Inseriamo in questa pagina i testi di alcune delle relazioni presentate agli incontri sull’insegnamento del latino alle medie inferiori svolti per iniziativa di Zetesis e di altre organizzazioni operanti nel mondo della scuola (Prisma, Aiespi, Irre Lombardia, CNADSI, CLE).
Moreno Morani, Latino: lingua madre
Giulia Regoliosi, Il latino tra medie inferiori e superiori
Laura Longaretti, Esperienze di insegnamento del latino alla scuola media
Rainer Weissengruber, Dilemmi e tendenze dell’insegnamento del latino nei paesi di lingua tedesca
Un ampio resoconto del convegno svoltosi il 20 marzo 2003 si trova anche nel periodico “La Voce del CNADSI” (numero di maggio 2003).
Poiché vorremmo ampliare questa pagina e sollecitare una discussione su questo importante e delicato tema coi nostri abbonati e lettori, invitiamo quanti hanno materiale già disponibile (anche semplici informazioni sull’esistente) o vogliono intervenire con proprie osservazioni e proposte a contattare la redazione della rivista al nostro indirizzo e-mail:
redazione@rivistazetesis.i
di Moreno Morani
Mi ero proposto di iniziare questa comunicazione con qualche riflessione sulle motivazioni dello studio del latino. Il titolo del nostro incontro c’impone di farci questa domanda, e del resto, fin da quando ho cominciato a insegnare, nel 1969, in anni agitati e inquieti, inclini a mettere in discussione tutte le certezze acquisite con la disposizione più a distruggere che a realizzare qualcosa di nuovo, infinite volte sono stato provocato a rispondere a questa domanda, in più occasioni e da diverse parti: non soltanto dagli studenti liceali a cui insegnavo, ma anche da tanti colleghi, docenti incontrati nei corsi di abilitazione, e così via. Da anni con un gruppo di amici rifletto sul valore della cultura classica, ed è a partire da questa in fondo che è nata l’esperienza di Zetesis: perché studiare il mondo classico è il titolo di una delle pagine del sito internet annesso alla rivista. Potrei dire di sentirmi un esperto in motivazioni di studio del latino, perché credo di avere letto e sentito tante risposte a queste domande, e altre ne ho elaborate io stesso, dedicando tempo e attenzione a questo problema. Allora, prima di rispondere alla domanda, vorrei leggere alcune righe da un libretto che mi è capitato per caso nelle mani qualche anno fa visitando a Losanna una libreria di libri esauriti. Il libro si intitola l’Affaire du latin, e risale agli anni Cinquanta:
«Noi siamo vittime, ripetendo che bisogna insegnare il latino ai bambini, della nostra eterna pigrizia, della nostra paura di riflettere, della nostra routine e della nostra miserabile sottomissione alla tradizione che ci offre da vivere. La conclusione si impone con forza: si deve smettere di insegnare il latino. Tutto porta a questa verità perfettamente semplice: ma, per debolezza e per infingardaggine, noi rifiutiamo di riconoscerla. Si continuerà così senz’altro a tormentare dei giovani spiriti volendo imporre loro lo sforzo di imparare una lingua morta, assolutamente morta, pesante e grossolana nella sua forma, povera fino alla miseria nelle sue opere e il cui studio è nocivo da tutti i punti di vista» (pp. 25 s.).
Questa è già, in fondo, una risposta alla domanda: la totale assenza di motivazioni razionali da parte di chi propone l’eliminazione del latino. Il testo letto è la prova che non vi sono, in realtà, ragioni vere, culturali, forti per non studiare il latino: o affermazioni vuote e provocatorio, o ragioni di opportunità o circostanza, magari, ma nulla di realmente solido. Perché dovremmo lambiccarci a trovare chissà quali motivazioni per difendere lo studio del latino, quando chi ne propugna l’eliminazione non ha neppure un elemento, neppure piccolo, per difendere la sua tesi? Chi ha sostenuto l’abolizione o la riduzione del latino ha spesso squalificato la propria tesi con argomenti vuoti e insulsi come quelli che abbiamo letti: è già un dato di fatto positivo non trovarsi intruppati con simili compagni di strada.
