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La terminologia per ‘popolo’in greco

by Mariapina Dragonetti

di Moreno Morani

da Zetesis 1994-1


1. La terminologia indoeuropea per popolo

La rappresentazione della situazione sociale dell’uomo indoeuropeo, ampiamente elaborata da Benveniste nel suo ormai classico Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, per quanto non esente da critiche, può essere assunta come ideale punto di partenza[1]: nel quadro tracciato da Benveniste emerge, nel periodo più antico a cui la ricostruzione linguistica ci porta, l’assenza di un termine specifico per l’idea di popolo, inteso come entità sociale che abbraccia più tribù, che si estende a un ambito territoriale più vasto e che soprattutto si riconosce come depositario di valori comuni per tradizione, lingua e religione[2].

Va detto preliminarmente che si possono muovere allo schema del Benveniste obiezioni metodologiche di due ordini: l’aver spesso valorizzato in modo eccessivo, sia qui sia in altre occasioni, la situazione iranica, considerando questa come la più conservativa e proiettandone pertanto molte caratteristiche salienti al periodo più antico (a questa tentazione il Benveniste era facilmente esposto perché la sua specializzazione linguistica lo portava verso il mondo iranico) e l’aver sintetizzato una serie di realtà e di fattori estremamente complessi in uno schema che ad un’attenta lettura risulta un po’ angusto. Il suo vocabolario delle istituzioni indoeuropee poggia su due premesse che parrebbero, almeno da un punto di vista logico, indiscutibili: la presunzione di una relativa unità linguistica indoeuropea porta a presumere l’esistenza di una relativa unità etnica; l’esistenza di una relativa unità etnica a sua volta comporta l’esistenza di un mondo culturale entro certi limiti comune. Ma l’esperienza linguistica più recente ci ha messo in guardia dalla pretesa di voler a tutti costi ricostruire un indoeuropeo unitario e monolitico, sia perché in molte circostanze presumere di ridurre ad unità sistemi linguistici diversissimi come possono essere quelli, poniamo, dell’ittita o del lituano, risulterebbe impossibile, sia perché in ogni lingua esistono differenze legate a ragioni geografiche e sociali[3]: così a maggior ragione la possibilità di ricostruire una cultura primitiva indoeuropea, rappresentabile in modo sincronico, deve essere assunta con estrema cautela. In una totale assenza di testi e di documentazione diretta, ciò che noi sappiamo e possiamo dire degli Indoeuropei è assai poco, e anche quel poco non è esente da dubbi e incertezze. Il fatto che un determinato elemento si presenti in una o più culture di etnie parlanti lingue indoeuropee non permette necessariamente di definire questo elemento né come patrimonio comune di tutte le tribù parlanti lingue indoeuropee né come elemento che contrappone una cultura indoeuropea primitiva di fronte ad altre culture non indoeuropee.  Ed è comunque significativo che, come vedremo, partendo da presupposti diversi altri studiosi arrivino a postulare uno schema sensibilmente diverso dei cerchi d’appartenenza. Il carattere di questo scritto non ci permette di entrare in ulteriori particolari: ci limitiamo a segnalare al lettore un principio importante: il parlare di “istituzioni” indoeuropee non deve far pensare all’esistenza nella fase più antica di un’entità statale organizzata e stabile, come poteva essere per esempio la Roma repubblicana: nel periodo a cui la ricostruzione etnico-linguistica ci porta abbiamo piuttosto a che fare con una serie di tribù nomadi o seminomadi, rimaste spesso prive di contatti fra loro per lunghi periodi: più che a organizzazioni politiche già solide e strutturate, come quella romana o ateniese o altro ancora, si dovrà pensare alla Gallia antica, quale è descritta da Cesare: un insieme di tribù diverse, ciascuna con istituzioni e regole autonome, spesso in situazione conflittuale o in stato di guerra più o meno latente, che hanno rapporti frammentari e circoscritti a un incontro annuale: è più che probabile che nel mondo indoeuropeo mancasse anche quest’ultimo aspetto. In conclusione, quando si passa dal piano linguistico a quello culturale, si dovrà fare appello alla massima prudenza: le nostre conoscenze di “cultura” indoeuropea sono tutte ipotetiche e lacunose.

Precisiamo tuttavia che questo invito alla cautela, più che il Vocabolario benvenistiano, nel quale il materiale è comunque sempre trattato con molta chiarezza e col dovuto equilibrio, induce piuttosto ad accogliere con molto senso critico le conclusioni che si leggono negli scritti di alcuni epigoni della linea interpretativa Dumézil-Benveniste: basta leggere una sintesi come quella di J. Haudry (Les Indo-Européens), collocata per di più in una collana di grande prestigio e larghissima diffusione come il “Que sais-je?” delle Presses Universitaires de France, per constatare a quali spericolate acrobazie porti l’aver trascurato queste semplici e doverose precisazioni metodologiche: una volta individuato in una determinata caratteristica sociale o culturale un retaggio dell’originario patrimonio comune, si cerca di far combaciare la struttura culturale o sociale delle varie tradizioni indoeuropee allo schema che si è proposto (e talora imposto) come originario, con forzature interpretative talora evidenti e con un generale appiattimento di prospettiva.Seguendo dunque il Benveniste i quattro cerchi dell’appartenenza sociale secondo la terminologia antico-iranica (avestica) comprendono:
la casa: dam-, dǝma-na-, nma-na-;
il clan: vi-s
la tribù (l’insieme di quelli che hanno la stessa nascita): zantu;
il paese (dahyu).
Ciascuna di queste entità sociali era presieduta da un capo, il cui appellativo era costituito dal nome del cerchio seguito dalla parola significante ‘signore’, in avestico paiti– (dall’indoeuropeo *poti– che si ritrova, con valori un po’ diversi, nel gr. πόσις e nel ποξο usato lat. pote): pertanto dma-napaitivi-spaitizantupaitidahyupaiti.

