da Zetesis 1988-2
Premessa
I termini imperium e imperator sono analizzati con cura da A. Valvo in Nuova Secondaria, 6, 1988, pag. 70, a cui rimando direttamente. Ricordo il valore giuridico dei termini suddetti e gli altri poteri conferiti a Roma ai magistrati, poteri che anche Ottaviano assume: tribunicia potestas nel 23 a.C., imperium proconsulare, imperium consulare nel 19, con tutte le prerogative che essi concretamente comportano, dallo ius intercessionis alla sacrosanctitas e allo ius edicendi. E’ importante notare che tali poteri erano extraordinarii, ma non nuovi, e che inoltre carica ed imperium erano sempre distinti: quest’ultimo era conferito di fatto con la lex curiata de imperio.
Anche Giulio Cesare aveva accumulato magistrature su di sé, e pur se non c’è accordo sulla motivazione di questa sua politica, vale però la pena di ricordarlo, insieme alle possibili interpretazioni proposte. Cesare, il quale pretende che i suoi poteri gli siano conferiti per plebisciti popolari, vuole essere re, al modo ellenistico, orientale, divino, come pensano Pais, Meyer, Carcopino, oppure mira alla dittatura a vita, prettamente romana, secondo l’ipotesi del Syme? In tal caso, proprio per aver compreso la sua “romanità” Bruto e Cassio lo uccidono. Né Antonio, il suo “vendicatore”, avrà maggiore fortuna: l’aver valorizzato l’Oriente a scapito dell’Occidente, le donazioni a Cleopatra e il suo matrimonio con lei (34-33) gli costeranno la rottura definitiva con Roma, la dichiarazione di hostis publicus e la giornata di Azio (31-30).
Documento del dissidio Oriente ~ Occidente e del timore per le sorti della stessa Roma è il ben noto Carm. I, 37 di Orazio, nel quale il poeta, pur senza mai nominare Antonio, rievoca i momenti in cui Capitolio / regina dementis ruinas / funus et imperio parabat : e Cleopatra, fatale monstrum, incombeva sulla città.
1. A mio avviso, una delle chiavi di lettura più interessanti del cambiamento politico apportato da Augusto è data dall’uso che egli fa del diritto romano. Come già accennato più sopra, non è possibile rilevare alcuno specifico mutamento delle leggi romane in merito alla persona di Augusto: egli non muta nulla delle istituzioni che lo hanno preceduto, le prerogative dei magistrati e del senato restano intatte, il diritto continua ad essere legato al mos maiorum. Tuttavia l’osservatore percepisce immediatamente un’ambiguità di fondo, così come la percepirono già i Romani stessi: tale ambiguità è legata alla distinzione tra l’imperium e la carica, di cui già si è fatto cenno. Nella trasformazione di Roma in principato si gioca sullo ius, su questa possibilità che la giurisprudenza romana permetteva e di cui Augusto si serve. Il senato esercita il suo potere ratificando gli acta, ma è consapevole della contraddizione insita in questo procedimento, tanto è vero che, più tardi, sarà necessario ricorrere alla Lex de imperio Vespasiani per consentire una successione almeno apparentemente “regolare”.
Augusto stesso affronta nelle Res gestae, XXXI-XXXV, questo aspetto della questione: In consulatu sexto et septimo, postquam bella civilia exstinxeram per consensum universorum potitus rerum omnium, rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli. Quo pro merito meo senatus consulto Augustus appellatus sum et laureis postes aedium mearum vestiti publice coronaque civica super ianuam meam fixa est et clupeus aureus in curia Iulia positus, quem mihi senatum populumque Romanum dare virtutis clementiaeque et iustitiae et pietatis causa testatum est per eius clupei inscriptionem. Post id tempus auctoritate omnibus praestiti,
potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri, qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt. 35. Tertium decimum consulatum cum gerebam, senatus et equester ordo populusque Romanus universus appellavit me patrem patriae idque in vestibulo aedium mearum inscribendum et in curia Iulia et in foro Aug. sub quadrigis, quae mihi ex s. c. positae sunt, censuit. Cum scripsi haec, annum agebam septuagensumum sextum.
D’altro canto, se poniamo mente alle quattro titolature attribuite ad Augusto, notiamo che esse di per sé non comporterebbero particolari poteri. Soffermiamoci in breve su questo aspetto.