Ero ancora studente, quando si avviò il dibattito parlamentare da cui doveva scaturire l’eliminazione del latino nelle medie inferiori, eliminazione che fu attuata in varie fasi: anche allora, per quanto fossi molto inesperto e seguissi solamente dai brevi resoconti dei giornali lo sviluppo del dibattito, mi colpiva la scarsità di motivazioni culturali con cui la discussione procedeva e l’impostazione grettamente ideologica degli avversari del latino. L’unico motivo reale era un motivo di ordine pratico, assai più che culturale: l’avvento di una scuola di massa imponeva un livellamento verso il basso del tenore degli studi. Una motivazione tenacemente perseguita anche negli anni successivi, ripetuta poi per le scuole superiori, e infine ribadita esplicitamente in questi ultimi tempi anche nelle Facoltà Universitarie. La pietra tombale sul latino nelle medie inferiori fu posta nel 1976, essendo ministro della PI Giovanni Spadolini, che commentò la decisione affermando (cito a memoria) che si trattava di un provvedimento di cui la Repubblica italiana non doveva vergognarsi.
Perché riprendere, a quasi un quarto di secolo di distanza, questo dibattito? Le comunicazioni successive entreranno nella concretezza del problema. Io vorrei suggerire qualche ragione di ordine più generale e vorrei dare alla domanda «Perché ampliare e anticipare lo studio del latino?» delle risposte diverse da quelle che avrei dato trenta o anche solo quattro o cinque anni fa: non perché quelle risposte fossero intrinsecamente sbagliate, ma perché la situazione attuale dovrebbe portare ad alcune accentuazioni un po’ diverse.
Una prima ragione è di ordine strettamente culturale e linguistico. Una delle priorità che si è più fortemente rilevata nella scuola italiana in questi anni è quella dello studio delle lingue moderne. Lo studio dell’inglese si è diffuso in maniera quasi totalitaria nelle scuole di tutti gli ordini e grado, soppiantando in modo pressoché totale la varietà di lingue che si studiavano nelle scuole medie e superiori soltanto una dozzina di anni fa. Vi sono scuole elementari in cui si insegnano due e persino più lingue; alla base di questa insistenza vi è una motivazione reale e innegabile: il vertiginoso aumento degli scambi impone l’esistenza di lingue veicolari che permettano la comunicazione tra gli esseri umani, e l’inglese è allo stato attuale delle cose la lingua predominante, cosicché una sua conoscenza, almeno minimale, è consigliabile, se non imposta dalle circostanze. Ma i risultati di questo aumento degli insegnamenti linguistici per la verità sono deludenti. Quando ricevo degli studenti che mi chiedono di svolgere la tesi, domando loro innanzitutto quali lingue conoscono, perché la bibliografia che sottopongo è generalmente in lingue straniere: la prima risposta, quasi invariabilmente, è: «Non conosco nessuna lingua» (e in genere segue l’enunciazione del proposito di studiare in corsi privati più lingue); alla mia replica che almeno una lingua straniera devono conoscerla dagli studi liceali, in genere rispondono con aria un po’ smarrita che sì, qualcosa di inglese hanno fatto al liceo, ma lo maneggiano poco. Alla domanda, che spesso mi sono sentito rivolgere, «perché studiare il latino, quando sarebbe più utile studiare una lingua straniera moderna», rispondo che studiare il latino non significa sottrarre tempo ed energia per una lingua straniera. Si tratta di due cose qualitativamente diverse. Nello studio di una lingua straniera le finalità di ordine pratico superano molto spesso le ragioni della riflessione di ordine linguistico. Si studia una lingua straniera per praticarla, per acquisire, anche mnemonicamente, determinati meccanismi. Parlando in inglese o in russo dico automaticamente what’s your name o kak vas zavut, e non mi pongo minimamente il problema che, ancorché complessivamente equivalenti (perché entrambe si attendono come risposta il nome del mio interlocutore), le due costruzioni sono profondamente diverse tra di loro, ed entrambe differenti dalla corrispondente italiana come si chiama. Lo studio del latino invece, privo come è di finalità pratiche immediate (perché credo che nessuno di noi penserebbe di insegnare il latino per parlarlo o per scriverlo, almeno non come ragione preminente dello studio), impone di continuo una riflessione sulle strutture e sulle categorie, permettendo allo studente di approfondire in modo sistematico le strutture della sintassi e della morfologia, aiutandolo a penetrare in profondità nel tessuto stesso della lingua. Studiare il latino significa abituarsi a porre continuamente delle domande, a cercare di capire, a penetrare sempre più al fondo di una lingua e del suo sistema, e