di Marta Sordi
1. La rivoluzione romana
La “rivoluzione romana”, per usare un’espressione divenuta canonica col Syme, la “rivoluzione” di cui l’inizio del principato augusteo sanzionò il successo, ebbe come risultato fondamentale la vittoria dell’Italia: l’Italia che aveva chiesto con le armi la parità di diritti e la cittadinanza romana nella guerra sociale del 90, era di fatto rimasta, nonostante la concessione legale della cittadinanza, senza una voce propria nelle tragiche vicende del I secolo.
Le guerre civili erano state guidate dalla vecchia nobilitas romana e la lotta per il potere era rimasta circoscritta a poche centinaia di famiglie.
Il giovane Ottaviano, invece, homo novus egli stesso nonostante l’inserimento, grazie all’adozione di Cesare, nella stirpe patrizia dei Giuli, aveva dato fin dall’inizio una parte preponderante all’Italia, a partire dalla composizione, già nel 44, del suo consilium di amici, estraneo in gran parte alla vecchia nobilitas e formato da homines novi provenienti dai municipi, e fino alla coniuratio del 31, precedente ad Azio, e all’espressione plebiscitaria del consensus nel 12 a.C. quando, dopo la morte di Lepido, la gente affluì cuncta ex Italia per conferirgli il pontificato massimo. L’Italia uscì dunque dalle guerre civili come la vera vincitrice e la classe dirigente dell’impero fu integralmente rinnovata, col ridimensionamento della vecchia nobilitas e con la progressiva estromissione della plebs urbana, che aveva costituito durante le guerre civili la massa di manovra delle grandi famiglie. Il nuovo senato era di fatto, se non formalmente, rappresentativo della nuova realtà, non più strettamente romana, ma italica, che stava alla base dello stato romano, una realtà rispetto alla quale Roma si presentava essenzialmente come un concetto politico, una virtus regendi, una capacità di trasformare mediante la concordia in civitas una moltitudo diversa at-que vaga, dissimile per stirpe, per lingua e per costumi (Sall. Iug. 6,2).
In effetti alla fine del I secolo l’Italia era da tempo un’unità territoriale (il concetto di terra Italia, modellato forse su quello di terra Etruria, risale almeno al III secolo), ma era ben lungi da essere un’unità etnica e un’unità culturale: le stirpi diverse che abitavano l’Italia – ed in particolare quelle che erano consapevoli di una forte tradizione culturale (come Etruschi e Greci) – rivendicavano i loro diritti di progenitura nelle origini di Roma, mentre le stirpi osco-sabelliche identificavano nella loro saeva paupertas (Hor., Carm., I, 12, 41) e nella loro forza bellicosa le radici della grandezza romana. L’integrazione dell’Italia era uno dei problemi fondamentali del principato e comportava la messa in comune dei valori a cui le varie “nazioni” e culture dell’Italia pre-augustea massimamente credevano e il superamento dei particolarismi etnici e culturali che alimentavano la divisione.
2. L’unità di Roma
Virgilio mostra di essere profondamente consapevole dell’esistenza di questo problema fin dal tempo delle Georgiche, la cui composizione, come è noto, comincia nel 39, ma le cui più evidenti allusioni politiche (e i passi su cui voglio ora richiamare l’attenzione) risalgono al 30/29, cioè al periodo dopo Azio.
a. Il primo passo (G. I, 498), riguarda i rapporti tra l’Etruria e Roma ed ha un singolare contrappunto in un contemporaneo carme di Orazio (I, 2).