Caesar evidentemente indica la parentela, l’eredità ideale e politica che Ottaviano vuole raccogliere e far fruttare: se osserviamo come questo e gli altri titoli vengono accolti ed usati nella parte greco-orientale dell’impero, notiamo che Caesar viene semplicemente translitterato (Καῖσαρ); Imperator risulta già più impegnativo: è il titolo di lode del “generale vincitore”, ma non comporta un imperium maius, né infinitum. Essendo però assegnato a vita, contrariamente alla prassi comune, è comprensibile che in Oriente sia reso con αὐτοκράτωρ, termine che in fondo descrive la realtà dei fatti in modo molto più realistico (“colui che si dà il potere da sé”, “autocrate“). Princeps è per Roma colui che in senato ha il diritto di pronunciarsi per primo, o viceversa per ultimo: non implica una speciale prerogativa, ma non si può negare che tale attribuzione finisca col paralizzare, nell’uno o nell’altro caso, la facoltà dei senatori di pronunciare liberamente il loro parere. La lingua greca non fornisce molte possibilità a questo proposito, così che il termine è reso semplicemente con ἡγεμών. Augustus presenta, nella sua novità, aspetti particolarmente interessanti. Usato in principio solo nel linguaggio religioso, connesso con l’auctoritas, il riconoscimento della quale dava al cittadino romano la superiorità morale sul resto della popolazione, viene assunto da Ottaviano in due sensi, attivo e passivo. E’ sinonimo di Fortunatus, il favorito dalla sorte, “colui che è stato accresciuto”, e ricorda il soprannome di Felix attribuito a Silla. Nel mondo greco è proprio questa sottolineatura a prevalere: Augusto diventa il “Venerabile”, Σεβαστός. D’altra parte, non si può trascurare ciò che l’auctoritas implica per i Romani: Augusto si serve abilmente di essa, specificando che, se egli praestat auctoritate omnibus, ciò avviene solo perché la sua autorevolezza si nutre di virtus, clementia, iustitia, pietas. L’antico ideale nobiliare di Catone si fonde con la clementia Caesaris e con lo stoicismo romano, che sarà anche di Tiberio: il princeps deve rappresentare un exemplum, la sua non è una posizione di privilegio ma un “posto di guardia” (la statio principis) fondato sulla constantia e sulla fortitudo.
A me pare quindi si possa a ragione affermare che Augusto rivoluzionò tutto, senza cambiare nulla; ciò che probabilmente fu più alieno al mos maiorum (noi diremmo anticostituzionale) fu l’iterazione delle cariche, attribuite più volte e per parecchi anni, fatto che si era verificato già, ad es., con Mario e Cesare, collegato peraltro alla crisi stessa della repubblica. Tuttavia, poiché la mia affermazione può sembrare quantomeno gattopardesca, desidero riportare quanto Tacito afferma a proposito di Augusto e del suo dominio (Annales, I, 2; 3, 6-7; 4, l): 2.l. Postquam Bruto et Cassio caesis nulla iam publica arma, … nisi Caesar dux reliquus, posito triumviri nomine consulem se ferens et ad tuendam plebem tribunicio iure contentum, ubi militem donis, populum annona, cunctos dulcedine otii pellexit, insurgere paulatim, munia senatus magistratuum legum in se trahere, nullo adversante, … 3.7. Domi res tranquillae, eadem magistratuum vocabula; iuniores post Actiacam victoriam, etiam senes plerique inter bella civium nati: quotus quisque reliquus, qui rem publicam vidisset?
2. Nascita di un impero
Non è facile far comprendere a dei ragazzi di seconda superiore le ragioni (o le giustificazioni) della nascita di un impero, specie in un’epoca come il nostro secolo che ha assistito alla fine degli imperi del passato e alla nascita di nuove dominazioni, diverse e a volte poco “visibili”, ma non meno violente delle precedenti; tuttavia è necessario compiere questo sforzo, se vogliamo dare ragione, a noi e a loro, delle origini del mondo europeo e di quanto ne è poi seguito.
A questo proposito, mi pare che il testo più indicato per offrire chiarimenti e strumenti di lavoro resti ancora l‘Eneide di Virgilio, affiancata se mai da altre fonti. Rileggiamo quindi Verg. Aen. VI, 788/807; 847/853:
Huc geminas nunc flecte acies: hanc aspice gentem
Romanosque tuos. Hic Caesar et omnis Iuli
progenies, magnum caeli ventura sub axem.
Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,
Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet
saecula qui rursus Latio, regnata per arva
Saturno quondam, super et Garamantas et Indos
proferet imperium: iacet extra sidera tellus,
extra anni solisque vias ubi caelifer Atlas
axem umero torquet stellis ardentibus aptum…
Excudent alii spirantia mollius aera,
credo equidem, vivos ducent de marmore voltus,
orabunt causas melius caelique meatus
describent radio et surgentia sidera dicent:
tu regere imperio populos, Romane, memento.
Hae tibi erunt artes, pacisque inponere morem,
parcere subiectis et debellare superbos.
Non si tratta, a mio parere, di una semplice esaltazione di Augusto e della sua politica, esaltazione che potrebbe così ridursi a captatio benevolentiae o a lode dell’imperialismo romano; senza voler ridire cose peraltro già note ai più, mi pare che i versi riportati vadano ben oltre. Augusto, per bocca di Anchise, diventa il vir atteso da lunghissimo tempo per regnare non solo sull’Italia, ma sul mondo allora conosciuto. Le parti omesse contengono infatti la determinazione, in chiave mitologica oltre che geografica, dei territori dominati da Roma, comprese “le bocche del settemplice Nilo” che tanto spavento avevano arrecato; anzi il dominio di Roma andrà extra sidera, al di là delle stelle e di Atlante. Augusto sembra persino superiore agli dèi: di stirpe divina come Cesare, regnerà su un territorio più vasto di quello percorso da Eracle e Dioniso. Con lui ritorneranno nel Lazio gli aurea saecla e il mos pacis. L’imperium di Augusto non è solo politico, ma anche sacrale, e così la pax Augusti: non si tratta solamente di mancanza di guerre, bensì di un “patto”, degli uomini con gli dei e degli uomini tra loro.
Questo passo virgiliano dà alla pax Augusti una connotazione, se così si può dire, messianica. Tale aggettivo potrebbe sembrare improprio, se non avessimo prove del clima di speranza e di attesa creatosi in molti luoghi negli anni a cavallo tra il I sec. a.C. e il I d.C.: se dell’Occidente razionale ed ostile alle confusioni tra il divino e l’umano (si pensi a Tiberio che non vuole essere chiamato divus) sono i passi ccitati di Virgilio, all’Oriente ellenistico corrispondono esplicite affermazioni di attese messicaniche. Riporto come esempio il decreto del Koinòn delle città greche d’Asia, con il quale, nel 9 a.C., esse spostarono l’inizio dell’anno civile alla data di nascita di Augusto (tutto ciò, bisogna pur dirlo, su proposta del governatore romano):
I Greci dell’Asia deliberarono, su proposta del sacerdote Apollonio, figlio di Menofilo, di Aezani (città frigia): poiché la provvidenza, che ordinò ogni cosa nella nostra vita, dimostrando sollecitudine e premura attuò ciò che è la perfezione della vita, in quanto ci ha portato Augusto, che essa ricolmò di virtù a beneficio degli uomini, quasi avendo mandato, per noi e per i nostri posteri, il Salvatore che farà cessare ogni guerra e che tutto ordinerà; e poiché Cesare con la sua epifania soddisfece le speranze di quanti con la mente anticipano le buone novelle. avendo egli non solo superato i benefattori che furono prima di lui, ma non avendo neppure lasciato ai futuri la speranza di superarlo; e poiché il giorno natale del dio costituì per il mondo la prima delle buone novelle annunciate per lui (Augusto)… (CIL III, 12240; 13651; 14159 = Dittenberger, Syll., 458, II, pag. 30). (1)
Augusto, come più tardi Tiberio, non doveva apprezzare molto questo genere di elogio, ma lo accettò perché costituiva lo scotto per essere riconosciuto legittimo successore dei re ellenistici, il “Venerabile” di cui già si è detto. Il contenuto più preciso di quale sia il dovere di Augusto e dei Romani tutti ci è dato da Virgilio in Aen. VI, 851-853: si tratta dell’ imperium, non delle arti belle in cui altri popoli eccelleranno, del saper imporre un mos e una pax mediante le leggi o le armi, non delle scienze o della letteratura, lasciate di buon grado ad alii. Il passo virgiliano ci permette il collegamento con il punto seguente, riguardo al quale propongo alcuni spunti di lavoro.