questo porta inevitabilmente anche a un continuo confronto con l’italiano, cosicché lo studio del latino può avere influssi benefici anche sullo studio dell’italiano. Ma, a queste considerazioni di per sè non originali, vorrei aggiungere un ulteriore elemento. Strettamente parlando, il latino non può essere considerata un’altra lingua: il latino è, pur con tutte le sue innegabili diversità. la fase antica dell’italiano: siamo autorizzati a dire sia che noi parliamo latino (la varietà di latino volgare che si è imposta nell’Italia del XXI secolo) sia che i nostri trisavoli dell’età di Cesare parlavano italiano, perché quella era la forma che le lingue romanze avevano a quell’epoca. Studiare la fase antica della nostra lingua significa abituare i ragazzi a prendere coscienza del fatto che le lingue si modificano, a ragionare sul perché e sul come dei cambiamenti, a chiedersi perché determinate parole abbiano assunto un certo significato diverso da quello originario o perché siano state sostituite da parole diverse, in una parola significa porsi di nuovo delle domande e delle curiosità. Se in genere studiare una lingua è un valore, studiare il latino significa sentirsi concretamente immersi nella storia, nella nostra storia.
La seconda risposta è di ordine culturale ed è strettamente legata ai problemi dell’attualità. La tendenza generale delle scuole negli ultimi anni è stata quella di nascondere la nostra identità culturale, con un pudore tanto esasperato quanto immotivato: in quante scuole, nella sola zona di Milano, si sono censurati i momenti più significativi della nostra tradizione culturale e si è tentato di evitare qualunque minimo accenno a quanto vi è di specifico nella nostra identità, fino a censurare nelle scuole elementari le canzoncine di Natale e il presepio, in quante scuole le ragioni della correttezza politica hanno portato a fondare una nuova cultura sostitutiva della nostra più autentica e a imporre una religione asettica e valevole per tutti, cosicché la figura di Babbo Natale è diventata un dogma di fede a cui i bambini sono tenuti a credere? Non si fa nessuna opera di dialogo o di integrazione semplicemente nascondendo quelli che sono i fatti e i valori della nostra civiltà. A proposito di integrazione culturale e problemi connessi leggiamo su La Repubblica del 18 ottobre: «La società americana ha un’identità molto forte ed è molto capace di facilitare l’integrazione… Io valuto che due terzi degli islamici d’Europa non desideri affatto integrarsi, ma bisogna tener conto che questo dipende anche dal fatto che le società europee non forniscono una forte identità e non sono in grado di favorire il processo di integrazione… La capacità di favorire integrazione produce desiderio di integrazione e il desiderio di integrazione rafforza la capacità di integrare». L’insegnamento del latino può essere un primo timido passo in questa direzione. Il latino è stato uno degli strumenti della nostra civiltà: è stato il mezzo con cui prima Roma e poi il cristianesimo occidentale hanno fatto conoscere alle altre lingue e popolazioni dell’Europa una cultura che aveva messo insieme uno straordinario patrimonio di conoscenze scientifiche, di riflessioni filosofiche, di produzioni artistiche. Non è questa la sede per insistere sul debito che hanno le lingue d’Europa non romanze nei confronti del latino: quel che è certo è che tutte le lingue dell’Europa occidentale, nessuna esclusa, nel momento in cui hanno acquisito (grazie anche allo studio della retorica e della grammatica romana) lo stato di lingue di cultura, non hanno potuto fare a meno di subire l’influsso del modello latino. Diceva uno dei più grandi grecisti del nostro tempo, Eduard Schwyzer, che è più facile tradurre Demostene in tedesco standard che in un dialetto svizzero: e rilancio la medesima osservazione: vedete se è più facile tradurre Cicerone in italiano standard o in dialetto lombardo: perché la struttura sintattica dell’italiano standard è continuamente modellata sul periodare latino, e lo stesso vale per tutte le altre lingue dell’Europa. Non è solamente il futuro della scuola classica oggi in discussione, come poteva essere venti o trenta anni fa: è un problema radicale, di civiltà e di identità culturale: abbiamo un assoluto bisogno di conoscerci, di sapere chi siamo, quali sono i valori (e i disvalori) della nostra civiltà e della nostra tradizione, abbiamo bisogno di confrontarci criticamente col nostro passato, non in un’ottica di chiusura o di superba affermazione di una nostra asserita superiorità, ma proprio per saperci proporre, per permettere a quanti ci conoscono dall’esterno di sapere chi siamo e come fare per integrarsi con noi.
