Home Proposte di lavoro e di lettura Signori della parola. L’incontro con i poeti greci arcaici e classici

Signori della parola. L’incontro con i poeti greci arcaici e classici

by Giorgio Zangrandi

di Moreno Morani

da Il nuovo Areopago, anno I numero 1, primavera 1982, pp. 141-151

È esperienza comune a molti lettori, anche non specialisti, nel momento in cui affrontano testi letterari greci, quella di trovarsi a proprio agio in una sensazione di profonda sintonia con l’autore, nonostante il divario di secoli e millenni che lo separa da noi: una sintonia che spesso riesce difficile trovare di fronte a testi che, per ragioni di spazio o di cronologia, dovremmo ritenere più vicini a noi e quindi in una situazione di maggiore consonanza col nostro modo di pensare o con la nostra formazione culturale. Interrogarsi sulle ragioni di quest’impressione può essere utile e illuminante per scoprire alcuni dei valori più profondi che la cultura greca ha trasmesso fino a noi.

Vogliamo precisare subito che, nel parlare di testi letterari greci, noi ci riferiremo qui soltanto alle opere del periodo classico nel senso stretto del termine, cioè al periodo arcaico e al periodo della polis. Trascureremo l’ellenismo, in quanto esso rinnega di fatto alcune delle istanze più genuine della cultura greca. È innegabile infatti che l’ellenismo rappresenta un momento di rottura rispetto alla civiltà classica; e in particolare esso rinuncia a due tra le principali caratteristiche che avevano fatto dell’arte classica qualcosa di vivo e di perenne. Se l’arte classica ha come sue motivazioni più profonde il bisogno di comunicare sé stessi e il proprio mondo spirituale a un pubblico e il desiderio di affrontare in modo appassionato i problemi che da sempre impegnano la coscienza umana, l’arte ellenistica si pone in perfetta antitesi rispetto a entrambe queste motivazioni. Da una parte il poeta ellenistico non desidera creare un colloquio fra sé e il pubblico: condotto a ciò forse anche dalla mutata situazione politica, ripiegato su sé stesso e privo di un punto di riferimento preciso, quale poteva essere la polis, a cui rapportarsi, il poeta ellenistico non si preoccupa neppure della possibilità di essere o meno compreso. Inquadrati nello stereotipo del poeta doctus, i vari Callimaco, Fileta, Apollonio non desiderano essere apprezzati se non dai loro colleghi poeti, ed elaborano un’arte estremamente raffinata ed elegante, ma profondamente vuota. D’altra parte la poesia ellenistica, salvo poche eccezioni, non si pone neppure nella prospettiva di interrogarsi e di sviluppare le grandi problematiche a cui la poesia classica aveva tentato di dare una risposta: il perché della vita, il rapporto fra uomo e dio, il senso della morte e del dolore, la soggezione dell’uomo al destino, l’impegno alla costruzione di una società a misura d’uomo, sono tutti spunti che invano si cercherebbero nei testi dell’età ellenistica; col venir meno di un profondo, seppure spesso contraddittorio, senso religioso, col decadere della religione ufficiale verso l’esteriorità di culti sempre più sfarzosi e sempre meno partecipati dall’individuo, con l’isterilirsi della critica religiosa di stampo razionalista, che, al termine della sua traiettoria, porta nell’età posteuripidea a una sconsolata rinunzia della ragione umana di fronte a sé stessa, accontentandosi ormai l’uomo di vedere negli avvenimenti del mondo nient’altro che gli esiti di una tyche cieca e capricciosa, abbiamo una frattura netta fra gli ideali umani e artistici delta polis e quelli dell’ellenismo. All’interno dell’ellenismo e in stretto riferimento ad esso, si ha il sorgere della cultura letteraria romana: ma questa ha il merito di inserire nella cultura ellenistica ormai esangue una robusta concretezza, dando vita a un mondo culturale profondamente originale e nuovo. Anche il cristianesimo avrà l’ellenismo come primo interlocutore, ma sembra superfluo sottolineare come la novità di vita annunciata dall’evangelo finisca per risignificare in modo completamente rinnovato tutti gli aspetti del mondo pagano, e come le stesse forme artistico- letterarie cristiane, pur prendendo a prestito dall’ellenismo molte caratteristiche esteriori, finiscano per riempire di pulsazioni nuove e vitali tutte le forme espressive che, nell’esaurirsi della cultura pagana, si avviavano o verso l’altisonante fatuità della retorica fine a sé stessa o verso l’inconcludente ipercriticismo lucianeo o verso il languido misticismo ermetico.