3. Espansione
3. L’ampliamento dell’influsso romano avviene, come è noto, grazie alla stipulazione di foedera e alla concessione della civitas nelle sue diverse forme (sine suffragio, optimo iure, ius Latii). Questa linea di condotta non viene mai meno nel corso della storia romana, fino a culminare nella Constitutio Antoniniana del 212 (quali che ne siano le vere motivazioni); ma non è sempre applicata con la stessa intensità e continuità. Nel caso nostro, notiamo che Augusto è molto parco nel concedere la civitas, a differenza di Cesare che aveva largheggiato nella sua attribuzione. Memore delle gravi obiezioni ed opposizioni mosse a questo proposito contro Cesare (e su cui mi propongo di tornare più oltre), l’imperatore preferisce tenere una condotta più prudente. Non dà quasi a nessuno, fuori d’Italia, il diritto di cittadinanza, anzi tende a valorizzare l’Italia piuttosto che le provincie, proteggendo Etruschi, Umbri, Piceni, Lucani, tra i quali sceglie amici e collaboratori, senza preoccuparsi se essi sono, o no, homines novi (basti pensare a Mecenate, ad Agrippa, agli stessi Orazio e Virgilio). Per Augusto la base dell’impero rimane lo stato romano costituito dall’Italia, fino alle Alpi, della quale lascia inalterato il sistema municipale. Essa dipende dai tradizionali organi di governo di Roma, non dal principe. Al di fuori, l’antico ordinamento provinciale viene riorganizzato secondo il criterio della distinzione in province pacificate, o senatorie, e non ancora pacificate, o imperatorie; a parte vi è l’Egitto, possesso personale di Augusto e governato da un praefectus, nel quale i membri del senato non possono mettere piede se non autorizzati dal principe.
Penso valga la pena di soffermarsi su questo argomento, accennando a qualcuna fra le diverse provincie, a titolo d’esempio.
La Sicilia, ad ordinamento senatorio, la più antica, conserva nel suo statuto le leggi dei re siracusani, continuando anche a parlare greco. Augusto si mantiene nella tradizione che lo aveva preceduto, e che, pur introducendo magistrati e leggi romane, si era sforzata di lasciare inalterate, nella maggior misura possibile, le autonomie e le usanze locali. La Spagna, dopo varie sanguinose rivolte, specie nel Nord-Ovest, viene sottomessa nel 19 a.C. da Agrippa, mediante trapianti di popoli e stanziamento di una legione. La storia di questa provincia è molto interessante: in essa Augusto dedusse parecchie coloniae, mezzo che egli considerava essenziale per la romanizzazione dell’Europa, e che ebbe in effetti successo. Si possono ricordare Asturica Augusta (Astorga), Caesaraugusta (Zaragoza), Emerita Augusta (Merida), per non dire del luogo ove fu stanziata la legione, detto Legio, da cui oggi Leon. Ricca, latina e pacifica, dalla Spagna giungeranno dapprima gli intellettuali (Seneca, Lucano, Quintiliano, Marziale) e poi gli imperatori (Traiano, il primo non italico). Vespasiano aveva concesso a tutti lo ius Latii.
Diverso il caso della Gallia. Augusto si occupa personalmente di essa, soggiornandovi a lungo, almeno tre anni. Essendo la base di partenza per le spedizioni contro i Germani, deve sviluppare economia, vie di comunicazione, commerci all’interno e all’estero.
Ricca e vicina all’Italia, assume la civilizzazione romana, ma non a tutti i livelli: le divinità celtiche continuano ad essere adorate molto a lungo, anche se con nomi romani, ed in seguito le città manterranno il nome delle etnie che vi abitavano. Qualche esempio: Parigi deriva da Lutetia Parisiorum, Sens da Agedincum Senonum, Saintes da Mediolanum Santonum, Lisieux da Noviomagus Lexoviorum.
L’Egitto diventa provincia nel 30 a.C.; Augusto sostituisce se stesso ai Lagidi, che a loro volta si erano sostituiti in toto ai faraoni. L’Egitto, come detto, è possesso personale del principe, che nomina un Praefectus Aegypti appartenente all’ordine equestre, impedendo qualunque interferenza al senato. Alessandria è l’unica città greca, autonoma, e di conseguenza libera dal monopolio commerciale di stato, cosa che le permette di conseguire una grande prosperità. La civitas non è concessa ad alcun indigeno, e solo di rado agli Alessandrini: da questo punto di vista tutta la popolazione del paese versa in uno stato di grave inferiorità rispetto ai casi esaminati sopra. Si può ipotizzare che questa situazione sia dovuta alla resa senza condizioni degli Egizi, che essi cioè fossero considerati dediticii.