Giacomο Devoto, il grande linguista che nelle sue Origini indoeuropee ha tentato di conciliare e coordinare i dati dell’archeologia e della linguistica[4], muovendo da presupposti differenti perviene a una visione sensibilmente diversa da quella di Benveniste. Il Devoto riconosce nel periodo più antico due grandi cerchi: quello della casa e quello del villaggio; il primo trova una duplice espressione nei diversi derivati della radice *ĝen– (quella di gignere e di γένος) e *dem– (quella di domus, ma anche di indoeur ‘costruire’): le due serie mirano a rappresentare la famiglia patriarcale come cellula sociale primaria, cogliendo da una parte l’aspetto della discendenza comune e dei legami (di sangue o per acquisizione), dall’altra l’organizzazione economica[5]. Più a monte della famiglia sta il *weiḱ‑, “aggregato superiore alla famiglia”, molteplicità di abitati.

La terminologia iranica è sicuramente arcaica: lo prova il ricorrere, in altre tradizioni indoeuropee ove sia l’organizzazione sia la terminologia antica è stata abbandonata e sostituita da modelli diversi, talvolta anche profondamente diversi, di termini in tutto o in parte analoghi a quelli testé elencati, conservati come relitti che il parlante non è in grado di analizzare: tale è ad esempio il caso di gr. δεσπότης, nel quale è impossibile per chi non abbia solide competenze linguistiche e possibilità di accedere a tradizioni linguistiche diverse da quella greca riconoscere la presenza della radice di δόμος[6] nella prima parte e di un corradicale di πότις [7] nella seconda. Fatto singolare, la terminologia iranica comprende, per designare il cerchio d’appartenenza più vasto, un termine di origine oscura e sicuramente non indoeuropea (dahyu-) e, fatto altrettanto singolare, il termine indiano linguisticamente corrispondente, dasyu-, è utilizzato per indicare lo straniero, potenzialmente nemico[8]. Si può tentare di spiegare quest’apparente contraddizione: sembra che nel periodo più antico la coscienza dell’appartenenza si limitasse a cerchi molto ristretti, che non esorbitavano dall’ambito del villaggio o del gruppo di villaggi: viceversa l’organizzazione sociopolitica iranica ha accolto nell’ambito della propria struttura terre e popolazioni originariamente considerate lontane: da qui il rovesciamento di valore di un termine che all’inizio doveva avere valenza prevalentemente negativa.

Ancora, la terminologia iranica studiata da Benveniste non è immediatamente sovrapponibile con la terminologia delle lingue classiche, ove il secondo termine o è divenuto un sinonimo del primo (l’uso greco non distingue oἶκος da δόμος[9]) o ha comunque assunto un senso lontano da quello originario (lat. vī-cus) e si sono introdotti termini nuovi come il gr. φυλή e il lat. tribus. In entrambe queste ultime parole compare la radice *bhū- ‘esistere, essere’: il termine latino inoltre comprende nella sua prima parte un corradicale del numerale per ‘tre’: tribus è quindi ‘la terza parte’ della popolazione, e il verbo che ne deriva, tribuere, vale originariamente ‘ripartire per tre’[10]. Quanto all’iranico zantu, esso proviene dalla radice *ĝen- (quella, per intendersi, di γίγνομαι, gignō, nāscor, ecc.) con una suffissazione in –tu: in latino troviamo un termine corradicale, ma formato con diverso suffisso, gēns (<ĝen-ti-), a designare un gruppo sociale che rivendica un’origine comune; contenuti semantici in parte analoghi ha il gr. γένος, anch’esso derivato dalla stessa radice, ma con formazione ancora diversa (appartiene infatti ai temi in –s). Specifico del latino, e di origine oscura (e giunto al latino probabilmente per intermediazione osca), è infine il termine familia, usato in origine per indicare l’insieme dei servitori che abitavano sotto lo stesso tetto, passato poi a designare una porzione più piccola della gens e caricato di contenuti giuridici molto definiti e tecnicamente ben precisati.