Ma un altro elemento che nettamente distingue l’arte classica da quella ellenistica. e sul quale è importante riflettere, è quello del realismo. Col mondo ellenistico nasce, in letteratura come nelle arti figurative, il desiderio di imitare la realtà: il poeta o l’artista tendono a rappresentare piccoli momenti della vita quotidiana, e nascono così i mimiambi di Eroda o gli idilli di Teocrito, nascono gruppi statuari quali il notissimo putto che strangola l’oca o la vecchia ubriaca. Nulla di tutto ciò avviene nell’età classica. Se consideriamo ad esempio il teatro della polis, osserviamo immediatamente come non vi sia nessun interesse, né da parte del pubblico né da parte dell’artista, ad una qualunque verosimiglianza nella rappresentazione teatrale. Il mondo che lo spettatore osserva sulla scena è quanto mai lontano dall’esperienza quotidiana che egli vive: gli attori portano vestiti che una tradizione scenica impone, mentre la maschera tragica sul loro volto rende definitivamente fissata, fin dall’inizio del dramma, la loro espressione, immutabile per tutto il corso della tragedia. Lo stesso attore che fino a un momento prima recita la parte di un personaggio può allontanarsi e dopo pochi istanti tornare sulla scena per rappresentare un ruolo diverso, e il pubblico non sarebbe in grado di riconoscerlo, se il coro non provvedesse a dirgli preventivamente quale personaggio del dramma sta per entrare sulla scena. La lingua è lontana da quella parlata, e anche in essa si nota l’assoluto disinteresse per un qualsiasi desiderio di verosimigilanza: il coro nelle parti a lui riservate parla in una lingua artificiale caratterizzata da una vaga patina dorica, ma poi nei dialoghi con gli attori usa una lingua, altrettanto artificiale, che nasce dall’incontro tra il dialetto attico di Atene e la tradizione linguistica epica. Analogamente gli attori, che per tutto il corso del dramma parlano in attico, nel momento culminante della tragedia, quando maggiore è la tensione, passano inaspettatamente dall’attico al dorico. Ancora, la vicenda che lo spettatore vede svolgersi sulla scena è attinta al mito, vale a dire fa parte della storia sacra della polis, è elemento di un patrimonio culturale comune: egli già conosce le vicende dei vari Edipi, Agamennoni o Elettre che vede parlare e muoversi sulla scena; se va a teatro, e addirittura se sente il teatro come parte integrante e necessaria della sua esperienza di cittadino, non è per il desiderio di vedere una vicenda nuova od originale, in cui l’intreccio proponga colpi di scena improvvisi, bensì per sentirsi provocato dalla parola del poeta, che lo invita a riflettere sulle domande che ogni essere umano percepisce dentro di sé. Nulla di quello che avviene sulla scena, né per il modo in cui il dramma si svolge né per le vicende che vengono proposte, è realistico: tutto è collocato in un mondo lontano, fuori dello spazio e del tempo. L’unica tragedia giunta fino a noi che tratti di una vicenda storica anziché di un mito, vale a dire i Persiani di Eschilo, obbedisce al medesimo criterio: personaggi lontani e fuori del tempo, collocati. in una situazione di grande distanza non solo geografica ma anche culturale, Atossa, Serse e Dario sono poco dissimili dagli eroi del mito. I loro tratti realistici sono quasi del tutto eliminati, e anche questa tragedia tenta di realizzare, con premesse in parte diverse ma con conclusioni analoghe, quell’elemento che fa della tragedia greca classica non solamente qualcosa di unico, ma anche la sottrae a qualunque tipo di definizione che parta da categorie di pensiero moderne. Ed è notevole che, con tutto quello che si è detto, il pubblico ateniese sentisse questa forma artistica estremamente vicina alla sua esperienza: il partire da un patrimonio culturale comune e l’eliminare tutti i contorni realistici dallo spettacolo teatrale consente, con esito che può indubbiamente sorprendere noi moderni abituati a diversa concezione teatrale, una comunicazione più diretta tra il poeta e lo spettatore. Prova ne sia il sospetto con cui fu visto e la scarsa fortuna che ebbe tra i suoi contemporanei Euripide, il quale per primo si prefisse di innovare, modificando o addirittura cancellando alcuni dei tratti che, proprio in quanto costituivano l’essenza più originale del dramma attico, non potevano essere eliminati se non con una perdita di significato più o meno completa della stessa forma letteraria.