Il momento della grande crisi delle guerre civili è passato, ma restano ancora, a causa degli attacchi simultanei, nell’inverno del 30/29, dei barbari sul Reno e sul Danubio e dei Parti in Oriente, incertezze e preoccupazioni. Di questo stato d’animo, nel quale il ricordo della Grande Paura che aveva fatto temere intorno al 40 la fine stessa di Roma è ancora vivo ed il futuro si presenta ancora gravido di minacce, sono testimonianza la finale del I libro delle Georgiche di Virgilio e la seconda ode del I libro di Orazio. Lo scelus – vorrei dire il peccato d’origine – che ha attirato su Roma la maledizione e che negli scritti intorno al 40 (Epodi VII e XVI e IV egloga) era stato identificato con il fratricidio di Romolo, preannuncio e simbolo dell’uccisione di Cesare, è stato espiato o sta per esserlo (Verg.: satis iam pridem sanguine nostro | Laomedonteae luimus periuria Troiae; Hor.: cui dabit partes | scelus expiandi, Iuppiter) e Roma ha avuto da Ottaviano la pace interna e attende la vittoria sui nemici esterni. In questa attesa che accomuna i due poeti, il rapporto fra il destino di Roma e quello dell’Etruria è sentito in modo diverso da Orazio e da Virgilio: in Orazio il Tevere, che dell’Etruria è il simbolo, il fiume di Giunone, la dea di Veio, retortis | Litore Etrusco violenter undis (ib. 13/14) si vanta con Ilia (la Troica sacerdos di III, 3, 32) che piange per la morte di Cesare, di vendicare lo scelus e minaccia, contro la volontà di Giove, l’inondazione e la distruzione di Roma; in Virgilio, l’Etrusco Tevere e il Palatino Romano, simboli indissociabili di Roma, sono uniti nella preghiera e affidati insieme agli dei della patria: Di patrii indigetes et Romule Vestaque mater | quae Tuscum Tiberini et Romana palatia servas … La componente etrusca di Roma è affermata chiaramente da ambedue i poeti: ma Virgilio la fonde in maniera indissolubile nello stato romano che si presenta ai suoi occhi come etrusco-romano, Orazio la coglie invece nel momento del supremo contrasto, mentre il fiume, che dell’Etruria è il simbolo, cerca di travolgere Roma stessa, mentre l’Etruria, a cui il calcolo dei saecula assegnava, secondo gli aruspici, una fine imminente, cerca di coinvolgere in questa fine {come si era appunto temuto nella grande crisi degli anni intorno al 40) lo stato romano.
È interessante osservare che in questa occasione affiora in ambedue i poeti – e sembra per la prima volta in modo esplicito – il ricordo dell’origine troiana di Roma; essa non è ancora, né per l’uno né per l’altro (come sarà nell’Eneide e nel Carme secolare) il segno dell’elezione divina, ma semmai la colpa antica (la fraus Laomedontea) che grava sul destino di Roma. Per Orazio, come negli anni successivi per Properzio e per Virgilio, l’origine troiana sembra inoltre collegata con la componente etrusca di Roma: per amore della troiana Ilia, nimium quaerenti (e vien fatto di pensare al muliebre luctum che Orazio esorta, nel XVI epodo, la pars melior del gregge romano ad abbandonare insieme ai litora etrusca per la grande fuga verso Occidente) il Tevere etrusco vuole la fine di Roma.
b. Il secondo passo e terzo passo (G. II, 156 sgg. e II, 532 sgg.) sono un’esaltazione dei popoli italici con le loro caratteristiche etniche e i loro valori, che devono fondersi nell’unità di Roma. Significativamente i due elogi vengono al termine della lode dell’Italia e dell’agricoltura italiana contrapposta all’Oriente e identificata con l’età dell’oro; significativamente il libro stesso che fissa l’identità culturale e civile dell’Italia, come complesso di valori morali e religiosi, parte dalla chiara consapevolezza dell’esistenza di due Italie che devono fondersi. In Georg. II, 136 sgg., che ci dà l’immagine tradizionale dell’Italia magna parens frugum magna virum, le virtù guerriere e contadine si associano nell’uomo italico e permettono di contrapporre il genus acre virum che l’Italia alleva, i Marsi, la gioventù sabella, i Liguri, i Volsci, gli eroi duros bello agli orientali imbelli (v. 166 sgg.). È lo stesso motivo che ritornerà nella rappresentazione della battaglia di Azio nello scudo di Enea del libro VIII dell’Eneide, una delle parti più antiche del poema già note a Properzio nel 26.
