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Nel laboratorio della traduzione

by Giorgio Zangrandi

di Pietro Rapezzi


Marziale, V 34: Epicedio per Erotio: un percorso poetico

La prima volta che sono venuto a contatto con Marziale è stato nella vecchia scuola media di tanti anni fa, quando il latino era materia obbligatoria fin dalla prima media. Eravamo in terza ed avevamo come antologia latina un libriccino semplice e disadorno (che conservo ancora, un po’ gualcito e con qualche pagina in meno), ma contenente una ricca scelta di testi, sia di prosa che di poesia, annotati con gusto e senso didattico. C’erano solo pochi epigrammi di Marziale, ma la loro arguzia mi colpì subito e mise in moto la mia tendenza a rendere in italiano l’effetto che avevano suscitato in me. Allora erano solo frammenti ed abbozzi, ma qualche anno dopo, al ginnasio e al liceo classico, cominciai a dare forma compiuta ai miei tentativi, estesi anche ad altri poeti (alcuni di questi figurano su “Zetesis.it”, come La morte di Priamo, Virgilio, Eneide , II, 526-558 e Sulla tomba del fratello, Catulloc.101). Allora la mia cultura letteraria era tutta di tipo classicistico, fondata principalmente su poeti come Alfieri, Foscolo, Leopardi, Carducci, con una prima frequentazione di Dante e di Petrarca. Della poesia novecentesca conoscevo molto poco e il verso libero non mi convinceva. Per me a quel tempo il verso della poesia era l’endecasillabo, eventualmente con qualche settenario. Delle versioni poetiche dai classici conoscevo in primo luogo quelle da Omero del Monti e del Pindemonte, i cui poemi si leggevano a scuola quasi per intero. Al ginnasio avevamo letto l’Eneide nella versione dell’Albini, anch’essa in endecasillabi, ma io andavo leggendo per conto mio anche quella di Annibal Caro e i frammenti di altri traduttori come Alfieri e Leopardi. Il mio gusto era ovviamente influenzato da questa formazione e anche il mio vocabolario poetico non si era ancora completamente liberato da certi arcaismi. Quando mi imbattei nel tenerissimo epicedio di Marziale, V 34, per la morte della piccola Erotio, provai una tale emozione, che mi sentii immediatamente spinto a cercare di restituirne i valori poetici in italiano. Nacque così la prima versione in terzine rimate di questo celebre epigramma (vedi in calce). La pubblicazione avvenne qualche anno dopo, quando conobbi la rivista didattico-letteraria “Gymnasium”, diretta da Gian Luigi Zuretti ed edita dalla S.E I..

Era, a giudizio mio, una bella traduzione, con versi delicati e commossi, ma il suo stampo era di tipo arcaizzante e con qualche vocabolo letterario ormai disusato, come l’ “aere superno”e l’ “adre ombre”, in cui figurava una chiara reminiscenza del sonetto Funere mersit acerbo del Carducci per la morte del figlioletto Dante, vv. 12-13: Oh, giù ne l’adre/ sedi accoglilo tu, in fine di verso e in enjambement,come nella mia traduzione. Non mancava qualche apòcope, anch’essa ormai disusata in poesia, anche se, devo riconoscere che, in qualche caso, come nei vv. 4-5, il troncamento accresceva col suo suono cupo la sinistra coloritura timbrica dell’aldilà: perché l’adre/ ombre non la riempian di paura,/ né l’orrido trifauce can d’Averno. A quel tempo ne ero soddisfatto, ma era cominciato intanto il mio processo di liberazione dagli schemi letterari ottocenteschi e di apertura al linguaggio vivo del nostro tempo, fino all’insorgere in me di una tale insofferente reazione, che sentii l’insopprimibile bisogno di dare una forma del tutto nuova alla versione di quell’epigramma, che sentivo lontano, per la sua toccante semplicità, dalla mia troppo elaborata e letteraria trasposizione, non più del tutto in accordo col mio nuovo gusto poetico. Nacque così, per una estrema ricerca di semplicità e di essenzialità, la seconda versione, che apparve nel 1969 nella rivista senese “Ausonia”, diretta dal poeta e traduttore Luigi Fiorentino (vedi in calce). Rappresentava certamente uno stacco notevole dalla prima: nessun arcaismo, nessuna movenza classicheggiante, una forma sciolta e viva, con accenti teneri e intensi, molto più vicina all’originale. Felice anche la correzione di “appunto” con “appena”, che accentua la pietà per la tenera età della piccola. La versione tuttavia, nata in diretta antitesi con la prima, non rispondeva ancora in tutto all’originale: c’era ancora qualcosa da ritoccare. Con la terza ed ultima versione, pubblicata nel volume ”Marziale, Epigrammi”, 2013 (vedi in calce), si conclude quel lungo percorso poetico di affinamento e adeguamento, secondo il criterio della fedeltà allo spirito e ai valori stilistici del testo sempre da me seguito. Nell’ultima versione ho dunque recuperato sia il nome dei genitori del poeta, sia quello della piccola Erotio, omesso nella precedente, ma essenziale in un epigramma funerario, ponendo subito all’inizio del componimento, come nel testo latino