La tragedia attica dunque ci aiuta a capire entro quale ottica avvenisse nell’Ellade antica il rapporto fra poeta e pubblico. Il lettore, lo spettatore, l’ascoltatore si pongono di fronte al fatto letterario con un solo desiderio: l’incontro con l’assoluto. Un’opera letteraria può essere considerata riuscita, quando i suoi personaggi o ciò che essa descrive non fanno più parte del contingente, ma si situano in un mondo diverso, spogliato di ogni caducità, estrapolato da ogni nozione di spazio o di tempo. Il lettore e lo spettatore desiderano porsi in contatto con un mondo ideale, in cui gli eterni problemi dell’uomo acquistano il risalto di una continuità perenne e l’eccezionalità paradigmatica che solo un mondo di esseri dotati di qualità straordinarie e continuamente a contatto col mondo degli dèi può avere in sé.

E possibile notare che, in definitiva, anche lo storico è mosso dal medesimo intendimento. Quando Erodoto afferma di scrivere la sua opera perché gli avvenimenti degli uomini non diventino sbiaditi nel tempo e opere grandi e mirabili messe in atto sia dai Greci sia dal barbari non siano prive di gloria, o quando Tucidide afferma di voler fare della storia un “patrimonio perenne” (Thuc. I 22), essi non fanno che ribadire questo desiderio di sottrarre l’operare umano alla dimensione della caducità per collocarlo in un ambito diverso, dove la corrosione del tempo non può erodere e far svanire la memoria. Scopo delta poesia così come della storia è dunque quello di creare una memoria: se gli eroi del passato come Achille o Ettore sono sopravvissuti, non è tanto per la grandiosità delle loro imprese, quanto per aver trovato chi consentisse alle loro gesta di sottrarsi all’oblio. Allo stesso modo i signori delle città greche vedono una speranza di eternarsi non tanto grazie ai loro meriti o alle loro vittorie nelle gare olimpiche, bensì nel trovare chi sappia protrarre la memoria delle loro imprese: e questo giustifica il loro desiderio di far cantare da poeti come Pindaro le proprie vittorie.