c. In Georg. II, 458 sgg. l’esaltazione delle virtù italiche ritorna nelle lodi dell’agricoltura, intesa non come un’attività fra le altre, ma come formatrice di virtù morali: in questo caso però le virtù italiche esaltate non sono più le virtù guerriere, ma le virtù pacifiche, che si manifestano nel rispetto dei vincoli familiari (affetto verso i figli e pudicizia), nella laboriosità produttrice di opulenza, nella pietà religiosa, nel vigore fisico ottenuto attraverso gli esercizi sportivi; anche in questo caso le virtù italiche si incarnano in alcune popolazioni italiche che non sono però le stesse del passo precedente: i vecchi Sabini, i vecchi Latini (Remus et frater), la fortis Etruria (Georg. II, 532 sgg.): viene ribadito in questo passo l’idea, già presente nella preghiera del primo libro delle Georgiche e sviluppata come vedremo nell’Eneide, che lo stato romano nel suo nucleo più profondo nasce dall’incontro fra il vecchio Lazio e l’Etruria ed ha il suo centro vitale, i suoi valori più autentici, nella forza pacificante della pietas e non nella forza guerriera. Affermando questa idea Virgilio riflette, ma forse sarebbe meglio dire ispira, le scelte del regime augusteo, che per il reclutamento dei pretoriani (gli unici reparti armati stanziati in Italia e i custodi della stabilità del principato) sceglieva, come zone preferenziali, l’Etruria e l’Umbria (all’Etruria ormai stabilmente legata anche sul piano religioso, il Latium vetus e le colonie antiquitus Romanae (Tac., Ann. IV, 5, 5) e che, soprattutto, per la milizia pretoriana usava gli aggettivi fortis e pius (fortiter et pie militia functi), intendendo con fortis, appunto come Virgilio, la forza controllata dell’uomo civile, capace di fermezza e di razionalità, contrapposta alla feritas, la forza selvaggia e primordiale dei primitivi.
Le due Italie apparentemente contrapposte, sono però destinate a fondersi nell’unità di Roma ed è significativo che ambedue i passi delle Georgiche finiscano con il ricordo di questa unità: le lodi della Saturnia tellus, magna parens frugum, magna virimi sono l’oggetto del canto ascreo che il poeta intona Romana per oppida (II, 176); i valori vissuti dagli antichi Sabini e dagli antichi Romani, quelli per cui crebbe la fortis Etruria, sboccano in Roma, pulcherrima rerum (II, 534), simbolo di unità nella pluralità: septemque una sibi muro circumdedit arces.
3. Nell’Eneide
Il motivo della contrapposizione-fusione continua dell’Eneide è soprattutto nella sua parte più antica, la cosiddetta parte iliadica del poema, i libri VII/XII. La guerra qui cantata da Virgilio è, innanzitutto, una guerra fra le due Italie, una discordia iniqua, un bellum infandum (X, 1 sgg. XII, 804) fra popoli destinati a fondersi in unità, preannuncio di tutte le guerre fratricide che avevano insanguinato l’Italia prima della pace augustea, dalle guerre con cui nel IV secolo Roma aveva trionfato sul Lazio (che rappresenta come vedremo il contenuto più specifico del canto virgiliano) alle guerre sociali e alla guerra civile, una guerra proibita, che contro il progetto divino scatena l’Inferno (la furia Aletto). Essa contrappone, quasi come nelle Georgiche, i Troiani, tornati dall’Asia a l’antica madre, Cortona (III, 170 e VII, 209), gli Etruschi, che in Cortona hanno il loro simbolo (IX, 10 Corythi urbes, dove Enea va a cercare i suoi alleati, sono le città dell’Etruria) e il cui schieramento, da Cere a Mantova, passando per i Liguri qui aggregati agli Etruschi, include anche l’Italia Settentrionale, gli Arcadi del Palatino, nucleo più antico di Roma, ad uno schieramento composito, nel quale confluisce tutto il centro-sud dell’Italia e che per la menzione esplicita dei Sabelli e degli Osci a fianco dei Latini può definirsi più genericamente italico, anche se non dimentica, anzi sottolinea a più riprese la componente greca, presente in questa Italia: una contrapposizione che sembra ante litteram fra Nord e Sud e che ha il suo precedente immediato nella guerra sociale del 90. I soli etruschi presenti nello schieramento italico, Mezenzio e Lauso, sono per Virgilio in contrasto con tutta la tradizione latina, dei fuorusciti sconfessati dalla lega etrusca. La contrapposizione militare tra i due blocchi etnici diventa nel discorso