di Diana Perego
Due gruppi di Baccanti (quelle d’Asia del corteo dionisiaco e quelle tebane), due Dioniso (quello fattosi uomo e quello divino) due generazioni a confronto (il giovane Penteo e l’anziano Cadmo) e due autori lontani nel tempo (Euripide nella traduzione di Ezio Savino e sorprendentemente Jacopone da Todi) si mescolano in modo armonico nel coinvolgente spettacolo Le Baccanti messo in scena dall’associazione Kerkìs (Teatro antico in scena), per la prima volta, il 26 maggio al teatro S. Lorenzo alle Colonne di Milano con direzione drammaturgica di Elisabetta Matelli e regia di Christian Poggioni. Tradizione e innovazione convivono nello spettacolo in cui, non solo è mantenuta, ma potenziata la sacralità del testo.
Le Baccanti d’Asia, vestite con abiti chiari, nei cori (curati da Adriano Sangineto e Lucia Amarilli Sala) celebrano Dioniso come dio che dissolve i dolori, che concede la felicità di una vita vissuta giorno per giorno, ballano armoniosamente l’emmeleia stringendo i tirsi e cantano i versi euripidei utilizzando il volgare umbro di Jacopone da Todi. Le menadi tebane invece, catturate per volontà di Penteo, si muovono scoordinatamente, ringhiano in modo animalesco e indossano abiti color sangue-vinaccia. Il contrasto tra i due gruppi di donne è quindi visivamente e musicalmente molto evidente. Il personaggio di Agave (interpretato magistralmente da Giulia Quercioli), che irrompe trionfante sulla scena vantandosi della caccia fruttuosa “con questa caccia ho compiuto un’impresa grande, grande e visibile!”, rappresenta il prototipo della baccante tebana, una donna che ha messo da parte le spole e i telai, tipici lavori femminili, per dedicarsi ad imprese maschili quali la caccia di belve a mani nude. Nel momento culminante della tragedia, Agave, ricondotta alla ragione dal padre Cadmo, capisce di aver ucciso con le sue mani il figlio Penteo e non un cucciolo di leone, di cui stringe ancora la testa tra le mani; in preda al dolore, inizia il lamento funebre, et eo comenzo el corrotto, con le parole strazianti della lauda Donna de Paradiso di Jacopone da Todi. Ora Agave parla la stessa lingua delle Baccanti d’Asia, ora riconosce che Dioniso è figlio di Zeus, “Era nel giusto, ma troppo ha infierito”, dice Cadmo a proposito della vendetta del dio. Il dolore di Agave, per la perdita del figlio amato, è assoluto, inconsolabile come quello di Maria, un dolore sacro, che suscita pietà (e non solo terrore per la responsabilità materna dell’infanticidio); in questo senso i due testi di Euripide e Jacopone sono stati accostati in modo coraggioso. Nell’ultima scena le luci illuminano per un attimo Agave che, nella posa della Pietà di Michelangelo, regge il figlio morto Penteo. Le contaminazioni risultano funzionali al testo euripideo, di cui è mantenuta l’arcaicità, la sacralità e sottolineata l’universalità.
Originale anche la compresenza sulla scena di due Dioniso, uguali nei costumi e nella maschera, ma diversi nella corporatura e nella voce dei due attori; Dioniso-dio più piccolo e dalla voce più acuta, Dioniso-uomo (molto bravo l’attore Simone Mauri) più grande e dalla voce forte. La scelta è non solo originale ma funzionale alla comprensione del testo, nel quale Dioniso agisce mascherato da straniero, con lunghi riccioli biondi (ricordiamo che il testo euripideo è fondamentale testimonianza dell’iconografia del dio); in questo modo il pubblico distingue chiaramente quando Dioniso agisce mascherato da uomo e quando invece si palesa come un dio (nel prologo e nell’esodo). Nella scena finale i due Dioniso, schiena a schiena, assistono trionfanti all’addio tra Cadmo e la figlia Agave.
Anche lo scontro religioso e generazionale tra Penteo, difensore dell’ordine della polis che rinnega il culto di Dioniso professato dallo straniero effemminato, e il nonno Cadmo, che pur essendo anziano, si dichiara pronto a danzare e salire sul monte Citerone, è rappresentato in modo convincente soprattutto dal bravo attore (Stefano Rovelli) che indossa i panni di Penteo, risoluto, duro e intransigente nel dialogo con Cadmo, ingenuo, deriso e quasi indifeso quando, ingannato dall’astuto Dioniso-straniero, compare travestito da donna, con l’abito di una folle baccante. Nella vicenda tragica si apre a questo punto una divertente parentesi comica.
Semplice la scenografia, formata da lastre di pietra, che rappresenta la reggia di Penteo; curati nei dettagli i costumi, in particolare quello di Dioniso, aderente all’iconografia indicata nel testo, e quello di Agave, stracciato e color vino-sangue come le mani insanguinate della madre assassina (scenografie e costumi realizzati dagli studenti della scuola di scenografia dell’Accademia di Brera). Da segnalare per accuratezza anche le maschere, realizzate da Dino Serra, di Dioniso che ricordano alcune maschere greche in miniatura rinvenute da Bernabò-Brea nella necropoli di Lipari.
Ancora una volta l’associazione Kerkìs si è distinta per la qualità dello spettacolo che riesce ad essere contemporaneamente fedele al testo euripideo e aperto alle contaminazioni non solo letterarie (Jacopone da Todi) ma anche artistiche (Michelangelo).