In connessione col riordinamento delle province, Augusto compie anche la riorganizzazione dell’esercito. Una delle maggiori innovazioni del principe consiste proprio nel fatto che egli lo rende stanziale, limitando la sua presenza alle regioni non ancora pacificate. Augusto non intende conquistare nuovi territori, ma preferisce fare opera di consolidamento, specie dopo aver sperimentato quale mole di mezzi e di uomini occorrerebbe per assoggettare paesi come, ad es., la Germania. Per sminuire il più possibile la turbolenza delle legioni, largamente sperimentata durante le guerre civili, ne dimezza l’organico (insieme quindi alle relative spese), dislocandole, come detto, là dove sia necessario. L’esercito diventa così fattore potente di romanizzazione, i cui effetti saranno sempre più visibili col passare del tempo. Mi sembra interessante accennare, sia pure sommariamente, questo processo.
Poiché i fondi dell’aerarium exercitus non sono sufficienti per “liquidare” i congedati, si concedono ai 100.000 veterani non denaro, ma terre acquistate, od espropriate, anche fuori dall’Italia, dove ormai non ce ne sono quasi più a disposizione.
E’ il caso notissimo di Virgilio, che si vede espropriare, ad onta delle sue “raccomandazioni”, il campicello avito. Nelle provincie si stanziano colonie militari, di legionari, cioè di cives Romani, soprattutto di Italici, e soprattutto nel periodo augusteo. Essi tendono a raggrupparsi insieme, nei conventus civium Romanorum, cui in seguito si dà il titolo di municipium o di colonia. In un periodo più tardo, si assiste alla nascita delle cosiddette canabae, baraccamenti posti all’esterno dei castra, dove vivono mercanti, donne, figli, e dove i legionari si fermano al momento del congedo, poiché la scarsità di terre e di denaro non consente più il ritorno al paese d’origine. Spesso le canabae acquisiscono lo status di colonie e di municipi, e si sviluppa così, a livello europeo, la vita cittadina, basata sui mores Romani: si tratta, in parecchi casi, di isole romane agli estremi confini dell’impero. Hanno questa origine Moguntiacum (Magonza), Lambaesis (Lambèse, in Numidia), Carnuntum (Petronell, sul Danubio). Città la cui fondazione è dovuta ad Augusto sono poi Augusta Treverorum (Trier o Trèves, Treviri), Augusta Taurinorum (Torino), Augusta Praetoria (Aosta), Augusta Vindelicorum (Augsburg); rafforzata da lui, ma fondata da Munazio Planco nel 44 a.C., è Augusta Raurica l’attuale Augst, presso Basilea.
4. Pax Augustea
4. La pax Augusta, come si è potuto concludere dalle sommarie osservazioni fin qui svolte, favorisce e promuove la diffusione della romanità in gran parte dell’ecumene, tanto a livello linguistico – culturale, quanto politico – giuridico, per non dire poi dell’aspetto economico e commerciale. Viene però spontaneo chiedersi se l’espansione del periodo augusteo sorga inopinatamente nella storia, o se vi siano precedenti, anche lontani. Che i Romani avessero coscienza della loro capacità di espansione, peraltro dovuta alla forza delle armi, ci risulta con sufficiente chiarezza già per quanto riguarda il periodo repubblicano. Ho scelto in proposito alcune fonti greche, dalle quali emergono non solo la percezione di sé che i Romani avevano, ma anche il giudizio che di essi davano gli altri popoli, in questo caso i Greci. Polibio, III, 118, a proposito delle guerre puniche, afferma: (I Romani) non solo riacquistarono la supremazia in Italia, prendendosi in seguito una completa rivincita sui Cartaginesi, ma divennero in breve tempo i dominatori di tutto il mondo. Appiano, in Le guerre civili, I, 11, mette in bocca a Tiberio Gracco queste parole; I Romani, che avevano conquistato con la forza delle armi la maggior parte della terra e che speravano di occuparne anche il rimanente, si trovavano in una difficile situazione… Sempre Tiberio, in un noto frammento dei suoi discorsi riportato da Plutarco, Vita di Tiberio Gracco, 9, 5, nel descrivere la misera condizione di molti cittadini rimasti privi dei loro beni, soprattutto della terra, esprime non solo il proprio giudizio, ma anche la fama di dominatori che i Romani hanno ormai acquisito agli occhi degli stranieri:
Tiberio lottava per un’idea bella e giusta, con un’eloquenza che avrebbe adornato anche una causa abbietta; ed era formidabile, invincibile, ogni volta che, salito sulla tribuna, col popolo affollato intorno a sé, cominciava a parlare per i poveri. “Le fiere che abitano l’Italia, – soleva dire – hanno ciascuna una tana, un covile in cui riposare; coloro che per l’Italia combattono e muoiono, non hanno che l’aria, la luce, e nient’altro. Senza casa, senza fissa dimora, vagano con la moglie e i figli; i comandanti li ingannano, questi soldati, quando nelle battaglie li esortano a difendere dagli assalti del nemico il proprio focolare, e la tomba degli avi, poiché nessuno di questi Romani, e sono moltissimi, ha il suo altare familiare, nessuno ha un sepolcro avito; ma combattono e muoiono per difendere l’altrui ricchezza, il lusso altrui, e vengono chiamati padroni del mondo, mentre non hanno una sola zolla di terra che sia loro”. E’ ben vero che dai passi citati si potrebbe arguire anche soltanto una vocazione al potere di tipo imperialistico; però, senza addentrarmi in una problematica troppo vasta per questa sede, mi pare si possa comunque evincere dalle fonti la coscienza che Roma, in un modo o nell’altro, deve estendere la sua influenza al di fuori dell’Italia. Essa non è più una polis, ma una potenza internazionale, anche se ciò comporta a sua volta nuovi problemi. Sappiamo, per esempio, che non tutto il senato romano approva una così vasta espansione all’estero: Catone deve faticare non poco per convincere i colleghi a distruggere Cartagine, e muore prima che la sua proposta venga approvata e portata a termine. La conquista di terre su larga scala importa in effetti problemi pratici di governo non da poco (si “inventano” infatti le province e le pro magistrature) e altrettanto gravi problemi di tipo culturale e ideale. Quali rapporti intrattenere con civiltà diversissime da Roma? Mantenere le distanze o lasciarsene “contagiare”? Polibio, VI, ci viene in soccorso con la sua netta affermazione: Fra tutti i popoli, i Romani assimilano di più ciò che serve loro di altrui. In seguito, Sallustio, De con. Cat., 51, 37, farà dire a Cesare nel suo discorso in senato: Maiores nostri, Patres conscripti, neque consilii neque audaciae numquam eguere; neque illis superbia obstabat, quo minus aliena instituta, si modo proba erant, imitarentur.
Il criterio del probum, dunque, guida la scelta dei Romani: ciò che è probum può non solo essere approvato, ma anche entrare a far parte delle istituzioni romane. Roma è sufficientemente forte per accogliere dai popoli stranieri quanto possa esserle utile, e, del pari, per accogliere essa stessa singole persone, popoli e magistrature. Il mos maiorum, per Cesare, è sempre stato quello di superare i fattori etnici attraverso l’idea politica sovranazionale della civitas. Tuttavia l’applicazione del probum come criterio non è affatto pacifica: mos maiorum vuol dire anche conservare gelosamente tutto ciò che è romano, mantenersi scrupolosamente nella traditio. Per Roma, come per i Greci, tutto ciò che è novum contiene una connotazione di pericolosità politica e sociale. Mi pare fondamentale ricordare che, in latino, innovare significa primariamente “sovvertire l’ordine stabile”, mentre res novas moliri, “macchinare cose nuove”, ha valore di “fare la rivoluzione”, e in un senso non certo positivo. Esiste quindi, già solo a livello linguistico, una dialettica molto forte tra probum e novum, che si esplica, nella prassi politica, nella concessione, o no, della civitas romana. Penso valga la pena di proporre qualche esempio. Cesare, come accennato più sopra, intendeva forse pareggiare le provincie all’Italia, e in ogni caso concesse spesso la cittadinanza virtutis causa, seguendo le orme di Caio Mario, che aveva già proceduto in tal modo nei confronti di intere legioni di alleati italici, oppure singolarmente (viritim). Dopo la conquista della Gallia e il trionfo su di essa, Cesare pensò probabilmente di integrarne a Roma i nobili più ricchi e più colti, mediante la civitas prima e l’adlectio in senato poi. Si trattava di Narbonesi, membri da tempo della Provincia, ma essi non furono ugualmente ben visti ai romani, e a maggior ragione preoccupavano i Transalpini. Svetonio ci narra questo fatto, riportando schiettamente i commenti dei concittadini per niente propensi a considerare “dei loro” gli antichi nemici:
Vita Caesaris, I, 80: Peregrinis in senatum allectis, libellus propositus est. – Bonum factum: ne quis senatori novo curiam monstrare velit – ; et illa vulgo canebatur: – Gallos Caesar in triumphum ducit, idem in curiam. / Galli bracas deposuerunt, latum clavum sumpserunt.