In questa prospettiva la figura del poeta viene ad assumere, soprattutto fino alla nascita di una storia nel senso moderno della parola, un’importanza eccezionale. Il poeta è il signore della parola, così come la parola è signora delta memoria; arbitro inappellabile, il poeta. decide ciò che potrà superare la barriera del tempo e ciò che invece sarà irreparabilmente condannato alla dimenticanza. La lode o il biasimo del poeta non valgono solamente in sé: valgono come giudizio definitivo di fronte all’eternità. Egli trae dal suo intimo le motivazioni di questo giudizio, ma la fonte del suo sapere non è all’interno di lui, bensì gli proviene dal dono che gli dèi gli hanno fatto di mettersi in comunicazione in modo diretto con la Musa, la figlia di Memoria, che anche nel suo nome indica il connubio continuamente ribadito nella Grecità arcaica e classica fra poesia e ricordo. Accenni alla sacralità della figura poetica sono disseminati nei poemi omerici: se Omero avrà la capacita di riferire in modo completo l’elenco degli eroi partecipanti alla guerra di Troia (Il. II 484 e ss.), è solo perché la Musa gli detterà una serie di dati che egli da solo non potrebbe sapere, se Femio può sperare di non essere messo a morte durante l’eccidio dei proci (Od. XXII 344 ss.), è perché può ricordare la particolare protezione che Apollo accorda agli aedi. Un dono divino dunque la poesia, e come di tutti gli altri doni divini (la bellezza, l’intelligenza, la forza), l’uomo deve farne buon uso: il tracio Tamiri, che si era vantato di poter vincere le Muse, fu duramente punito: le Muse lo resero storpio e gli tolsero l’arte del canto. Quest’idea della poesia come dono divino, dell’ispirazione come “divina follia”, percorre tutta la letteratura classica, da Omero a Democrito a Pindaro, fino alla teorizzazione dello Ione platonico, in cui viene esplicitamente detto che la poesia crea un rapporto diretto tra l’uomo e il dio attraverso i due anelli intermedi del cantore e del poeta. Vigorose sono le espressioni che la letteratura greca dedica alla poesia e alla sua capacità di affascinare e incantare. Gorgia afferma che la poesia provoca nell’ascoltatore un brivido di spavento, lacrime di compassione, desiderio struggente di dolore, e l’anonima Vita di Eschilo ci descrive i padri costretti a coprire i volti dei figli col mantello, per sottrarli alla visione e all’ascolto di parole tragicamente cariche di senso e capaci di afferrarli fin nel profondo della loro persona. È quanto troviamo espresso già nell’inno omerico ad Ermes, quando ci viene descritta la figura di questo dio che al suono delta cetra “realizzava gli dèi immortali e la terra tenebrosa” (v. 385). La poesia non evoca, bensì “realizza”, fa vivere nel senso pieno del termine: la parola usata dall’autore è kraínei, un verbo che nel linguaggio epico si usa in senso motto concreto, per dire che una parola, un ordine, una imprecazione raggiunge il suo esito desiderato, viene tradotta cioè in realtà. L’espressione artistica si trova dunque in una posizione particolare: il mondo creato dalla poesia è una finzione, è un mondo inventato, eppure esso si presenta con contorni di verità e di esistenza che ne fanno un mondo pienamente legittimato ad esistere accanto al mondo reale.

Questo modo di concepire la poesia, e questa visione profetica del poeta, oltre a implicare importanti conseguenze inerenti il rispetto che nell’ambiente delle corti o nella polis gli era dovuto in quanto, come detto, intermediario fra l’uomo e gli dèi, comporta anche la necessità di studiare la tecnica che egli usa.

La prima osservazione concerne l’importanza che ha la parola nella poesia greca. Se la parola non soltanto evoca, ma addirittura crea un mondo che ha tutte le caratteristiche del mondo vero, nel linguaggio poetico, che per natura conferisce alla parola una pienezza di significato e una potenza creativa assai superiore a quella che la parola può avere nel discorso normale, essa sarà valorizzata in una maniera assolutamente eccezionale. Non si dimentichi che il termine per indicare in greco la parola, lógos, presenta tutta una serie di significati e di sfumature ignote al corrispondente termine italiano: il lógos è lo strumento per conoscere la realtà, ma esso è nello stesso tempo interpretabile in senso razionale (lógos = “ragione”) e carico di implicazioni extra-razionali o addirittura irrazionali (la parola poetica come ricca di fascino, o la parola capace di magie), secondo una duplicità di carattere tipica dell’anima greca, sempre pronta a portare fino agli estremi l’analisi razionale delle cose e ad accettare la possibilità che esistano altre vie non razionali per mettersi in contatto e conoscere la realtà. In questo senso la contrapposizione che usualmente si fa del lógos col mythos non è da intendere come assoluta: si tratta piuttosto di due vie di conoscenza, l’una complementare dell’altra: così almeno fino a Platone.