Qualche indicazione interessante ci viene dall’esame di un passo vedico (RgVeda 5, 85, 7), in cui si enumerano i vari tipi di legami che intercorrono fra gli esseri umani: poiché l’enumerazione comincia dal rapporto meno stretto per giungere attraverso vari passaggi al più stretto, abbiamo innanzitutto l’uomo a cui sei legato per ospitalità (aryamyá-) e l’uomo a cui sei legato per contratto (mitryá-): in questi due primi casi parrebbe trattarsi di relazioni occasionali che non provengono dalla comune appartenenza a un nucleo definito, bensì sono determinati da circostanze esterne; vengono enumerati successivamente l’uomo della tribù (sákhi-), il fratello, l’uomo del villaggio o del clan (veśa-). Il passo, peraltro di interpretazione non chiarissima, mostra che già nel periodo più antico il senso dell’appartenenza a corpi sociali sempre più ristretti era organizzato secondo modalità diverse anche in zone territorialmente contigue e legate da affinità linguistico-culturali solidissime come erano l’India e l’Iran: nello stesso tempo il senso dell’appartenenza a un’entità sociale assimilabile al popolo ancora non compare, mentre si pongono tipi di legame che non sono fondati su legami di sangue o sul riconoscimento di valori comuni (l’ospitalità; il contratto). Si è voluto da parte di alcuni intendere aryamyá come ‘uomo del popolo’: aryamyá è un termine che non compare altrove nella letteratura indiana e che si rifà al nome di una divinità, Aryaman, legata al culto di Mitra e di Varuṇa. Secondo alcuni studiosi dunque il suo nome conterrebbe nella prima parte una delle designazioni con cui le tribù indoeuropee (o, meglio, alcune tribù indoeuropee) designavano sé stesse, vale a dire *aryo-, termine rimasto vivo e vitale soprattutto nella zona più orientale del territorio indoeuropeo, e sopravvissuto fino ad oggi nel senso originario nel termine Īrān, propriamente genitivo plurale ‘(la terra) degli arii’. In realtà è più probabile che il nome di Aryaman sia da collegare con un’altra voce vedica, arí-, che indica l’altro, l’esterno: il nome degli Ari e questo vocabolo, nonostante gli sforzi interpretativi degli studiosi a cui abbiamo accennato, non avrebbero nulla in comune fra di loro, se, come sembra opportuno e come fanno i lessici etimologici indoeuropei, si fa risalire il nome degli Arii a un *ar- primitivo e ari– a un *al– primitivo, corradicale dell’*alyo– che sta alla base del lat. alius, del gr.ἄλλος, dell’arm. ayl. In tale caso, le due serie sono completamente estranee l’una all’altra, e il tentativo di collegare il concetto di “appartenente al popolo” e di “estraneo al popolo” come due facce di un’unica realtà appare nient’altro che un’esercitazione ermeneutica fine a sé stessa e difficilmente condivisibile.In ogni modo, il fatto che al secondo posto dell’enumerazione sia collocato il mitrya-, cioè l’amico definito come tale per via di un accordo, fa concludere che il legame che fa capo ad Aryaman sia ancora più vago[11]. Piú che le somiglianze dunque, dall’esame del passo vedico emergono in realtà le differenze fra questo modello di organizzazione e quello presente in altre società.

In latino gēns è venuto ad occupare lo spazio costituito originariamente dal secondo e terzo cerchio: infatti la gēns è costituita da un insieme di famiglie che può fare capo a un progenitore comune come in ambiente indo-iranico il viś-: ad esempio in un inno vedico (RgVeda 10, 135, 1) il dio della morte Yama è descritto nell’atto di bere la bevanda rituale del soma presso un albero dalle belle foglie insieme con il “nostro padre signore del viś-“. In greco, oltre alla coincidenza, già notata, che si è venuta a creare fra δόμος e οἶκος si ha uno spostamento di valore dell’antico termine indicante il fratello: se nel periodo più antico la parola sottolineava un legame di sangue diretto e immediato, il termine viene a indicare nell’organizzazione greca un legame di natura prettamente giuridico-religiosa[12]: occorrono trenta γένη per costituire una fratria, e tre fratrie per costituire una φυλή. Questa perdita di valore del legame familiare, e l’assunzione in φράτωρ di un valore sensibilmente diverso da quello originario (conservatosi in tutte le altre tradizioni indoeuropee esclusa la greca) non stupisce più di tanto, se si ricorda che anche nell’inno vedico segnalato in precedenza il fratello viene al penultimo posto dell’enumerazione, seguito dal veśa, dal ‘vicino’ (in un significato che, sia pure in contesto sensibilmente diverso, potrebbe essere messo a confronto col ‘prossimo’ biblico).

Per tornare al Benveniste, la sua conclusione[13] è che “non esiste un termine che, da un punto all’altro del mondo indoeuropeo, designi la società organizzata … Di fatti, vi sono dei termini, delle serie di termini, che coprono la distesa di una divisione territoriale e sociale di dimensioni variabili”. Anche secondo Devoto “mentre la terminologia della gente, della famiglia, della Sippe fa parte del vocabolario compatto … quella del popolo è molto più travagliata”[14]. Le stesse difficoltà erano già state avvertite, parecchi anni prima, da Schrader, che aveva tentato di sintetizzare in un repertorio alfabetico le conoscenze dell’epoca relative al mondo indoeuropeo: anche Schrader perviene alla conclusione che non vi siano un termine comune per ‘popolo’[15]. In realtà, se è abbastanza facile recuperare dei termini che si possono qualificare come antichi ed estesi a un numero abbastanza vasto di dialetti indoeuropei, è poi difficile caricare di contenuto semantico tali termini. Il metodo di ricerca cosiddetto lessicale, che si accontenta di ricostruire la forma esterna delle parole, ci permette di recuperare una mole notevole di materiale, ma non ci fa sapere la natura delle reciproche interconnessioni che legavano i diversi segni linguistici ricostruiti: d’altro canto il metodo cosiddetto testuale, che cerca di ricostruire le grandi linee della cultura primitiva facendo leva sui testi più antichi e presumibilmente più legati a un mondo concettuale e ideale arcaico, ci pone di fronte a documenti che appartengono a una fase in cui le diverse tradizioni indoeuropee sono approdate a organizzazioni sociali e politiche fortemente individualizzate e necessariamente lontane da quella primitiva[16].

Pur ribadendo dunque l’opportunità di usare grande cautela nella valutazione dei dati, si possono isolare due termini (o due serie di termini) la cui analisi porta a risultati sufficientemente chiari.