(“Hanc…puellam”), il riferimento alla sua persona: “Questa bambina…”. Ho dato una nuova rappresentazione, conformemente alla nuova resa meno asciutta dell’epigramma, del pauroso aldilà (vv. 5-6), con maggiore aderenza ai particolari dell’originale, mantenendone i suoni cupi, in particolare la forte allitterazione del fonema r. Ho infine sostituito a né tu pesarle, o terra il sintagma né le sii grave, o terra, in un più netto rapporto di antitesi con a te fu lieve. Il lungo percorso di affinamento e adeguamento aveva così trovato compimento.


Questo percorso è naturalmente solo esemplificativo di quello che è diventato, dopo le prime esperienze, il mio più o meno immediato iter
traduttivo (anche se, in genere, e in qualche caso in particolare, una revisione a distanza può sempre servire). Ogni traduttore ha la sua concezione, i suoi gusti, il suo particolare modo di tradurre. Non si può stabilire in sede teorica un unico modello di traduzione. Ogni traduzione, in fondo, si misura dai suoi esiti. Per quanto mi riguarda, credo che al traduttore competa di tradurre il testo originale con la massima fedeltà, trasferendolo nella nuova lingua senza farne un pedissequo duplicato, ma anche senza procedere per vie troppo personali e divaganti. Fedeltà dunque al tono e allo stile: questi sono gli obiettivi ai quali mi sono sempre ispirato, oltre che per convinzione, anche per una mia personale esigenza, che sento soddisfatta solo quando mi sembra di avere raggiunto una sorta di immedesimazione, di piena consonanza con l’originale. La traduzione letteraria è un’operazione delicata e complessa, un lavoro singolare: “scendere fino in fondo nell’occultamento di se stesso per farsi invadere dalla voce di un altro, farsene permeare, ma per cercare nella profondità di se stesso un modo per restituirla. E’ un percorso di estrema oblatività a cui fa seguito uno scatto di orgoglio creativo” (Renata Colorni, da un’intervista di R. Reichmann). Meglio di così non si sarebbe potuto dire.

MARZIALE, V, 34

Hanc tibi, Fronto pater, genetrix Flaccilla, puellam
oscula commendo deliciasque meas,
parvola ne nigras horrescat Erotion umbras
oraque Tartarei prodigiosa canis.
impletura fuit sextae modo frigora brumae,
vixisset totidem ni minus illa dies.
inter tam veteres ludat lasciva patronos
et nomen blaeso garriat ore meum.
Mollia non rigidus caespes tegat ossa nec illi,
terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.

(testo latino a cura di W.M. Lindsay, Oxford 19292, rist. 1969)

TRADUZIONI
 
EPICEDIO PER EROTIO

 Padre Frontone, e tu, Flaccilla madre,
della bambina Erotio abbiate cura,
ch’era mio vezzo e gioia, perché l’adre
ombre non la riempian di paura,
né l’orrido trifauce can d’Averno.
Oggi avrebbe la povera creatura
compiuto appunto il sesto freddo inverno,
se il Ciel le avesse dato di restare
altri sei giorni a l’aere superno.
Oh ma che possa ancor, tra voi, giocare
felice come a l’aura serena
e con incerta lingua cinguettare
il nome mio! Non dura zolla prema
le delicate ossa, né tu grave
esserle, o terra: lei ti sfiorò appena

(da “Gymnasium”, 1961-62, p. 424)

 
A voi, miei genitori, raccomando
questa bambina, che era la mia gioia,
perché al buio del Tartaro e alla vista
del cane mostruoso ella non tremi.
Oggi avrebbe la povera piccina
compiuto appena il sesto freddo inverno,
se altri sei dì fosse rimasta in vita.
Tra i cari suoi patroni possa ancora
giocar felice e con la malsicura
vocina cinguettare il nome mio!
Non dura zolla le molli ossa copra,
né tu pesarle, o terra: a te fu lieve. 

