Riflessioni, consigli, esperienze didattiche
Vi sono alcune strutture in latino la cui spiegazione crea confusione invece di chiarire. Spesso questo dipende dalla conservazione della modalità di spiegare a partire dall’italiano, o della finalità di tradurre dall’italiano, o di comporre in latino: sembra che testi e docenti non abbiano ancora preso atto che nella scuola la prova di traduzione dall’italiano è terminata nel 1969, quarantacinque anni fa, quando molti docenti non erano neppure nati e la maggior parte non andava ancora a scuola, tanto meno al liceo. All’università la traduzione dall’italiano e la composizione sono durate un po’ di più, come pure in abilitazioni e concorsi, ma attualmente sembrano prove estinte. E’ un male? Non diremmo: a vantaggio di competenze dal valore culturale non essenziale si poneva il rischio di insegnare/imparare un latino ingessato, acronico, e di sostituire regole rigide all’esperienza linguistica dello scrivente. Ne fa fede ad esempio la sostanziale invenzione dell’attrazione modale, per non parlare del Ponte di Reusch.
Vorrei proporre alcune riflessioni, nate da esperienze in classi di triennio classico, su strutture comunissime, la cui spiegazione lascia spesso fraintendimenti che durano anni, riemergendo magari all’ultimo.
Dativo di possesso
Dovendo analizzare la frase sunt et mea contra/ fata mihi (Aen. IX) tutta la classe ha riconosciuto il dativo di possesso (persino la struttura a chiasmo con contra in forte posizione intermedia). Ma la spiegazione più puntuale ha portato a definire mihi come soggetto e fata come oggetto. Da notare che alcuni avevano anche proposto (la verifica richiedeva liberi suggerimenti di traduzione) di rendere diversamente dall’usuale la struttura in italiano, tipo anche per me c’è un mio fato, mostrando così che la comprensione della struttura c’era. Perché allora l’errore? Se la spiegazione all’origine (di docenti o sintassi) non insistesse sulla complicazione del soggetto che diventa dativo (alcune sintassi anche molto accreditate lo chiamano addirittura soggetto in dativo) e il verbo avere che diventa essere e viceversa, la struttura sarebbe ovvia e l’analisi libera arriverebbe alla comprensione.
Suus e eius
Nella generale e cronica ignoranza dei pronomi in tutte le lingue si colloca l’ulteriore complicazione del possessivo di terza persona riflessivo. Già in sé troviamo discutibile l’insistenza sull’uso o meno del riflessivo, perché si tratta di una delle regole più disattese dagli autori, che preferiscono rilevare più fortemente l’appartenenza piuttosto che sottostare alle regole del riferimento o meno al soggetto. Anche la questione del riferimento al soggetto della reggente in alcune subordinate e non in altre crea una confusione sostanzialmente inutile, perché è sempre possibile comprendere a chi il riflessivo si riferisce, se non altro dal contesto generale della frase. Perché allora insistere sull’uso del genitivo possessivo di is nel caso che non ci sia riflessivo? Perché non lasciare che liberamente s’intenda e si traduca di lui? (di lei, di ciò, di loro…). Poi si potrà, se si vuole, suggerire di sostituire il genitivo di possesso con l’aggettivo possessivo per una migliore resa italiana. Qual è il rischio in alternativa? Che si intenda eius come un aggettivo possessivo, che si faccia confusione su tutta la declinazione di is (ho trovato un eam inteso come sua) e che non si pensi alla possibilità di eius aggettivo concordato con un nome: eius gentis è stato tradotto da una ragazza con del suo popolo in un contesto in cui si trattava certamente di un altro popolo, appena nominato (quindi di quel popolo).
Casi obliqui del neutro
Ci chiediamo perché tanta insistenza nel dichiarare che in latino aggettivi sostantivati e pronomi neutri non usano i casi obliqui, sostituendoli con la perifrasi con res. Per quanto si tratti di un uso frequente, in genere per evitare la confusione col maschile (o anche il femminile), non è una regola, né un obbligo. E anche lo fosse, la perifrasi con res è traducibilissima senza problemi: di/a/con/per quella cosa, o se proprio si vuole evitare cosa come parola tabu, di/a/con/per ciò. Il fatto è che molte grammatiche inseriscono la perifrasi nel paradigma, creando assurdi tipo: hic haec hoc, huius huius huius rei ecc., quasi si trattasse di una forma unitaria. Perché stupirsi allora se ci sono studenti che analizzano huius rei come genitivo neutro del pronome?