Il primo termine è *teutā. Esso ricorre nelle seguenti aree linguistiche[17]:illirico: nomi propri TeutanaTeuticus, Tεύτα, ecc.
trace: nome proprio Tautomedes;
italico: osco touto, umbro totam (acc. sing.);
celtico: gallico Teutates (< *Teutotatis ‘padre della regione’); irland. túath; cimrico tu-d; ecc.;
germanico: got. þiuda, ant. alt. ted. diota, ant.ingl. ðéod, ant.nord. þjóð; con suffisso in nasale got. þiudans ‘re’ (propriamente ‘signore del þiuda’: con lo stesso rapporto che intercorre fra domus e dominus); con suffisso –sko– in ant. alto ted. l’aggettivo diutisc (propr. ‘appartenente al popolo, popolare’), da cui il moderno deutsch;
baltico: lettone tàuta, ant.pruss. tauto ‘territorio’, ant. litυano tautà.

Il termine viene ricondotto alla radice indoeuropea *teuǝ– che vale ‘essere gonfio, forte, potente’: ne derivano, tra innumerevoli altre, le voci latine tumidus e tōtus: l’idea fondamentale è quindi quella del potere o della totalità.

Una seconda serie di voci fa capo, in modo più o meno diretto, alla radice *pel-(ǝ)- ‘riempire’, quella di lat. plē-nus, gr. πλήρης, got. fulls, russo polnyj, e così via. Abbiamo:gr. πλῆθος (ion. πληθύς);
lat. plē-bs o plē-bē-s[18];
germanico: ant.alto ted. folc (mod. Volk), ant.ingl. folc[19];
ant. slavo plěme ‘gruppo sociale compatto’.

A questa serie apparterrebbero anche, secondo alcuni studiosi, alcuni termini indicanti la ‘città’ (o più verosimilmente, in epoca antica, la fortezza o il castello) come l’ant. ind. pu-r, il gr. πόλις, il lit. pílis, ma la connessione, benché teoricamente possibile, non può ritenersi del tutto acquisita.Infine, un termine territorialmente meno diffuso designa il popolo come l’insieme dei liberi e compare nelle seguenti aree:
germanico: ant. alto ted. liut, ant. ingl. léode;
slavo: ant.slavo ljudĭje, ecc.
baltico: lit. liáudis.
Anche queste voci si riconnettono a una radice verbale indicante la forza o, più precisamente, la crescita (ant.ind. ródhati o róhati ᾿egli cresce’; got. liudan ‘crescere’): tra i derivati di questa radice vanno considerati con attenzione il gr. ἐ-λεύθερος e il lat. lī-ber.

Poiché quest’ultima serie di termini si trova attestata in una zona ben delimitata del territorio e in un gruppo di lingue contigue e caratterizzate da un alto numero di innovazioni comuni, si deve concludere che il tipo *leudh– ha soppiantato o affiancato la seconda serie di vocaboli per un processo innovativo secondario e limitato all’interno dell’area germanico-balto-slava. Pertanto le due parole su cui l’analisi dovrebbe restringersi sono da una parte *teutā e dall’altra i derivati di *pel-(ǝ)-. Si nota immediatamente che mentre i secondi notano una massa indistinta e generica, *teutā indica, nelle lingue dove è attestato, un’entità politica ben precisa ed ha acquisito un netto valore giuridico. Inoltre si osserverà che, se di *teutā si hanno attestazioni in una larghissima parte del territorio indoeuropeo, vi sono però zone in cui tale parola non compare, ed è significativo che l’assenza di teutā si abbia in quelle aree marginali del territorio che presentano in genere una notevole arcaicità proprio nel mantenimento della terminologia sacrale e politica, vale a dire il latino e l’area indiana o indo-iranica. In queste stesse zone è attestata una parola, che sembra alternativa a teuta-, perché dove compare l’una non compare l’altra: alludiamo al termine per ‘re’, *rēĝ– (lat.rēx, acc. rēg-em, ant.ind. rājā, gallico rīg– in nomi propri come DumnorīgemVercingetorīgem, ecc.). Lo schema può essere così compendiato:

lingue rēxlingue teutā
Latino
CelticoCeltico
Tosco-umbro
Illirico
Germanico
Baltico
Slavo
Indiano

L’unica area in cui sono attestate entrambe le parole è quella celtica. Dallo schema risalta altresì la netta diversità di comportamento tra latino ed osco-umbro e l’assenza del greco, che sembra aver proceduto per una propria strada. L’affermazione di *teutā, e la conseguente eliminazione di rēx, ha fatto parlare di una rivoluzione democratica propria dell’indoeuropeo centrale. Quest’ipotesi sarebbe suffragata solamente da indicazioni linguistiche o, meglio, puramente terminologiche[20].

In conclusione, dei due termini analizzati, *teutā è quello marcato, mentre l’altro ha un valore generico. In quest’ultimo non pare ancora compresa un’idea di autocoscienza etnica: il concetto che emerge è piuttosto quello di una moltitudine indistinta. Quanto a *teutā, proprio la sua valenza accentuatamente politica è anche la ragione della sua debolezza: il termine non accenna a una qualunque definizione di natura sociologica o culturale (il comune riconoscimento di valori o l’autocoscienza di un’unità etnica): *teutā esiste solamente in contrapposizione al re, e il termine stenta ad affermarsi nelle aree marginali indenni da una determinata evoluzione sociopolitica, proprio perché il suo valore non è quello di ‘popolo che si riconosce in un patrimonio di valori o di idee comuni’, bensì quello di ‘assemblea, popolo che fa valere un proprio potere decisionale’ contrapponendosi a un’organizzazione di natura aristocratica che in alcune aree viene percepita come superata.