di Remulo (IX, 598 sgg.) una contrapposizione morale e culturale e ci conserva l’eco di polemiche contemporanee (che troviamo in Orazio): agli occhi degli italici, fieri delle loro virtù guerriere, della durezza della loro stirpe, i disagi della caccia e della guerra e il duro lavoro, i Troiani coperti di vesti variopinte e fulgenti, con le loro tuniche fornite di maniche e le loro mitre, il loro amore per la danza e per le cerimonie di Cibele, sembrano imbelli donnette. La stessa rappresentazione polemica ci viene data/ questa volta riferita agli Etruschi e non ai Troiani/ nell’aspra autocritica di Tarconte (in XI, 732 sgg.).Ma questo non è il giudizio di Virgilio sugli Etruschi a sui Troiani: nell’Eneide come nelle Georgiche gli Etruschi sono fortes (X, 238), pii (VIII, 500), iusti (VIII, 494), sono caratterizzati nella loro vita familiare dal rispetto della fides (XII, 271-2); allo stesso modo sono forti, pii, giusti i Troiani e pius e fortis per eccellenza è il loro capo Enea, pietate insignis et armis (VI, 408 e 769-70). Anche i Troiani e gli Etruschi sanno essere coraggiosi in battaglia, ma il loro coraggio è quello tutto razionale di chi sa loca iussa tenere (X, 238) sostenendo con disciplina le alterne vicende della guerra e senza soggiacere a richiami emotivi. Così a X, 236 sgg. nella relazione che le navi trasformate in ninfe fanno ad Enea sulla situazione del campo assediato: At puer Ascanius muro fossisque tenetur | tela inter media atque horrentis Marte Latinos. | Iam loca iussa tenent forti permixtus Etrusco | Arcas eques.
Etruschi e Troiani sono così nell’Eneide, per la loro caratterizzazione morale e per ciò che simbolicamente rappresentano, lo sdoppiamento dello stesso popolo e degli stessi valori ideali: i Troiani non sono che gli Etruschi trasposti nelle loro origini leggendarie. Il mito dell’autoctonia e la tradizione dell’origine asiatica degli Etruschi, ambedue vivi nell’età augustea, trovano la loro esplicitazione e la loro conclusione nel ritorno dall’Asia dei Troiani all’antica madre e nel mito di Dardano originario di Cortona. È stato sostenuto che già nel VI secolo Enea fu sentito come il progenitore degli Etruschi e, attraverso di essi, dei Romani: indipendentemente dalla validità di questa ipotesi per il VI secolo, io credo che tale convinzione sia da considerare quella più diffusa nel I secolo e, in ogni caso, quella accettata da Virgilio.
4. Variante Cronologica
Alla luce di questa identità e di questo sdoppiamento fra Troiani ed Etruschi, ritengo ora di poter riproporre la lettura storica dell’Eneide, già da me sostenuta alcuni anni fa.
a. Nello studio su “I rapporti romano-ceriti” io avevo indicato nella guerra tra Roma e Veio il punto di partenza della trasposizione della storia nella leggenda operata da Virgilio: il pio Enea era, non solo per Virgilio, ma anche per il suo contemporaneo Dionigi di Alicarnasso (XII, 16) la figura del pio Camillo, capo dei Romani nella guerra contro l’etrusca Veio; l’empio Mezenzio, originario di Cere, in Virgilio come nella tradizione (ed è solo su questo punto che Virgilio segue qui la tradizione) presentava a mio avviso con l’empio re di Veio della tradizione liviana analogie troppo numerose per apparire casuali: in Virgilio come in Livio, Mezenzio e l’anonimo re di Veio hanno contro di sé l’intera lega etrusca capeggiata da Chiusi e da Cere ed hanno al loro fianco, tra gli Etruschi, solo quelli del Cimino e dell’Etruria Tiberina, (i Capenati e i Falisci); tanto Mezenzio che l’anonimo re di Veio non possono essere vinti, secondo la rivelazione di un vecchio aruspice (Verg., Aen.VIII, 498 ~ Liv. V, 15, 4-6), se non viene rimosso prima un impedimento sacrale e non viene eletto un dux fatalis (Aen. VIII, 511/2 ~ Liv. V, 19, 2), Enea contro Mezenzio, Cantillo contro il re di Veio. Quando nel 1960 pubblicai il volume sui rapporti romano-ceriti ritenevo che Virgilio non fosse consapevole della trasposizione e che l’avesse attinta direttamente dalla sua fonte, da identificare, forse, con quella usata nell’Alessandra da Licofrone che, tra la fine del IV e gli inizi del III secolo, mostrava già di conoscere come Virgilio l’alleanza di Enea con gli Etruschi (vv. 1239 sgg.) da cui l’intera vicenda dell’Eneide prende le mosse.