Più sopra, aveva già detto senza mezzi termini (Vita Caes. I, 76): (Caesar) civitate donatos et quosdam e semibarbaris Gallorum recepit in Curiam.. Né il trionfo gallico né l’uccisione di Vercingetorige bastarono a placare gli animi (si può ricordare a questo proposito de bello Gallico VII, 89), sicché è comprensibile l’avarizia di Augusto nel concedere la civitas, così come ci risulta giustificata la valorizzazione dell’Italia rispetto alle province e all’Oriente nemico.
Se la dialettica probum/novum si attenua sotto l’impero di Augusto, anche perché “non vi è nessuno che si opponga”, almeno direttamente e con grande forza, come afferma Tacito, essa riemerge più oltre, con l’imperatore Claudio. Quest’ultimo aveva proposto, mediante i consoli di quell’anno, il 48, l’adlectio” in senato di alcuni cittadini gallici della Gallia Comata, e naturalmente il senato aveva tergiversato non poco sulla questione; Claudio allora prese personalmente la parola, pronunciando il noto discorso pervenutoci sia attraverso la Tavola di Lione, sia attraverso la più elegante rielaborazione di Tacito, Ann. XXIV; XXV, l. Data la lunghezza di tali testi, mi permetto di non riportarli integralmente in questa sede, sintetizzandone le affermazioni fondamentali per il nostro discorso; penso però che la lettura in classe di queste due fonti parallele possa essere molto utile agli studenti, sia dal punto di vista puramente contenutistico, sia da quello metodologico.
Claudio dunque (CIL., XIII, 1648 = Dessau, ILS., II, 212, pag. 52-53) inserisce la sua proposta di dignità senatoriale nel più ampio contesto della storia di Roma, dalle origini fino al suo tempo. Anche se il suo stile oratorio non è particolarmente elevato, la sua conoscenza e la sua intelligenza storica non sono da poco. A suo avviso, infatti, Roma non ha mai smesso, fin dai suoi primi passi, di assimilare dai popoli con i quali è stata in contatto tutto ciò che essi potevano avere di positivo; egli chiede di riflettere a quam multa in hac civitate novata sint. Da Romolo, cui successe Numa, un Sabino, vicinus quidem, sed tunc externus, Claudio passa a ricordare l’innovazione della translatio dalla monarchia alla repubblica, la creazione ed eventualmente la deposizione di cariche come il consolato, la dittatura, il decemvirato. Anche il divo Augusto e Tiberio Cesare vollero inserire in Curia florem ubique coloniarum ac municipiorum, bonorum scilicet virorum et locupletium, servendosi così di un nuovo more. Quanto alla Gallia in particolare, Claudio ricorda i personaggi che da essa sono già pervenuti da tempo, i legami che lui stesso e il padre Druso ebbero con la sua popolazione, e la fedeltà che la Gallia dimostrò sempre a Roma, dopo la conquista.
La rielaborazione di Tacito conferma in modo sostanziale il testo epigrafico: anche per lui molte fra le nobili famiglie di Roma hanno origine da altri gruppi etnici, e tuttavia questo fatto non ha danneggiato la città, anzi l’ha resa più forte e sicura. Tacito ricorda che furono chiamati in senato uomini da tutta Italia, dall’Etruria, dalla Lucania, dalla zona subalpina, così che non modo singuli viritim, sed terrae, gentes in nomen nostrum coalescerent. Con la concessione della civitas ai Transpadani, poi, cum specie deductarum per orbem terrae legionum additis provincialium validissimis fesso imperio
subventum est. Non nasconde motivi venali insieme a quelli ideali e politici: Iam moribus artibus adfinitatibus nostris mixti (Galli) aurum et opes suas inferant potius quam separati habeant. La sua conclusione chiarisce in modo rapido e preciso il pensiero storico – politico dell’imperatore:
Inveterascet hoc quoque, et quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit.