Lasciamo ora da parte l’esame delle ulteriori vicende delle parole indoeuropee per ‘popolo’ nelle lingue moderne (il lettore interessato potrà vederne un quadro sommario in quell’utilissimo repertorio che è il Buck[21]), e soffermiamoci unicamente sulla terminologia dei primi documenti greci attinenti a quest’area semantica. Accenneremo solamente all’evoluzione del lat., ove il valore negativo assunto da plēbs ha indotto a introdurre un nuovo termine, di probabile provenienza etrusca, populus[22]: nella terminologia ufficiale l’opposizione fra plebs e populus è netta: basti citare il passo di Livio (II 56, 2) in cui viene rinfacciato a un tribuno della plebe che la sua magistratura ha potere solo nei confronti della plēbēs, non del populus: ancora nella tarda età della repubblica nelle formule ufficiali si menzionano entrambi gli ambiti (ad es.: precatus … populo plebique Romanae bene atque feliciter eveniret, Cic., Pro Mur. 1). Per l’esatta definizione del contenuto semantico originario di populus andrebbe comunque preso in considerazione anche il valore del verbo populari ‘saccheggiare’: si ha l’impressione che la parola in origine indicasse ‘il popolo in armi, l’esercito’, e che pertanto l’opposizione fra populus e plebes sia relativamente recente.

2. L’uso di δῆμος nei testi più antichi.

Già l’Iliade presuppone una coscienza di appartenenza etnica che trascende l’ambito locale: il giuramento dei principi achei e la spedizione comune contro Troia implicano il riconoscimento di un’origine e di valori comuni, degni di essere difesi anche a costo di una guerra. Il fatto che quest’idea non appaia ancora saldamente strutturata in un campo semantico comprendente opposizioni nitide e precise fa pensare che si tratti di un valore acquisito da poco e ancora alla ricerca di un’espressione adeguata.

Assemblea degli Ateniesi (da Philip Foltz, Discorso funebre di Pericle, 1877)

L’unico elemento lessicale che possiamo riconoscere come appartenente alla fase antica è πλῆθος: le ragioni che già abbiamo segnalate gli impediscono di affermarsi in modo positivo. Per esprimere l’idea di ‘popolo’ il greco ricorre a termini probabilmente antichi, formati cioè con materiale tratto dal comune patrimonio ereditato dall’indoeuropeo, ma valorizzati in un senso completamente nuovo.

L’espressione dell’idea di “popolo” in Omero s’incentra attorno alle due voci fondamentali δῆμος (al di fuori dello ionico-attico δᾶμος) e λᾱός. La prima probabilmente appartiene alla radice di δαίομαι ‘dividere, ripartire’ e si rifà a un antico *dāmo- che, salvo che per l’appartenenza a una diversa classe tematica (si presenta come tema in –ā anziché in –o), trova un’equivalenza abbastanza precisa nell’irlandese dām ‘truppa’. In tal caso si potrebbe presupporre per δῆμος lo sviluppo del concetto di ‘popolo’ a partire da uno più antico di ‘esercito’, ipotesi che da un punto di vista meramente teorico non pare impossibile: ma, considerata l’etimologia presumibile e il valore antico della parola greca, è piuttosto nella parola irlandese che si deve resumere uno spostamento da un significato antico più generico a quello storico di ‘truppa’. La parola δῆμος è presente già in miceneo nella forma damo (dāmos): accanto a questa il composto da-mo-ko-wo (cioè dāmokorwos) e il nome proprio e-ke-da-mo (cioè ekhedāmos). Il valore del termine in miceneo sembra rispecchiare, meglio di quanto avvenga nel greco del primo millennio, il valore di ‘partizione amministrativa, divisione del territorio’. Esso inoltre indica l’organismo a cui fa capo l’amministrazione del territorio. Per esempio, nella tavoletta PY Eb 818 si accenna tra l’altro a un personaggio che ha locato una determinata partizione di un terreno e si dice di lui: ai-ti-jo-qo e-ke-qe o-na-to ke-ke-me-na ko-to-na pa-ro da-mo ko-to-no-qo to-so-de pe-mo: cioè “A.  inoltre possiede (e-ke-qe = ἔχει τε) la locazione del territorio (κτοίνας) presente (ke-ke-me-na può essere κεκειμέναςquanto κεκερμένας o κεκεσμένας) da parte (pa-ro = παρά) del damos, in quanto possessore (ko-to-no-oko = κτοινοϝόχος) per una determinata quantità (to-so-de pe-mo = τόσονδε σπέρμα, quest’ultimo termine a indicare un’unità di misura)”. Ιl damos appare qui come il vero proprietario del terreno, che ne concede la locazione: con ko-to-na ke-ke-me-na si designa il territorio indiviso e dato in locazione dal damos, in opposizione al territorio appartenente a un feudatario, detto ko-to-na ki-ti-me-na (κτοίνα κτιμένα ‘terra coltivata’). La stessa formula si ripete poi subito dopo nella tavoletta a proposito di un altro locatario.