Gerundio e gerundivo
Anche in questo caso l’ansia dell’italiano gioca pesantemente nel creare confusione su strutture in fondo molto semplici. Il gerundio è un sostantivo verbale neutro che sostituisce l’infinito sostantivato nei casi obliqui e nell’accusativo con preposizione. Per i classicisti (ma basta l’italiano) è chiaro che l’assenza dell’articolo declinato (come in greco) o della preposizione articolata (come in italiano) ha costretto il latino a dotarsi di un altro mezzo.
Il gerundivo è un aggettivo verbale di I classe dai molti usi e dai diversi significati. In particolare, se concordato con un sostantivo declinato in caso obliquo o all’accusativo con preposizione, può essere reso in italiano, analogamente al gerundio, con un infinito ( che regge il sostantivo).
Il resto è superfluo. Starà allo studio degli autori l’eventuale riflessione sulla preferenza dell’uno o dell’altro, peraltro interessante solo statisticamente. Insistere invece sull’interscambiabilità delle due strutture e sul rapporto con l’italiano porta a dubbi assurdi di fronte a forme di gerundivo femminile o plurale, che mai potrebbero essere gerundi.
Costruzione personale e impersonale
E’ spesso poco chiara l’idea stessa di costruzione personale. Nell’uso più ristretto – l’uso scolastico – della definizione, è costruito personalmente un verbo che ha un soggetto nominale espresso o sottinteso (l’uso più ampio considera impersonali solo i verbi meteorologici). La preferenza per la costruzione personale fa parte del gusto di una lingua o di un autore.
Il problema è reso assurdamente complicato da grammatiche che si sforzano di elencare una casistica di costruzioni personali permesse o no, in particolare per videor. Dei famosi 5 casi impersonali l’unico che comporta una reale scelta (ma è raro e in fondo ben poco importante) è l’ut mihi videtur parentetico dove potremmo aspettarci un ut mihi videris (tipo: stultus es, ut mihi…). Negli altri casi videor regge un verbo o una perifrasi impersonale, cosa che lo rende impersonale di per sé. Resta l’assurda questione del pronome neutro, che è tale se videor è impersonale, e non l’inverso! ma se si convincono i ragazzi che ogni pulchrum mihi videtur è costruzione impersonale, lo sarà anche quando il soggetto (neutro) è caelum!
Sulla resa italiana c’è pure un’eccessiva preoccupazione. In assenza di un infinito siamo di fronte semplicemente ad un verbo copulativo con predicativo del soggetto, traducibilissimo conservando la costruzione personale. Dove c’è l’infinito è meglio far trasformare in costruzione impersonale, spiegando che: 1) videor si comporta come un verbo servile con infinito e predicativo; 2) traducendo, il soggetto di videor diventa in italiano soggetto di una completiva soggettiva.
Si impersonale e passivante
E’ una questione di italiano, ma è una questione grave. Nell’uso comune i si si confondono, dando luogo a errori tipo affittasi appartamenti. Occorre capire che l’uso di si più il solo verbo (transitivo o intransitivo) è costruzione impersonale, mentre se c’è un sostantivo questo è il soggetto di un si passivante, per cui il verbo va accordato. Dunque si va, si mangia!, ma si affittano appartamenti, si mangiano legumi.
E in latino? entrambi i si italiani corrispondono a costruzioni passive, personali o impersonali: locantur praedia o ventum est.
A parte si può fare un discorso sul si riflessivo, su cui non sto a soffermarmi.
Nesso relativo
Un problema forse minore, salvo la difficoltà a volte di individuarlo rispetto alla prolessi. Ma mi vorrei soffermare sull’insistenza di alcuni testi e docenti perché sia tradotto introducendo una congiunzione, come fosse et (sed) is. A me pare che l’interesse per un legame fra le frasi, tipico del greco con i suoi polisindeti, ma presente anche in latino che pure usa ampiamente gli asindeti, va rilevato come un fatto idiomatico, non riprodotto in una lingua che da questo interesse è sempre più lontana: costringere poi i ragazzi a iniziare una frase con e quando in italiano viene loro più o meno perentoriamente proibito è almeno un controsenso.
Presente storico
Dissento decisamente da quanti esigono che venga tradotto con un imperfetto. La scelta del presente storico da parte di un autore serve a dare vivezza ad un fatto inserito in una più ampia narrazione al passato: appartiene allo stile dell’autore e come tale va conservato, tanto più che si tratta di una struttura comunissima anche in italiano.
Si tratta piuttosto di aiutare i ragazzi a distinguere il presente storico dal presente letterario (come dice Strabone) o dal presente descrittivo (che è un’isola dell’Egeo). Niente di male se la conservazione del presente storico evita di sbagliare!