C’è un ultima affermazione che vorrei ricordare brevemente. Come ottenere da ragazzi di undici dodici anni attenzione e interesse di fronte a una materia che sembra irreparabilmente lontana dai loro interessi e dalle attività che più fortemente li coinvolgono? Risponderò con una citazione «In questo periodo ([che va dal fanciullo fino alla scelta professionale]) lo studio e la parte maggiore dello studio deve essere (o apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se “istruttivo”, cioè ricco di nozioni concrete». Non sono parole mie, ma di Antonio Gramsci: peccato che non se ne ricordino molti che si richiamano al suo pensiero e al suo insegnamento, e hanno concepito piani di riforma della scuola che vanno in direzioni totalmente opposte.
di Giulia Regoliosi
Il mio intervento parte da una storia che ha interessato la nostra rivista e quanti si riconoscevano nel suo lavoro intorno al ’90. Era il periodo in cui lavorava la Commissione Brocca, e si prevedeva a tempi abbastanza brevi la riforma delle Superiori, con modificazioni soprattutto di orari per le nostre materie; d’altra parte la Scuola Media già due volte riformata era soggetta ad una specie di tabu ideologico, che impediva di porne in dubbio il carattere fondamentale di unitarietà e di monoliticità, specie dopo che la riforma della riforma aveva eliminato ogni residuo di distinzione togliendo il latino opzionale in terza media e sopprimendo la peraltro sgradevolissima istituzione delle classi differenziali con la pretesa nel contempo di eliminare le differenze. In un lavoro redazionale pubblicato nel 1988 ci eravamo occupati dell’orientamento dell’editoria scolastica, con uno spoglio sistematico dei cataloghi delle case editrici: il fatto più stupefacente era stata la scoperta che alcune case editrici pubblicavano e propagandavano manuali di latino per la scuola media. Si era cioè di fronte a testi per una materia che ufficialmente non c’era, anzi la materia su cui maggiormente si era scatenata una battaglia politica e culturale all’epoca del dibattito parlamentare, ma anche giornalistico, sulla Nuova Media, circa venticinque anni prima. Naturalmente sapevamo che molte scuole libere e anche alcune statali avevano reintrodotto il latino in varia forma, ma che degli editori si dotassero di testi specifici (alternativi a schede e fotocopie artigianali) significava che avevano constatato con più consapevolezza di noi l’ampiezza del fenomeno e forse ne prevedevano, secondo le conoscenze occulte che si suppone gli editori posseggano, un incremento o addirittura una ufficializzazione. L’anno successivo invitammo due autori di tali libri di latino, i proff. Peri e Montecchi, ad essere relatori al nostro convegno abituale di fine anno; e in seguito promuovemmo una serie di incontri con insegnanti di scuole medie e superiori su questo tema. Altri intanto si stavano mobilitando, in particolare il CNADSI e alcune sezioni dell’AICC. Giungemmo alla stesura di un documento (pubblicato sul n. 1/90) che inviammo ad associazioni di categoria e a personalità politiche. Ne ripresentiamo le prime due parti, perché riteniamo ancora rilevanti le osservazioni e validi i presupposti culturali ed educativi.