Il valore antico di ‘suddivisione amministrativa’ appare ancora bene in alcuni usi omerici: ad es. Il. V 709-10 πὰρ δέ οἱ ἄλλοι | ναῖον Βοιωτοὶ μάλα πίονα δῆμον ἔχοντες; Od. XIV 329 (aveva consultato le querce di Zeus a Dodona, per sapere) ὅππως νοστήσει’ ᾿Ιθάκης ἐς πίονα δῆμον, ἤδη δὴν ἀπεών, ἢ ἀμφαδὸν ἦε κρυφηδόν; Od. XXII 35-6 οὔ μ’ ἔτ’ ἐφάσκεθ’ ὑπότροπον οἴκαδε νεῖσθαι | δήμου ἄπο Τρώων, ὅτι μοι κατεκείρετε οἶκον. Come si vede, in questi casi è estranea al vocabolo qualunque nozione di ‘popolo’. Nell’ultimo passo citato (il Privitera traduce “non pensavate che sarei mai venuto reduce a casa | dalla terra di Troia”) δήμου … Τρώων si contrappone a οἴκαδε: la terra straniera posta in opposizione alla propria dimora abituale. In molti casi δῆμος è usato, come già rilevavano i commentatori antichi[23], pleonasticamante, quando è seguito dal genitivo della terra o della città: p.es. ἐν δήμῳ Ἰθάκης Il. III 201; Λυκίῃ δῆμον ἵκωνται Il. XVI 405; δῆμον Ἀπαισοῦ Il. II 828; e ancora negli inni, p.es. Δελφῶν ἐς πίονα δῆμον hymn. 27, 14. Così ἄλλων δῆμον (Il. XXIV 481) è la terra d’altri, il paese straniero, e l’espressione ἀλλογνήτῳ ἐνὶ δήμῳ di cui si avvale il poeta della Telemachia (Od. II 366) accenna alla terra ignota. È l’esatto contrario della “propria terra”, il δῆμος αὐτοῦ di cui si parla p.es. in Il. IX 634.

Il valore fondamentalmente amministrativo del termine si coglie in quei passi in cui δῆμος indica una ripartizione territoriale esattamente identificata dalla presenza di un signore che ne rappresenta l’autorità; le differenze sociopolitiche che intercorrono sia fra i due poemi sia fra le diverse popolazioni che vi sono descritte fa sì che il medesimo termine si adatti a designare realtà di volta in volta diverse da un punto di vista meramente giuridico, a seconda della natura del governo istituzionale del paese. Cfr. p.es. Il. II 546-7 Οἳ δ’ ἄρ’ ᾿Αθήνας εἶχον ἐϋκτίμενον πτολίεθρον | δῆμον ᾿Ερεχθῆος μεγαλήτορος, ὅν ποτ’ ᾿Αθήνη e Od. VIII 390-301 δώδεκα γὰρ κατὰ δῆμον ἀριπρεπέες βασιλῆες | ἀρχοὶ κραίνουσι, τρεισκαιδέκατος δ’ ἐγὼ αὐτός.

Un’espressione interessante, per capire il trapasso dal valore di ‘regione (governata da un’autorità)’ a quello di ‘popolo’ s’incontra in Il. XI 58: Αἰνείαν θ’, ὃς Τρωσὶ θεὸς ὣς τίετο δήμῳ: le traduzioni italiane correnti (p.es. M.G. Ciani “Enea, che il popolo troiano venerava come un dio”) non rendono in modo adeguato l’espressione greca, ma neppure la traduzione “aux yeux du peuple” proposta da Chantraine[24] risulta precisa: i due dativi giustapposti hanno entrambi valore locativo: per confermare il valore del primo basta richiamare Il. VI 477 ἀριπρεπέα Τρώεσσιν “insigne fra i Troiani”; il secondo non sarà dissimile dai vari ἀγρῷ (Il. VI 137), δόμῳ (Il. II 513), ἀγορῇ (Il. IV 400), ecc. In Od. XIV 205 il passo qui citato di Il. XI 58 viene ripreso quasi alla lettera: ὃς τότ’ ἐνὶ Κρήτεσσι θεὸς ὣς τίετο δήμῳ: il valore locativale del primo dativo è ulteriormente marcato dalla presenza di ἐνὶ.

Dal significato di ‘regione sottoposta a un’autorità’ si passa facilmente a quello di ‘gente che ubbidisce al medesimo signore’. Il passaggio appare pienamente compiuto in passi come i seguenti: Od. VIII 156-7 νῦν δὲ μεθ’ ὑμετέρῃ ἀγορῇ νόστοιο χατίζων | ἧμαι, λισσόμενος βασιλῆά τε πάντα τε δῆμον: qui δῆμος indica la massa dei sudditi in opposizione al signore (βασιλεύς). Ancora, in Il. XI 703 ss. δῆμος assume il valore di ‘gente comune’, in opposizione al sovrano: τῶν ὃ γέρων ἐπέων κεχολωμένος ἠδὲ καὶ ἔργων | ἐξέλετ’ ἄσπετα πολλά· τὰ δ’ ἄλλ’ ἐς δῆμον ἔδωκε | δαιτρεύειν, μή τίς οἱ ἀτεμβόμενος κίοι ἴσης. Qui la contrapposizione tra il signore (Neleo) e i sudditi è evidente. Interessante è l’analisi di Il. III 50 πατρί τε σῷ μέγα πῆμα πόληΐ τε παντί τε δήμῳ: la parola ha assunto il significato di ‘civitas’, insieme di persone che si riconosce, se non in un’identità etnica, quanto meno nello specifico di una situazione (in questo caso la sudditanza a Priamo). In Od. VIII 148 ss. si legge: τοῖσιν θεοὶ ὄλβια δοῖεν,  | ζωέμεναι, καὶ παισὶν ἐπιτρέψειεν ἕκαστος | κτήματ’ ἐνὶ μεγάροισι γέρας θ’, ὅ τι δῆμος ἔδωκεν: gli dèi distribuiscono agli uomini la fortuna, ma è il δῆμος ad attribuire a ciascun uomo il suo rango in una società ordinata, in cui diritti e doveri sembrano ripartiti secondo le capacità e i meriti di ciascuno.