Ciò che ora è vigente, è stato anch’esso novum exemplum per essere poi superato: purchè le istituzioni e le persone siano proba, la traditio significa innovare. Roma non conosce quindi l’immobilismo e la chiusura: nessun popolo per principio è escluso dall’assumere il nomen Romanum, dall’entrare in questa comunità giuridico – sacrale. La potenza di Roma è proprio fondata su questa consapevolezza, che permette di stringere “foedera” e “fida pax” anche con i vecchi nemici, cosa che non fecero Spartani ed Ateniesi, segnando in tal modo il proprio destino di decadenza: Quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent, nisi victos quod pro alienigenis arcebant?
BIBLIOGRAFIA
A.H.M JONES, Augusto, Laterza 1974.
M.A.LEVI, Augusto e il suo tempo, Rusconi 1985
L CANALI, Potere e consenso nella Roma di Augusto, Laterza 1975.
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V.ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano, E.Jovene, Napoli 1977
LIBRI DI TESTO ESAMINATI
C.A GIANNELLI, Storia critica del mondo antico, ed. Bulgarini
F.CASSOLA-C.RUGGINI, Storia antica delle grandi civiltà, ed. La Nuova Italia.
A.BRANCATI, I popoli antichi, ed. La Nuova Italia.
Note
1) Benedetto XVI (L’infanzia di Gesù, 2012, pagg.72-4) commenta così questo testo, in particolare il termine Salvatore(σωτήρ):
Questo titolo, che nella letteratura veniva attribuito a Zeus, ma anche ad Epicuro ed Esculapio, nella traduzione greca dell’Antico testamento è riservato esclusivamente a Dio. Anche per Augusto, esso possiede una nota divina: l’imperatore ha suscitato una svolta nel mondo, ha introdotto un nuovo tempo. Nella quarta egloga di Virgilio abbiamo già incontrato questa speranza di un mondo nuovo, l’attesa del ritorno del paradiso. Anche se in Virgilio – come abbiamo visto – c’è un sottofondo più vasto, influisce tuttavia il modo in cui si percepiva la vita nell’era augustea: “Ora tutto deve cambiare…”.
E prosegue, analizzando il contesto storico della nascita di Cristo: Due aspetti rilevanti della percezione di sé, propria di Augusto e dei suoi contemporanei, vorrei ancora sottolineare in modo particolare. Il “salvatore” ha portato al mondo soprattutto la pace. Egli stesso ha fatto rappresentare questa sua missione di portatore di pace in forma monumentale e per tutti i tempi nell’Ara Pacis Augusti, i cui resti conservati rendono evidente ancora oggi in modo impressionante come la pace universale, da lui assicurata per un certo tempo, permettesse alla gente di trarre un profondo respiro di sollievo e sperare… Qui traspare il secondo aspetto dell’autocoscienza augustea: l’universalità che Augusto stesso, in una sorta di resoconto della sua vita e della sua opera, il cosiddetto Monumentum Ancyranum, ha documentato con dati concreti e messo fortemente in rilievo.
Aggiungiamo, a completamento della documentazione, il testo greco dell’iscrizione:
Εδοξεν τοις επι της Ασιας Ελλησιν, γνωμη του αρχιερεως Απολλωνιου του Μηνοφιλου Αζανιτου· Επειδη η παντα διαταξασα του βιου ημων προνοια σπουδην εισενενκαμενη και φιλοτιμιαν το τεληοτατον τω βιω διεκοσμησεν ενενκαμενη τον Σεβαστον, ον εις ευεργεσιαν ανθρωπων επληρωσεν αρετης, ωσπερ ημειν και τοις μεθ ημας σωτηρα πεμψασα τον παυσοντα μεν πολεμον, κοσμησοντα δε παντα, επιφανεις δε ο Καισαρ τας ελπιδας των προλαβοντων ευανγελια παντων υπερεθηκεν, ου μονον τους προ αυτου γεγονοτας ευεργετας υπερβαλομενος, αλλ ουδ εν τοις εσομενοις ελπιδα υπολιπων υπερβολης, ηρξεν δε τω κοσμω των δι αυτον ευανγελιων η γενεθλιος ημερα του θεου· της δε Ασιας εψηφισμενης εν Σμυρνη.