta riprenderlo da capo. Anche la proporzione fra insegnanti e universitari si è più volte invertita, e di conseguenza modificato il taglio d’affronto del problema.
Un altro rischio che abbiamo corso fino all’anno scorso è stato quello di credere che il trovarci insieme fosse di per sé un valore, anche indipendentemente dai risultati pratici dell’incontro. Fondamentalmente il tema di ogni convegno era il resoconto di ciò che ognuno di noi nel suo ambito aveva fatto o progettava di fare: progetti editoriali, prevalentemente, da parte nostra; racconto di iniziative universitarie o di difficoltà didattiche da parte degli altri partecipanti. Ma spesso non c’era in tutti noi il desiderio di contribuire alla costruzione di qualcosa; c’era soprattutto la gioia di vedersi, di non sentirsi isolati e di ricevere suggerimento o aiuto. Mancava insomma, ci pare, una effettiva corresponsabilità e una seria riflessione sul valore degli incontri.
I due convegni dello scorso anno (marzo e dicembre 79) hanno segnato, ci pare, una maturazione. Nel convegno di marzo è emersa la proposta di creare uno strumento di collegamento stabile fra singoli e gruppi che si interessino a qualunque titolo alla cultura greco-romana. L’idea, nonostante le difficoltà pratiche di realizzazione, è stata varata: in ottobre è uscito il primo numero di un bollettino, con lo scopo di comunicare tentativi di lettura, esperienze didattiche e universitarie, recensioni, notizie di tesi ecc.
La nostra speranza è che questo strumento serva da stimolo alla creatività di tutti, e da tramite per quelle persone e realtà che difficilmente potremmo reincontrare di persona.
La redazione di Zetesis (questo il nome del bollettino), composta da sei persone, si è assunta anche l’organizzazione del convegno di dicembre che, per la prima volta, ha avuto un argomento ed una struttura precisi. In particolare il lavoro della mattina si è incentrato su una relazione, tenuta da due giovani insegnanti, sulla lettura dei classici svolta da parte marxista: ne è nato un dibattito che ha fatto registrare contributi, a nostro parere, molto seri, che partivano dalle diverse esperienze di insegnamento o di studio valutate criticamente. Per la prima volta ci pare sia stata raggiunta una corresponsabilità (o almeno un allargamento di responsabilità) nella preparazione e una partecipazione matura e attiva della maggior parte dei presenti. Ci sembra che le prospettive per una continuazione del lavoro siano buone.
Note
(1) Presentiamo qui un documento apparso sulla rivista Libertà di Educazione nell’anno 1980. Si tratta in sostanza dell’atto di nascita di Zetesis, ancora presentato come “bollettino” di collegamento tra un gruppo di giovani insegnanti che cercavano strumenti adeguati per valorizzare e fare crescere la propria professionalità e mettevano in discussione il significato della propria presenza nella scuola e nell’università. Benché siano passati venticinque anni, e molti problemi accennati si presentino oggi in maniera diversa e più sfumata (mentre altri problemi si fanno presenti nella quotidianità del lavoro scolastico), ci sembra utile proporre ai nostri lettori ed amici la lettura questo articolo, se non altro come come occasione per riflettere sulle modificazioni che hanno dato origine al nostro lavoro sul suo taglio specifico. Per molti aspetti l’articolo si presenta come relazione ad uso fondamentalmente interno, e accenna a momenti d’incontro e di scambio di idee svoltisi in anni lontani: lasciamo tuttavia l’articolo così com’era nella sua veste originaria, senza note chiarificatrici e senza alcuna esplicitazione dei riferimenti, aggiunte tutte che nuocerebbero all’immediatezza della lettura e farebbero venir meno lo spirito della nostra ripresentazione dello scritto nel sito.