La contrapposizione tra il signore e il δῆμος, fa sì che in qualche circostanza quest’ultima parola assuma una connotazione sostanzialmente negativa dal punto di vista sociale: l’esempio più evidente è dato da un episodio narrato in Il. II 188 ss.: Odisseo prende lo scettro e va in giro per l’accampamento a radunare gli Achei per il combattimento: “E se incontrava un re (βασλῆα) o un uomo illustre (ἔξοχον ἄνδρα), si avvicinava e cercava di trattenerlo con ferme parole … Ma quando vedeva uno del popolo (δήμου τ᾿ ἄνδρα), e lo trovava a vociare, lo colpiva con lo scettro e lo rimbrottava”: l’uomo del popolo è contrapposto ai capi e agli eroi: l’uomo del popolo non deve metterne in discussione le decisioni né, come si direbbe oggi, destabilizzare il contesto sociale: “ascolta i consigli degli altri, di quelli che sono migliori di te, mentre tu sei vile e codardo, e nulla conti in battaglia, nulla in consiglio” vv. 200-202).

3. L’uso di λαός nei testi più antichi.

La distinzione fra questo termine e il precedente non è sempre netta nell’uso, e anche l’origine della parola ci sfugge: nessuno dei tentativi richiamati dal Frisk[25] può dirsi né conclusivo né soddisfacente. Per chiarire il valore antico di λᾱός (ληός, λεώς) può essere di qualche utilità il richiamo alla parola derivata (λήϝιτον), che vale ‘(casa comune, edificio della collettività), sede di una magistratura’; la parola è molto rara, e sostanzialmente disusata nella lingua arcaica e classica: è rimasta però nei derivati λειτουργέω ‘esercito una pubblica funzione’ e λειτουργία ‘compimento di un’attività in favore dello Stato, funzione pubblica’. La parola appartiene comunque al fondo più antico del lessico greco: essa si trova già nelle tavolette micenee ad esempio nel composto ra-wa-ke-ta (lāwagetās)[26]. In linea di massima si può affermare che inizialmente λᾱός sembra collegato con un’idea militare, è usato spesso in contesti bellici e assume il valore di ‘popolo in armi’. In miceneo il lāwos dovrebbe indicare la classe militare: la parola comunque è estranea al lessico, abbondante in miceneo, delle funzioni amministrative[27]. La promiscuità dell’uso fra λαός e δῆμος si coglie in luoghi come Il. XVIII 497-500 dove, a distanza di pochi versi, nella descrizione dello scudo di Achille la gente che assiste a un processo è designata prima come δῆμοςpoi come λαός (XVIII 497 sulla piazza vi è un gruppo di gente) . In Il. XI 676 λαοὶ ἀγροῖται significa semplicemente “la gente della campagna”.

In qualche casο λαός, accompagnato da un genitivo plurale, parrebbe indicare un’unità etnica ben definita: il popolo degli Achei (Il. VI 223; VII 434; XXIII 156; ecc.); il popolo dei Mirmidoni (Il. XVI 38). In qualche passo in luogo del genitivo abbiamo l’aggettivo corrispondente: λαὸν Τρωϊκόν Il. XVI 368; λαὸν Ἀχαιϊκόν Il. IX 321. E possiamo anche avere, per definire il λαός, il nome del re: λαὸς εὐμμελίω Πριάμοιο, Il. IV 47.

Il più delle volte λαός ha un valore generico ed è usato soprattutto a indicare il popolo in armi: in Il. II 809 (πᾶσαι δ’ ὠΐγνυντο πύλαι, ἐκ δ’ ἔσσυτο λαὸς | πεζοί θ’ ἱππῆές τε) il termine indica la totalità dell’esercito, e l’idea è ulteriormente confermata dall’aggiunta πεζοί θ’ ἱππῆές τε. Come si vede, il significato di λαός in casi del genere è assai prossimo a quello di πλῆθος, che peraltro s’incontra, in passi dell’Iliade sostanzialmente analoghi, col valore di ‘esercito numeroso’. Con ulteriore specializzazione, λαός è anche usato in qualche caso per indicare la fanteria (Il. VII 342; XVIII 153; ecc.). Altrove, con un’evoluzione simile a quella che abbiamo visto in δῆμος, anche λαός viene a indicare il “volgo”, la massa: cfr. Il. II 115 πολὺν ὤλεσα λαόν (“ho ucciso un gran numero di soldati”). In Il. II 365-5 è la contrapposizione fra  il soldato semplice e i capi: γνώσῃ ἔπειθ’ ὅς θ’ ἡγεμόνων κακὸς ὅς τέ νυ λαῶν. In questi casi il termine designa la massa dell’esercito. In più di un luogo però con λαός s’intende genericamente anche una folla non di soldati: cfr. p.es. Od. XIV 248 ἐννέα νῆας στεῖλα, θοῶς δ᾿ ἐγείρετο λαός. Qui è l’insieme di marinai: in Il. XVII 390 sono ancora più genericamente i lavoratori che prendono ordine da un capo, e così via.

Come si vede già da quest’ultimo esempio, in molti passi il termine è usato al plurale: p.es. Od. II 13 τὸν δ᾿ ἄρα πάντες λαοὶ εζπερχόμενον θηεῦντο; Il. III 318 λαοὶ δ᾿ ἠρήσαντο, θεοῖσι δὲ χεῖρας  ἀνέσχον (sono, tutti insieme, i soldati e i capi che, illudendosi in una prossima fine della guerra, attendono l’esito del duello tra Paride e Menelao); Il. XXI 531 πεπτομένας ἐν χερσὶ πύλας ἔχετ᾿ εἰς ὅ κε λαοί | ἔλθωσι προτὶ ἄστυ πεφυζότες.