La linguistica moderna ha introdotto il concetto di valenza delle parole: a seconda della loro latitudine semantica alcuni termini accettano di essere saturati da un numero più o meno grande di altre parole che ne realizzano in modo più specifico il contenuto. Il verbo fare accoglie un numero pressoché illimitato di soggetti o di complementi oggetti; il verbo nitrire accoglie nel linguaggio comune pochi termini come soggetto e, salvo contesti particolarissimi, nessun complemento oggetto. Nel linguaggio prosastico il contesto tende a delimitare il senso di una parola, e quindi, al fine di sopperire ad ovvie necessità di precisione nel comunicare, a coartare il potere evocative dei segni linguistici. Una parola come verde può offrire, presa isolatamente, una serie notevole di suggestioni, che vanno dal riposo, alla tranquillità della natura, all’idea della speranza [si ricordi il “divino del pian silenzio verde” del Carducci]; ma se dico la verde stoffa del tuo abito la stessa parola, impiegata unicamente per precisare ua qualità di un determinato oggetto, perde gran parte della sua suggestione. Nel linguaggio poetico, e in particolare in quello greco, si osserva un procedimento molto diverso: ogni parola mantiene la sua pregnanza, e l’accostamento di più termini, anziché delimitare i contorni di ciascuno di essi, fa in modo che il potere evocativo di ognuno si assommi a quello dei termini vicini, e spesso l’unione di parole che nel linguaggio comune avrebbero poco a che fare l’una con l’altra crea un allargarsi enorme dell’orizzonte e un incrociarsi di riferimenti e di suggerimenti, che rendono il testo del poeta classico, al di là di una difficoltà o, in certi casi, di una freddezza del tutto apparente, capace di offrire impressioni e sensazioni sempre nuove ogni volta che lo si affronta. La tecnica che abbiamo indicata è portata fino alle estreme conseguenze nei lirici e nei tragici: Pindaro ed Eschilo si propongono proprio di creare ampiezza di significato valorizzando ogni singola parola in tutta la sua pregnanza e in tutti gli echi che sa fare sentire. Quando, nel Prometeo di Eschilo, Io afferma di essere giunta alla presenza del dio “violentemente spinta dagli oltraggi digiuni dei balzi, domata dai pensieri di Era pieni di rancore” (vv. 599-601), la vicenda delta fanciulla, il suo vagare, la rabbia della dea offesa, il digiuno, il procedere ferino sono tutte notazioni che cogliamo assai più fortemente che se il poeta ci avesse narrato distesamente dal principio la vicenda di Io. Quando, nella stessa tragedia, Prometeo avverte la ragazza che dovrà guadare un fiume nel Caucaso, in un punto in cui “il fiume spira il suo vigore fin dalle tempie stesse” (vv. 720-1), la descrizione del paesaggio è fatta attraverso il sovrapporsi di più immagini, ma il realizzarsi dell’idea è completo: abbiamo dinanzi agli occhi la violenza di un fiume, ricco di acque già nei pressi della sua fonte, nella parte più alta dei monti da dove scende. Nell’Agamennone, quando il poeta vuole accennare all’uccisione di Ifigenia, Calcante parla di “un diverso sacrificio, contro l’usanza, senza banchetti, consanguineo artefice di litigi, privo di rispetto per il marito” (vv. 150-151): un nucleo di aggettivi composti riuniti in grappolo attorno a un unico sostantivo, ed è completa la descrizione del gesto che Agamennone fa e subisce insieme, destinato ad allontanare da lui la moglie Clitemestra, fino a farle perdere nel rancore per la figlia uccisa ogni amore per il marito, fino insomma all’omicidio.