b. Alcuni anni dopo il volume sui rapporti romano-ceriti ho potuto invece affermare, sulla base di nuovi elementi, che Virgilio era pienamente consapevole di aver narrato nell’Eneide e, in particolare, negli ultimi sei libri di essa, la cosiddetta parte iliadica (che è anche la parte più antica del poema) la storia reale di Roma nella prima metà del IV secolo, e che si curò anche di fornire ai suoi lettori a più riprese, ma in un passo almeno senza possibilità di equivoci, la chiave di lettura della sua trasposizione.
Nel I libro, composto per ultimo, quando ormai il piano dell’intera opera era chiaro per Virgilio, Giove profetizza a Venere la decisione del Fato su Enea e sui suoi discendenti : giunto in Italia Enea dovrà combattere contro popoli fieri e, dopo la vittoria e la fondazione di Lavinio, regnerà sul Lazio fino alla terza estate; Ascanio, suo figlio, regnerà 30 anni e trasporterà la capitale da Lavinio ad Alba; qui la gente troiana governerà per 300 anni finché la sacerdotessa Ilia, resa madre da Marte, partorirà i suoi gemelli e Romolo assumerà il potere (Aen. I, 254 sgg.).
Assegnando 300 anni ai re albani, Virgilio si stacca dalla rimanente tradizione latina per la quale tra la fondazione di Alba e quella di Roma c’erano assai più di 300 anni; con il suo calcolo egli si stacca anche dalla tradizione, corrente al suo tempo, della cronologia relativa alla caduta di Troia: secondo Eratostene infatti Troia cadde nel 1183 a.C.. Se Enea giunse in Italia 333 anni prima della nascita di Romolo, tale nascita va posta infatti nell’850 a.C., 100 anni circa prima della fondazione di Roma: a meno di ammettere che per Virgilio Romolo fondò Roma quando era centenario, bisogna ammettere che Virgilio ha spostato o la caduta di Troia o la fondazione di Roma. Si può invocare, naturalmente, la licenza poetica: ma in questo caso la licenza poetica sarebbe servita solo per permettere un calcolo di 333 anni ed è questa cifra che esige una spiegazione.
La variante cronologica non è del resto la sola introdotta da Virgilio in questo punto del suo poema. Diversa in Virgilio e nella tradizione è anche la natura della vittoria da cui il calcolo della profezia parte. Virgilio parte infatti dalla vittoria di Enea su Mezenzio e su Turno. Ma la tradizione latina, rappresentata per noi da Catone (frr. 8 e 10 Peter) e da Livio (I, 2), assegna a Mezenzio e a Turno una funzione molto diversa da quella di Virgilio: a parte il fatto che nella tradizione latina è Turno che si rifugia presso Mezenzio e non il contrario, la successione dei fatti per tale tradizione è ben diversa da quella di Virgilio: Enea sconfigge in una prima battaglia Latino e in una seconda, in cui muore egli stesso, Turno; dopo la scomparsa di Latino, di Turno e di Enea, è Ascanio a vincere e ad uccidere, in una terza battaglia, Mezenzio, che in Virgilio, invece, muore per primo.
Se applichiamo ora al calcolo virgiliano dei 333 anni, computati dalla vittoria su Mezenzio e su Turno, l’ipotesi di lavoro da me avanzata, il calcolo stesso rivela il suo significato: infatti, se la vittoria di Enea su Mezenzio non è che la trasposizione della vittoria di Camillo su Veio, che la vulgata varroniana datava al 396 a.C., i 333 anni ci portano al 63 a.C. La data indicata per la nascita di Romolo è, nella realtà storica, la data della nascita del “nuovo Romolo”, Augusto. Nella poesia e nella propaganda augustea l’assimilazione di Augusto a Romolo era così comune e diffusa da non richiedere particolari spiegazioni.