4. Altri termini per esprimere l’idea di ‘popolo’. 

L’agorà di Segesta

Un significato un po’ diverso è quello di ἔθνος: indica un insieme di individui che appartengono alla medesima stirpe: in questo senso si può parlare del popolo degli Achei o dei Troiani (e in questo senso la parola si sovrappone a λαός), ma si può avere anche la “stirpe dei morti” (Od. X 526) o la “stirpe delle api” (Il. II 587) o di altri animali ancora. Anche l’origine di questa parola non è chiara: se, come sembra, la parola comportava un digamma iniziale, si potrebbe porre un tema *swedh-, da accostare eventualmente al tema del pronome riflessivo ἕ. Possibile anche la comune derivazione di ἔθνος e di ἔθος dalla stessa radice. Se, come suggeriscono i lessici etimologici e come pare verisimile, a ἔθνος si deve accostare l’aggettivo ὀθνεῖος ‘straniero’, la parola potrebbe accennare all’appartenenza a un cerchio sociale più vasto del γένος: ὀθνεῖος è chi non appartiene al γένος, e dunque è da considerare estraneo.  Si potrebbe quindi avere in ἔθνος un’evoluzione parallela a quella che abbiamo riscontrata nell’iranico dahyu-, con l’accoglimento nell’idea di una comune appartenenza di persone o gruppi inizialmente considerati ai margini della comunità o addirittura estranei.

5. Evoluzione successiva dei termini per ‘popolo’.

Abbiamo seguito finora la situazione dei testi più antichi. L’evoluzione di pensiero che porta alla nascita della cultura della polis coinvolge anche la terminologia, che risulta profondamente mutata. Con fatica dunque il greco è pervenuto a percepire un’idea di popolo almeno nelle linee fondamentali comparabile con quella moderna: ed è singolare che a quest’idea si sia arrivati in una situazione di acuta frammentazione politica, culturale e linguistica (non si dimentichi che la reale differenza che separava i dialetti locali delle varie zone greche era ben superiore a quello che si potrebbe desumere dagli usi letterari). Quest’evoluzione si segue con più difficoltà nei testi poetici. Il linguaggio della poesia, per sua stessa natura più portato alla conservatività, appare più fedele all’uso omerico dei termini. Nelle tragedie di Eschilo compaiono i tre termini fondamentali di Omero, senza che si riescano a individuare precise differenziazioni fra δῆμος (cfr. Sept. 1044 severo è però il popolo che è sfuggito alla rovina; Pers. 772 ed è perito in completa distruzione il popolo dei Battrii, né vi era alcun vecchio), λαός (Pers. 593 sciolto è infatti il popolo, e può parlare liberamente, poiché sciolto è il giogo della servitù; Suppl. 485 la gente infatti ama accusare il potere; Pers. 92 irresistibile infatti è l’esercito persiano e il popolo bellicoso), ἔθνος (Pers. 56 le gente armata di spada raccolta da tutta l’Asia, sotto gli ordini gravi del re; Eumen. 366 Zeus infatti non ritiene degna della sua udienza questa gente odiosa che stilla sangue).

Con la commedia e soprattutto coi prosatori la situazione muta sensibilmente: è soprattutto l’evoluzione di dh}moj che risulta di singolare interesse, mentre λαός assume il valore un po’ generico di ‘gente’ (in attico λαοί è il modo usuale per rivolgersi alla folla nel senso di ‘udite, gente!’) e alcuni contesti acquisisce il senso di ‘popolo che si raduna per un motivo preciso’ (ad es. per assistere a una rappresentazione teatrale, Aristofane Rane 676). Viceversa δῆμος, che nell’ordinamento attico conserva a lungo il suo valore originario di ‘partizione territoriale, distretto’, acquisisce risonanze politiche molto rilevanti indicando sia il popolo che decide attraverso il voto sia la costituzione democratica sia la democrazia stessa come forma istituzionale. Il valore di δῆμος come ‘entità sovrana’ si percepisce già in Eschilo, Sept. 199, ove λευστῆρα δήμου accenna a una lapidazione pubblica, voluta dal popolo in quanto soggetto capacce di esprimere una volontà unitaria. Nel discorso tripolitico di Erodoto (III 82) la parola si contrappone a ὀλιγαρχίη in quanto il governo del popolo si contrappone al governo dei pochi: come è noto, non compare ancora nel testo erodoteo la parola democrazia, e il discorso tripolitico esprime piuttosto l’idea di una eguaglianza di diritti, piuttosto che quello della sovranità popolare. Ma a partire da Erodoto la parola acquisisce il valore che manterrà saldamente nei testi successivi. Accanto all’idea di ‘popolo’ si definisce in maniera nitida quella di ‘barbaro’: la parola in quanto tale non contiene, in linea di massima, alcuna connotazione razzista e non vi è contemplato alcun atteggiamento di superiorità rispetto ad altre culture: determina solamente in misura non approssimativa il comune riconoscimento di un’alterità e, per converso, l’affermazione di tratti comuni per cui, al di là delle diversità istituzionali e linguistiche, l’uomo di Atene sente di avere con l’uomo di Corinto o di Mantinea delle affinità che non ha con gli uomini della Scizia o della Libia o di altre parti del mondo.