(da “Ausonia”, A. XXIV, Genn. – Febbraio 1969)

 

Questa bambina, che era la mia gioia,
l’amore mio, a te, padre Frontone,
a te, madre Flaccilla, raccomando,
perché la piccola Erotio non abbia
orrore delle nere ombre e del cane
tartareo dalla gola mostruosa.
Oggi avrebbe la povera piccina
compiuto appena il sesto freddo inverno,
se altri sei dì fosse rimasta in vita.
Tra i cari suoi patroni possa ancora
giocar felice e con la malsicura
vocina cinguettare il nome mio!
Non dura zolla le molli ossa copra,
né le sii grave, o terra: a te fu lieve.

(da “Marziale, Epigrammi” , introduzione, traduzione e note di Pietro Rapezzi, Quattroventi, Urbino 2013).

2. NOTA ALLA TRADUZIONE DELLE  ODI DI ORAZIO

Dopo tante disquisizioni e teorizzazioni sulla traduzione, si finisce sempre per tornare al punto di partenza: non esiste un tipo di traduzione che sia il migliore di tutti e proponibile a modello. Non esiste la traduzione in astratto: esistono i singoli poeti e i singoli testi da tradurre. Non a tutti i poeti si confà lo stesso sistema di traduzione, anche se nessun sistema può essere in partenza categoricamente escluso. Ciascun poeta pone dei problemi specifici. Alcuni sono quasi intraducibili per certi caratteri che solo nella lingua originale trovano il loro pieno valore. L’Orazio delle Odi è uno di questi. La composizione in strofe di raffinata e variegata struttura, intessuta di stilemi originali, associazioni ardite, concentrazioni espressive  le rende dei modelli poetici molto problematici da  tradurre. Rendere in italiano il rapporto armonico e funzionale che c’è tra metro, strofa, verso e spirito dell’ode è un obiettivo forse irraggiungibile. La difficoltà del compito non deve tuttavia dispensare dall’affrontarlo, rinunciando a trasferire nella nostra lingua almeno dei riflessi di quella poesia. Tradurre, quando non lo si faccia per mestiere, oltre che una vocazione e un atto di amore, è una ricerca, un’analisi, un contributo alla ricognizione del testo. Presento pertanto, a titolo di sperimentazione e ben consapevole della distanza dal modello, cinque traduzioni affrontate con metodi diversi, limitandomi da parte mia a fare qualche osservazione a chiarimento delle modalità seguite.Le odi tradotte sono: I 4; 9; II 3; 14; IV 7: le tre centrali costituite, nell’originale, da strofe alcaiche (1), la prima e l’ultima da metri archilochei, rispettivamente quarto e primo (ma esistono altre classificazioni dell’archilocheo) (2). Nelle traduzioni italiane mi sono servito di modalità abbastanza difformi. Per l’alcaica ho usato: il metodo “barbaro” dell’accento ritmico, contaminandolo con varie licenze del metodo barbaro carducciano o grammaticale (II 3) (3); il metodo che,  stando ai criteri di classificazione del Vergara, potrebbe definirsi dell’approssimazione  (I 9) (4); l’endecasillabo sciolto (II 14).  Per l’archilocheo (I 4; IV 7) ho usato il verso libero secondo due differenti modalità.Comincio con la traduzione dell’ode II 3 (Aequam memento rebus in arduis), fondata sul metodo ritmico ‒ consistente, come è noto, oltre che nella corrispondenza, comune a tutta la poesia barbara, del  numero delle sillabe di ciascun verso italiano con quelle dell’analogo verso latino, nella coincidenza degli accenti tonici italiani con le arsi dei versi classici ‒, ma con varie concessioni al metodo grammaticale. La strofa italiana ha assunto pertanto la seguente configurazione formale: vv. 1-2: due doppi quinari, di cui il primo piano, il secondo sdrucciolo, con cesura sempre dieretica tra i due emistichi; v. 3: un novenario piano; v. 4: un decasillabo piano.

Per quanto riguarda l’accentazione, mentre il sistema ritmico è stato sempre osservato nei versi 3 (di ritmo giambico, con accenti di 2^, 4^, 6^, 8^) e 4 (di ritmo dattilico-trocaico, con accenti di 1^, 4^, 7^, 9^), nei primi due versi si è temperata talvolta la rigidezza del metodo ritmico col più elastico metodo carducciano. In particolare nel secondo quinario l’accento di prima sede lascia frequentemente il posto a quello di seconda, mentre anche nel primo quinario, ma solo rare volte, manca l’accento di seconda sede. Tale contemperamento è stato determinato da ragioni poetiche, anteposte alla rigida applicazione della regola. Devo infatti rilevare che, in tale tipo di versificazione, la dura costrizione metrica rende talvolta molto limitativo l’atto della ricreazione poetica. Altra cosa è usare un certo tipo di metrica con le sue specificità, anche se vincolanti, in una composizione originale, che si svolga in piena libertà creativa, altra cosa finalizzarlo al rifacimento d’un testo con  una sua struttura già definita, a cui  debba risultare “fedele”. Insomma una cosa è scrivere in proprio, un’altra tradurre, che è una specie di “libertà vigilata”. Si rischia di rimanere imprigionati in schemi formali, senza riuscire ad animare  e ricreare la versione dall’interno. Mantenere inalterato il numero dei versi e quello delle sillabe, in due lingue tanto diverse, è già di per sé un’operazione difficile: riprodurre insieme la poesia, il tono e lo stile, sempre in quella medesima strettoia, è ancora più arduo.  Per questo tipo di traduzione il pericolo maggiore è di approdare a soluzioni tecnicamente ineccepibili, ma poeticamente morte. Bisogna poi dire che tale corrispondenza ritmica è qualcosa di illusorio, non potendo offrire che una mera parvenza di quella che doveva essere l’armonia del verso fondata sulla quantità, oggi non più percepibile.