Considerato che
1) nella maggior parte delle scuole medie inferiori statali e libere vengono svolti corsi di latino sotto diverse forme (al pomeriggio o al mattino all’interno delle ore di storia della lingua, organizzati dalla scuola stessa o da gruppi di genitori, per la durata di pochi mesi e di uno, due, tre anni);
2) il fenomeno è così generalizzato che alcune case editrici hanno introdotto in catalogo libri di latino per la scuola media inferiore, a volte recuperando vecchi testi, a volte addirittura commissionandoli ex novo: si assiste così alla situazione assolutamente anomala di testi scolastici destinati ad una materia che per legge non esiste;
3) l’ufficiosità di un fenomeno così massiccio comporta un’estrema varietà e confusione di metodi e contenuti, e quindi l’impossibilità per l’insegnante delle superiori di dare per scontato qualche aspetto del programma;
4) l’impostazione di tali corsi risulta per lo più strumentale ad un più facile inserimento nelle superiori, mentre spesso non tiene conto del calore culturale ed educativo in sé dell’incontro con la latinità;
5) da molte autorevoli associazioni nazionali, nonché da scuole e singoli, è stata richiesta la reintroduzione del latino nella scuola media inferiore;
Chiediamo che
1) si prenda atto della diffusa domanda da parte soprattutto dell’utenza rivolta ad ottenere l’insegnamento del latino nella scuola media inferiore;
2) si studino modalità per rendere ufficiale una realtà che già esiste, così da indirizzarla opportunamente quanto ad obiettivi, metodi e programmi e a permetterle quindi una coerenza con l’impostazione didattica ed educativa della media nonché un’omogeneità della preparazione.
Della prima parte ci sembrano molto importanti in particolare i punti 3 e 4: si constatava, infatti, e sai constata tuttora (basti pensare ai commenti che la nostra iniziativa ha suscitato nelle scuole superiori in cui siamo presenti) una resistenza da parte dei docenti dei licei contro il latino alle medie: è esperienza comune la frase: “Meglio che studino di più l’italiano, perché tanto il latino così è peggio che niente”. Il fatto è che un insegnamento non ufficiale, del tutto spontaneo quanto a obiettivi, metodi, conoscenze e competenze, rischia di creare storture, confusioni, rigidità o approssimazioni; inoltre l’impossibilità di dare per acquisita anche una sola nozione costringe ad iniziare totalmente da capo, fra l’annoiato stupore di molta parte della classe. Va detto però che l’alternativa presente nella frase-tipo citata sopra non è detto sussista: anzi, spesso l’insegnamento del latino si accompagna con il consolidamento delle strutture italiane usate con valore contrastivo, cosa che difficilmente avviene nell’insegnamento della o delle lingue straniere, per cui un miglioramento delle conoscenze linguistiche della propria lingua può essere considerato se non un obiettivo, almeno una conseguenza possibile dello studio del latino. Quanto agli obiettivi, appunto, ci pare riduttivo quello di facilitare il passaggio alle superiori anticipandone delle conoscenze (il punto 4 del documento), così come sarebbe riduttivo il puro e semplice obiettivo di imparare meglio l’italiano: sono entrambe conseguenze interessanti, sicuramente da tenere presenti nella programmazione, ma non obiettivi essenziali: questi infatti vanno ricercati all’interno del lavoro formativo specifico per la scuola media. Pertanto il punto 2 della seconda parte sottolineava l’importanza di un inserimento ufficiale del latino nella programmazione del Consiglio di classe, e di un insegnamento che si adeguasse a metodi e obiettivi di quel livello formativo, invece di essere un corpo estraneo. Siamo quindi totalmente contrari alla proposta che siano docenti delle superiori a intervenire nelle medie per questa materia (proposta avanzata da varie parti): è certo bene che ci sia un confronto fra scuole medie e superiori vicine, ma solo a livello di docenti. Naturalmente i docenti della media dovrebbero avere una preparazione adeguata, cosa che non è sempre possibile dati i piani di studi delle facoltà di lettere moderne che non sempre prevedono l’obbligo di uno studio approfondito del latino: ma all’interno di ogni scuola è possibile effettuare una scelta fra i docenti per l’insegnamento di questa disciplina.
Il documento comprendeva poi una serie di suggerimenti sull’attuazione della proposta: è interessante rileggerli a distanza di tempo, perché si nota come siano cauti e pieni di distinguo, segno che il tabu dell’unitarietà era fortissimo; inoltre comprendevano una preoccupazione, quella di non superare, o superare di poco, le 30 ore dell’orario, nella certezza che fossero anche troppo per dei ragazzini: certezza che abbiamo tuttora, ma che urta contro l’abitudine al lungo orario scolastico (sia a tempo pieno sia modulare) già acquisita alle elementari. Ora i problemi sono minori: è già in corso di elaborazione una riforma, l’unitarietà è di fatto sparita con le varie opzioni e tacitamente è caduto il tabù ideologico, così come il tetto delle trenta ore. La possibilità più semplice è quella della sezione col latino in alternativa ad altre opzioni (doppia lingua, informatica, musica o altro): non ci sembra infatti accettabile il latino per tutti, che riprodurrebbe di nuovo una monoliticità (verso l’alto) tendente a ignorare le differenze di capacità e vocazioni.