Virgilio aveva dunque fornito ai suoi lettori, nella profezia del primo canto, una chiave di lettura precisa: la storia che egli si proponeva di narrare, trasposta e simboleggiata nelle vicende di Enea, era la storia del IV secolo, la storia che aveva inizio con la vittoria di Roma su Veio e con la catastrofe gallica (ad essa strettamente e fatalmente collegata nella tradizione e più vicina, nella cronologia reale – la terza estate – che in quella della vulgata varroniana) e culminava, dopo il famoso trentennio postgallico, ben noto a Fabio Pittore e a Polibio, con la riconciliazione – peraltro provvisoria – tra Roma e i Latini (che avevano perduto al termine di tale trentennio, nel 356 a.C., l’appoggio dei mercenari gallici di Dionigi di Siracusa) e con la definitiva sottomissione del Lazio a Roma. La scoperta della chiave di lettura dell’Eneide mi ha permesso di identificare, nel poema, altri episodi storici fondamentali:
I. La catastrofe gallica e l’assedio del Campidoglio da parte dei Galli, simboleggiato nel campo troiano assediato – è sintomatico che Virgilio chiami questo campo urbs (Aen. IX, 473) e i suoi difensori cives (ib. 36) – difeso, come Roma e il Campidoglio, da un muro sul fianco sinistro e dal Tevere sul lato destro e nel quale, come in Roma dopo l’Allia, il nemico irrompe dalle porte aperte (Aen. IX, 675) e contro il quale Turno sferra, in assenza di Enea, un attacco, che presenta gli stessi particolari che ha in Livio il secondo attacco dei Galli contro il Campidoglio in assenza di Camillo.
II. Il rifugio delle vestali a Cere, simboleggiato nell’arrivo a Cere delle navi troiane trasformate in ninfe, che rivolgono ad Enea, inspiegabilmente, il saluto delle vestali (vigilasne … vigila, Aen. X, 228/9): uno degli episodi più celebri del IV secolo e quello che rappresentava il merito più importante riconosciuto dalla tradizione romana alla città etrusca.
III. Il trentennio postgallico, con l’alleanza tra i Latini in lotta contro i Romani e Dionigi I e II di Siracusa, presenti in Apulia con le loro colonie e i loro mercenari gallici, simboleggiati dagli aiuti richiesti dai Latini in lotta con Enea e Diomede, il tiranno greco che costruiva città in Apulia: il rifiuto di Diomede (Aen. XI, 243 sgg.) induce in Virgilio i Latini a trattare con Enea, come l’abbandono della lotta da Dionigi attaccato da Dione nel 356 costrinse i Latini a trattare con Roma.
IV. L’ultima incursione gallica contro Roma dopo la restaurazione di Dionigi II e prima delle sua definitiva espulsione da Siracusa e il duello tra Valerio Corvo e il Gallo, simboleggiati nell’ultimo duello fra Turno ed Enea, che si svolge nello stesso luogo, il Laurens tractus del duello della saga, e viene risolto, come nella saga del IV secolo, dall’intervento miracoloso dell’uccello (la dira), che ostacola la difesa di Turno e gli preannuncia la morte.
Nel quadro storico che fa da sottofondo nell’Eneide alle vicende personali degli eroi e, più ancora, in certi particolari-spia ho avuto modo di cogliere più volte coincidenze perfino verbali con la tradizione annalistica e, in particolare, con passi della prima decade di Livio, così da far pensare, in qualche occasione, ad una dipendenza diretta di Virgilio da Livio. Ma un esame più attento rivela che le divergenze sono quasi più significative delle concordanze (volute forse e proprio ad verbum, per permettere al lettore il riconoscimento) e dipendono per lo più dalla maggior consapevolezza che Virgilio ha, rispetto a Livio, del significato politico dei fatti e dalla impostazione unitaria, diversa da quella dell’annalistica romana, che Virgilio dà al suo racconto, che appare al corrente della stretta dipendenza – a noi nota da frammenti di fonti greche ed etrusche – fra la lotta antiromana dei Latini e la politica siracusana e che risulta immune dalle deformazioni nazionalistiche della tarda annalistica. La Roma postgallica di Virgilio è una città debole dalle vires exiguae, stretta fra nemici potenti, una città assediata, che solo l’aiuto etrusco salva dalla totale distruzione.