Quanto abbiamo detto, finora, osservando i tentativi operati dall’autore greco di sottrarre l’arte al contingente e di valorizzare appieno la parola poetica, può essere una prima, seppure parziale risposta al quesito che avevamo posto all’inizio. E non è fuori luogo ricordare che una tecnica analoga di valorizzazione della parola si può trovare in molti grandi poeti dell’epoca moderna, da Ungaretti a Lorca, da Kavafis a Eliot. Pertanto la nostra immediata simpatia verso la poesia greca può nascere anche dal fatto che la tecnica della poesia greca e quella di molta grande poesia moderna hanno molti e significativi punti di contatto, e il poeta greco, così come molti moderni, desidera un’espressione il più possibile potente del proprio fantasma poetico, sgombra da ogni ricercatezza retorica. Ma ci sono ancora altri motivi di rifiessione che paiono avere un certo interesse.

La poesia greca attrae la nostra attenzione per il modo con cui esprime la realtà percepita dall’autore. Per provare quest’affermazione si può usare come reagente un famosissimo frammento di Alcmane, la descrizione della quiete notturna.

Dormono le cime dei monti e le forre, / i burroni e le balze, / e le schiere di animali, quante nutre la nera terra, / e le fiere abitatrici dei monti e la stirpe delle api / e i mostri negli abissi del purpureo mare: / dormono le schiere degli uccelli dalle larghe ali. (fr. 89 P = 58 D).

Il notturno di Alcmane è il capostipite di tutta una lunghissima serie di riletture e di imitazioni (non solo letterarie) che, attraverso Apollonio Rodio e Virgilio, giunge fino a Dante, al Petrarca, al Tasso e via via fino a noi. Ecco come un poeta collocato a metà fra classicismo e romanticismo, il Goethe, rivede la medesima scena:

Su tutte le vette è pace; / in tutte le cime degli alberi tu avverti / appena un alito; / gli uccelli tacciono nel hosco. / Attendi soltanto; fra poco / riposi anche tu.

Non sono lecite, ovviamente, conclusioni di tipo estetico o estetizzante. L’essenziale per noi è notare che nel lirico greco la descrizione è oggettivazione: la persona del poeta è assente; il senso di pace e di riposo è ottenuto attraverso la contemplazione della natura: la traiettoria è dall’io verso il mondo. Nel poeta moderno è il mondo che viene vissuto nell’intimità dell’individuo. la forte impressione proveniente dalla natura genera il sentimento, e il poeta si sofferma su quest’ultimo. Dovremmo aggiungere che nel lirico greco ogni parola, ogni aggettivazione si colloca all’interno di una tradizione poetica: egli non inventa quasi nulla; la terra nera, così come gli uccelli dalle larghe ali fanno parte del suo modo naturale di esprimersi, e danno all’ascoltatore il senso di una continuità all’interno di una tradizione, offrendogli degli strumenti di facile e immediate comunicatività. la stessa scelta delle forme dialettali (nel nostro caso miste ioniche e doriche) accentua nell’ascoltatore antico quest’impressione, difficilmente percepibile da noi moderni. Se si esaminassero le imitazioni alcmanee, si noterebbe subito che l’assenza del patetico e l’assoluta oggettività sono caratteristiche precipue del lirico antico: già l’imitazione ellenistica di Apollonio (Argon.III 744 ss.) introduce la nota patetica (l’accenno al sopore della madre cui è appena morto un figlio) per caricare e accentuare l’intensità del quadro, ottenendo invero effetti opposti a quelli desiderati.

L’assenza dell’elemento sentimentale o patetico nel lirico greco non significa naturalmente assenza del sentimento: semplicemente, anche quando parla di sé stesso il poeta antico si muove nella stessa direzione di Alcmane: egli si osserva, contempla la propria gioia e il proprio dolore, e il suo far poesia è l’espressione piena di questo attento esame su di sé.