Sul numero di dicembre ’90 pubblicavamo l’esito della proposta: una notevole accoglienza, in particolare da parte del partito liberale (senatore Valitutti), che dava notizia di un’iniziativa politica del partito per la reintroduzione del latino, e della DC: attraverso i deputati Portatadino e Mazzuconi ci giunse la risposta dell’allora ministro alla Pubblica Istruzione Gerardo Bianco che mostrava interesse per un’analisi della situazione esistente, mentre l’onorevole Brocca si dichiarava interessato soprattutto alla concretezza delle proposte (era l’epoca della proposta Fiandrotti sul latino alle elementari: un’ipotesi del tutto astratta, che dice molto sul fatto che era più facile azzardare assurdità sulle elementari, allora peraltro in fase di riforma, che toccare la Media).
Non avevamo all’ epoca la forza di proseguire, soprattutto in un ambito che non era in fondo il nostro. Ora ci sembra che il problema ritorni a farsi interessante, senza che sia mai venuto meno, perché anche le medie inferiori sono entrate nei vari progetti di riforma e l’autonomia ha smantellato completamente l’idea unitaria. Per questo ci proponiamo di lavorare.
di Laura Longaretti
L’insegnamento del latino nella scuola media inferiore pone inevitabilmente tutta una serie di problematiche, a cominciare dal perché introdurlo, a chi insegnarlo (a tutti o solo a chi ha intenzione di continuarlo al liceo?), fino ad arrivare al che cosa e come (con quali metodi, con quali modalità, con quali strumenti ?) insegnarlo.
È chiaro che si tratta di questioni molto complesse, tanto è vero che oggi come oggi nelle nostre scuole medie vengono adottate metodologie e proposte impostazioni molto diverse, al punto che vien da chiedersi quanto possa essere utile una offerta di questo tipo. Io inizierei fissando due presupposti che mi sembrano importanti.
Il primo è che non è possibile insegnare il latino nelle scuola media così come lo si insegna al liceo. La scuola media inferiore ha infatti una sua specificità che va salvaguardata.
Il secondo presupposto è che non è più possibile insegnare il latino ai ragazzi di oggi come lo si insegnava 30 o 40 anni fa: troppe cose sono cambiate, la stessa didattica della scuola media è cambiata
Insegnare una lingua come il latino a queste nuove generazioni potrebbe sembrare a qualcuno un’impresa impossibile e anacronistica, perché infatti insegnare ai ragazzi di oggi una lingua ” morta “, che non si usa più se non in ambiti e situazioni particolari?
L’insegnamento del latino nella scuola media inferiore pone inevitabilmente tutta una serie di problematiche, a cominciare dal perché introdurlo, a chi insegnarlo (a tutti o solo a chi ha intenzione di continuarlo al liceo?), fino ad arrivare al che cosa e come (con quali metodi, con quali modalità, con quali strumenti ?) insegnarlo.
È chiaro che si tratta di questioni molto complesse, tanto è vero che oggi come oggi nelle nostre scuole medie vengono adottate metodologie e proposte impostazioni molto diverse, al punto che vien da chiedersi quanto possa essere utile una offerta di questo tipo. Io inizierei fissando due presupposti che mi sembrano importanti.
Il primo è che non è possibile insegnare il latino nelle scuola media così come lo si insegna al liceo. La scuola media inferiore ha infatti una sua specificità che va salvaguardata.