5. Lo scudo di Enea
L’Eneide è un poema storico, come il Bellum Punicum di Nevio e gli Annales di Ennio e riguarda soprattutto la storia del IV secolo, e per la polivalenza che caratterizza i simboli virgiliani appare anticipata, nella storia del IV secolo, tutta la storia di Roma repubblicana, dalle guerre per la conquista dell’Italia, alla guerra sociale, alla guerra civile.
Indirettamente, i 333 anni della profezia rientrano tutti nel canto virgiliano, attraverso scorci potenti; direttamente sono oggetto dell’Eneide solo le vicende dei primi 33 anni e della prima metà del IV secolo, che il poeta rappresenta, concentrati, per l’unità di tempo richiesta dall’epica, nel giro di pochi giorni o addirittura come contemporanei, ma di cui non perde di vista la concatenazione causale e il significato politico, che è l’alleanza romano-etrusca in funzione prima antiveiente e poi antigallica, antilatina e antisiracusana e il contributo determinante dato dall’Etruria alla rinascita di Roma.
Una conferma dell’intenzione di Virgilio ci è data dalla rappresentazione della storia di Roma nell’VIII libro nello scudo di Enea: dalla vicenda romulea il canto ci porta fino al Campidoglio assediato dai Galli, poi, con un salto cronologico ed un intermezzo occupato dai riti sacri e dal giudizio ultraterreno su Catilina e Catone, ci troviamo nel 31 ad Azio. La storia non rappresentata, dalla catastrofe gallica ad Azio, è la storia cantata nell’Eneide, la storia della Roma repubblicana, della seconda Roma (secunda ab origine dice Livio VI, 1), della Roma storica di cui Virgilio coglie la ripresa nell’appoggio etrusco. È la conferma dell’impostazione delle Georgiche, secondo cui lo stato romano era per Virgilio uno stato romano-etrusco (l’etrusco Tevere e il Palatino romano).
Non c’è dubbio che l’impostazione di questa storia è chiaramente filo-etrusca ed è probabile che essa dipenda direttamente da quelle storie etrusche che anche Strabone (V, 2,3) conosceva e che erano molto polemiche nella rivendicazione dei meriti dell’Etruria verso Roma. Questo del resto non ci sorprende: amico dell’etrusco Mecenate, originario di una città, Mantova, di cui egli stesso rivendica l’origine etrusca (Aen. X, 203 Tusco de sanguine vires), Virgilio sceglie deliberatamente per la sua Eneide una versione filoetrusca della storia di Roma e rivendica consapevolmente ciò che l’Etruria ha fatto per Roma nel momento più tragico della sua storia. In questa rivendicazione, però, nelle Georgiche come nell’Eneide è assente ogni amarezza nazionalistica.
6. Nomen Etruscum
Roma deve agli Etruschi la sua salvezza e la sua ripresa nel momento della catastrofe gallica e dell’abbandono dei Latini, ma è per Roma, non per l’Etruria che Giunone chiede e Giove promette, alla fine dell’Eneide il dominio del mondo (Aen. XII, 826-828 Sit Latium, sint Albani per saecula reges, | sit Romana potens Itala virtute propago: | occidit occideritque sinas cum nomine Troia.)
Nell’accenno a Troia che deve morire, cedendo anche nel nomen, anche nella lingua e nei costumi a Roma, che pure è nata da lei (ib. 824/5 neu Troas fieri iubeas Teucrosque vocari | aut vocem mutare viros aut vertere vestem) è stato già da altri riconosciuto – e io credo giustamente – un’allusione al popolo etrusco che all’epoca in cui Virgilio componeva l’Eneide era entrato nel suo decimo secolo, l’ultimo assegnato alla sua storia secondo le profezie degli aruspici, e che avvertiva la fatalità della sua fine come entità nazionale e linguistica.