In un notissimo frammento (2 D. = 31 L.P. = 31 V.) Saffo esprime la potenza della passione amorosa che l’avvince; l’anonimo autore del De sublimitate, che ha conservato l’inizio dell’ode, nel riferire il frammento sembra cogliere appieno i motivi delta sua grandezza artistica: “Saffo sa cogliere ogni volta le sofferenze inerenti alla follia amorosa sia dagli effetti che la seguono sia dalia verità stessa. In che cosa rivela la sua capacità? In quanto è capace di scegliere e di legare fra di loro gli elementi estremi di esse e maggiormente ricchi di tensione”. In poche parole l’anonimo ci dà la migliore descrizione dei motivi di validità della poesia: la capacità di osservare la realtà e di saperla comunicare nei suoi aspetti più “terrificanti” (è lo stesso autore a usare poco dopo questa parola). La poesia greca è una poesia che nasce dalla verità, e cerca di dare a questa verità un valore perenne: anche chi descrive la propria malinconia personale (come Mimnermo) o il prorompere prepotente della propria individualità (come Archiloco) si attiene a questo modulo: il desiderio di comunicare la verità della propria persona, conferendole una dimensione diversa attraverso l’oggettivazione e la contemplazione dei propri sentimenti ed eternandola attraverso l’inserimento di essa in una norma di linguaggio poetico che rende facilmente percepibili i contenuti espressi dal poeta.

Tornando al frammento di Saffo, possiamo notare che anch’esso è all’origine di tutta una serie di rifacimenti e di imitazioni: e anche qui potremmo osservare come già le imitazioni antiche (vedi, ad esempio, il carme 51 di Catullo) mostrano la perdita di quanto di più originale la cultura greca ha creato. Se l’ode di Saffo nasce daila contemplazione della verità e da un bisogno di comunicazione di sé, l’imitazione di Catullo nasce dalla riflessione letteraria e dalla retorica: basti vedere come è maldestro l’attacco, con quell’esagerazione enfatica (“… ille, si fas est, superare divos“) che dà immediatamente al poeta latino un tono falso ed artificioso, rendendolo distante da noi.

A questo punto, possiamo aggiungere alle precedenti risposte parziali alla domanda iniziale un’altra risposta. Le motivazioni che stanno all’origine delta poesia greca consentono un dialogo immediato con la persona che ha creato quella poesia: una poesia che, come detto, nasce dalla contemplazione della verità e dal bisogno di comunicare attrae immediatamente la nostra attenzione, e quando il contenuto di essa corrisponde ai grandi problemi che da sempre hanno destato l’interesse dell’uomo, come il senso del dolore e della morte, o il significato delle proprie azioni, del destino, della vita, il dialogo che s’instaura consente di trovare dei punti comuni tra la nostra esperienza personale e quella del poeta antico, al di là della barriera di millenni e delle differenze di organizzazione sociale che sembrerebbero fare dell’uomo greco qualcosa di indefinitamente lontano da noi.

Ma c’è un ulteriore elemento che sembra importante: abbiamo detto che sia il notturno di Alcmane sia l’ode amorosa di Saffo sono all’inizio di tutta una serie di imitazioni e di riecheggiamenti. Alcmane come Saffo, come Omero e come tanti altri rappresentanti della poesia greca, sono archetipi della nostra tradizione letteraria, e hanno il vantaggio di offrirci la possibilità di riflettere su espressioni genuine, fornendoci una parola poetica non intaccata né dai dettami della retorica né dalle accentuazioni patetiche, che formano invece una inutile incrostazione di molte espressioni artistiche posteriori. Il nostro bisogno di arrivare alle origini delle cose, nonché il nostro profondo disagio per tutto ciò che, anziché nascere dall’esperienza personale, non è altro che il nascondere dietro un’esteriore eleganza formale una vacuità di esperienza o addirittura il tentare la trasfigurazione pseudo-poetica di parole vuote di senso e nate dall’ideologia, sono tutti elementi che inevitabilmente continuano ad accostarci alla poesia greca, facendocela sentire vera e vicina.