Per la traduzione dell’ode I 9 (Vides ut alta stet nive candidum),ho dato maggiore estensione al verso con l’uso generalizzato dell’endecasillabo, ma  mantenendo anche qui, anche se in modo imperfetto, l’andamento ritmico proprio dell’alcaica. Il leggero allungamento del verso è bastato a facilitare la traduzione, consentendo maggiore libertà espressiva e la possibilità di aderire al testo con maggiore naturalezza. L’endecasillabo alcaico è stato reso con un endecasillabo sdrucciolo sempre introdotto da un quinario piano, per lo più con cesura dieretica, così da rendere sensibile lo stacco tra i due membri. L’enneasillabo del terzo verso, anche se nella versione accresciuto di due sillabe, ha mantenuto generalmente la scansione giambica, mentre anche nel  decasillabo finale ho conservato l’incipit  dattilico con accenti di 1, 4, 7, 10.Niente è necessario dire a proposito dell’endecasillabo sciolto, con cui è stata resa l’ode II 14 (Eheu fugaces, Postume, Postume).

Poco c’è da dire, almeno in questa sede, anche a proposito del verso libero, che consente ovviamente ampie possibilità di intervento, anche se sostanzialmente riconducibili a due fondamentali modalità: una consistente nel dare alla traduzione una nuova struttura, più vicina al carattere della poesia italiana, che possa confrontarsi negli esiti con l’originale; l’altra tendente invece a dare alla traduzione una specie di equivalenza strutturale, mantenendo gli stessi versi dell’originale e traducendoli “verso da verso”, col massimo di aderenza a ciascuno. Io ho usato ambedue le modalità. Ai lettori il giudizio.


NOTE

1. L’alcaica è una strofa tetrastica, formata da due endecasillabi alcaici (tripodia giambica catalettica più dipodia dattilica con cesura dieretica tra i due cola), un enneasillabo alcaico (pentapodia giambica catalettica) e un decasillabo alcaico (dipodia dattilica più dipodia trocaica).

2. Si tratta comunque, per quanto riguarda I 4,  di una strofa distica costituita da un archilocheo maggiore (tetrametro dattilico più  tripodia trocaica con cesura dieretica tra i due cola), seguito  da un trimetro giambico catalettico; per quanto riguarda IV 7, di una strofa distica costituita da un esametro dattilico seguito da una tripodia dattilica catalettica in syllabam. Secondo una teoria risalente al filologo tedesco August Meineke, non da tutti condivisa, ambedue le strofe distiche sarebbero sempre usate in coppia nelle Odi, così da diventare anch’esse delle strofe tetrastiche.

3. La definizione di poesia “barbara”, coniata dal Carducci, è meglio applicarla, come scrive G. Vergara, La poesia barbara: come e quando, “Misure critiche”, A. VI, n. 18, gennaio-marzo 1976, pp. 73-74; ID., Guida allo studio della poesia barbara italiana, Napoli 1978, p. 12, in modo da evitare confusioni, a “tutta la  produzione poetica di imitazione latina e greca”, distinguendola però di volta in volta con delle aggiunte che ne specifichino i diversi principi cui si attiene. Abbiamo così, seguendo tale criterio: “1) poesia barbara della quantità (metodo prosodico o del Tolomei); 2) poesia barbara dell’accentogrammaticale(metodo barbaro o del Carducci); 3) poesia barbara dell’accento ritmico (metodo ritmico o del dopo-Carducci); 4) poesia barbara dell’accento ritmico e della quantità (metodo ritmico-prosodico o del Pascoli); 5) poesia barbara dell’approssimazione”.

4. Il Vergara definisce poesia dell’approssimazione quella che tende, sul piano metrico, ad “una approssimativa imitazione dei versi classici”, riproducendone “aspetti marginali”, La poesia barbara cit., p. 74