L’agonia del nomen etruscum, che assume toni tragici e drammatici negli anni terribili della guerra di Perugia e che impronta di amara malinconia i versi di un altro poeta etrusco della età augustea, Sesto Properzio, che nella prima elegia del IV libro dice che Troia risorgerà in Roma, ma che la storia è una lunga serie di sepolcri, e che nella X elegia dello stesso libro canta l’alternativa fra Roma e Veio, sulle cui ossa si ara, mentre la bucina suona lontano, dà vita in Virgilio ad una visione unitaria e coerente nella sua sacralità della storia. Nella periodizzazione della storia di Roma adombrata nella raffigurazione dello scudo dell’VIII libro dell’Eneide, si è visto che Virgilio fa coincidere il secondo periodo di questa storia, fra la catastrofe gallica ed Azio, con il momento religioso di Roma. È interessante osservare che al centro di questa rappresentazione dei riti di Roma c’è il ricordo della vittoria su Veio (VIII, 665-6 castae ducebant sacra per urbem | pilentis matres in mollibus … cfr. Liv. V, 25, 9 ut pilento ad sacra uterentur…). Dalla caduta di Veio secondo la cronologia varroniana ad Azio ci sono 365 anni come dalla fondazione di Roma alla catastrofe gallica.
All’era romulea seguiva dunque secondo Virgilio l’era veiente e a questa l’era aziaca. Ma l’era veiente, iniziata con la vittoria del pio Enea sull’empio Mezenzio, del pio Camillo sull’empio re di Veio, non era un’epoca di contrasti e di lotte, ma di amicizia profonda fra Roma e l’Etruria, il cui incontro è colto qui, essenzialmente come un incontro religioso. Nelle profezie del primo e dell’ultimo libro Giove promette al seme di Troia, ad una Troia che accetta di morire cum nomine (XII, 828) di non porre nec metas rerum nec tempora e concede un imperium sine fine (I, 278-9), premio per un popolo superiore a tutti per la pietas (XII, 838-9). La pietas, supremo valore etnico culturale della vecchia Etruria, diventa così il valore portante della storia di Roma: quella pietas che Virgilio pone nel VI come nell’VIII al centro del giudizio ultraterreno dell’umanità nel Tartaro (VI, 608 sgg., 660 sgg. hic … dum vita manebat – cfr. VIII, 670).
In questa visione la fine del nomen Etruscum non può essere sentita come l’eliminazione di un antagonista o come l’attuazione di una fatale maledizione (come nel XVI epodo di Orazio e nell’ode II del I libro) ma come un sacrificio spontaneamente compiuto per il raggiungimento di un’unità più universale: come l’integrazione degli Etruschi, con gli altri popoli italici, nella grande realtà di Roma rerum pulcherrima, di una Roma in cui, cessate le guerre civili, dimenticati tutti i particolarismi, non esisteranno né vinti né vincitori.
7. Il sacrificio
La legge del sacrificio diventa così per Virgilio la legge fondamentale del progresso storico. Il lungo estenuante cammino di Enea e dei Troiani verso la terra promessa, l’ubbidienza fedele, ad essi imposta e da essi consapevolmente accettata, ad un progetto divino che li trascende, ad un impero universale concepito come capacità di regere populos … pacique imponere morem (Aen. VI, 851-2), sbocca, apparentemente, in un fallimento, nella perdita di sé, come entità nazionale: ma è proprio questo sacrificio liberamente assunto (il fato virgiliano non prende mai l’uomo alla sprovvista, ma ne sollecita sempre la libera adesione) e totalmente consapevole che arricchisce di sofferta e dolorosa umanità la tragica sequenza di battaglie, di uccisioni e di stragi che Virgilio rappresenta nell’Eneide e che costituisce la storia di Roma e fa dell’Impero stesso, che di quella sequenza è il frutto e il compimento, un valore degno di essere realizzato. Il verso con cui Virgilio chiude il suo prologo (Tantae molis erat Romanae condere gentem I, 33) si rivela così la chiave di lettura spirituale del poema: nulla di grande, di bello, di valido nasce se non alla scuola del dolore; nulla nasce se non dalla morte, ma dalla morte intesa come sacrificio, come nel miracolo delle api, nel IV delle Georgiche. Questa verità che Virgilio coglie operante nella vita del cosmo come nel mondo misterioso delle coscienze, egli la coglie anche nella vita dei popoli e nella storia degli imperi.