Il secondo presupposto è che non è più possibile insegnare il latino ai ragazzi di oggi come lo si insegnava 30 o 40 anni fa: troppe cose sono cambiate, la stessa didattica della scuola media è cambiata
Insegnare una lingua come il latino a queste nuove generazioni potrebbe sembrare a qualcuno un’impresa impossibile e anacronistica, perché infatti insegnare ai ragazzi di oggi una lingua ” morta “, che non si usa più se non in ambiti e situazioni particolari?
di Rainer Weissengruber
Il latino e il greco si insegnano ancora. Anche se in vari paesi europei (e anche – e forse soprattutto – in quelli di lingua tedesca) la filosofia politica è assai ostile alle lingue e culture classiche, nella frenetica corsa al “moderno” e all'”utile”. E ciò mentre l’interesse generale per le epoche antiche è assai vivo, se non cresciuto negli ultimi anni, quasi all’insaputa di noi insegnanti. In Germania e in Austria il mercato del libro fa registrare un grande boom di tematiche antiche e anche gli argomenti dell’umanesimo sono tornati di nuovo a galla. In crisi è finito però l’originale, l’autentico. Siamo in una società tipo Readers’ Digest, di “cultura all’incirca”. Qualche fascino però resiste. Ma anche il latino resiste. Resiste anche, non dappertutto, ma in alcune regioni e in alcune scuole, l’insegnamento del latino nella sua “langform”, cioè nella dimensione 5 o 6 anni – con poche ore alla settimana, però. A mala pena, anche per colpa di noi latinisti, perché siamo spesso troppo filologi e troppo poco umanisti. Siamo insegnanti di lingua (morta) o siamo diffusori di cultura ? La domanda è sulla tavola delle riunioni informali, non delle commissioni ufficiali di programmazione scolastica. Le riunioni di latinisti si tengono sempre più frequentemente, in tutta l’area tedesca. Ma sono riunioni chiuse. L’interdisciplinarietà non è di casa tra le file dei filologi super-classici, tradizionali. La tradizione, ufficialmente bocciata a gran voce, vive e frena talvolta il rinnovamento. Ed è forse questa la causa principale perché almeno nei paesi di lingua tedesca noi filologi viviamo con un problema di immagine. Siamo riguardati custodi di un museo, narratori di storie del “c’era una volta”, o semplicemente cultori di ginnastica grammaticale, di gare di traduzione, o peggio: investigatori alla ricerca di errori. C’è chi ha cercato di difendere le lingue antiche a spada tratta (come si esprimono alcuni), e quindi con atteggiamenti quasi marziali, un po’ alla vecchia prussiana, e dovete sapere che in Prussia il liceo tradizionale era sempre vicino alle accademie militari. Ma c’e anche chi difende il latino con la penna sottile e con la bocca gentile (come diciamo noi del CLE) o, e sarebbe la via migliore, con il nostro modo di essere latinisti e grecisti vivaci e accattivanti (come dovremmo fare ed essere tutti noi). Il latino esiste, resiste, rivive, può entusiasmare, e in alcuni casi riappare rinfrescato, con formule e procedimenti nuovi di trasmissione, malgrado la strategia non sempre saggia di molti latinisti di difendere il latino con il viso serio e severo invece di rilanciare i nostri tesori con serenità e iniziative giuste. C’è chi sperimenta soprattutto nelle classi inferiori del liceo, con i ragazzi che hanno 13 anni, chi fa un latino sportivo, un “agon” al quale sono invitati tutti. Ma il ferreo rito della traduzione acribica, sostenuto ancora da molti secondo vecchi schemi e regole antiquate, inasprisce la situazione. Il quadro è quindi contrastato, nero e bianco uno accanto all’altro. Comunicare ai ragazzi di 13-14 anni che il latino è una lingua da tradurre, e solo (!) da tradurre, è consuetudine, nonostante i riformatori che fanno di tutto per rendere variopinto il quadro della situazione. Agli alunni viene comunicato, peraltro senza gran successo, che la traduzione potrà essere fedele, valida già in se stessa. Un ragazzo potrà capire che “tradurre” è un “bonum” valido già per se stesso? Ho dei dubbi. Un ragazzo potrà capire che una lingua morta può essere anche viva, se viva la rendiamo noi insegnanti ? Certamente sì, fino a un certo punto.
Anche le forze dell’economia nei paesi di lingua tedesca hanno scoperto negli ultimissimi tempi che l’insegnamento del latino ha la sua ragion d’essere. In Germania alcune note aziende si esprimono in favore del Liceo Classico, il che significa nella terminologia tedesca ed austriaca 5 o 6 anni di latino. Per il greco la situazione è sensibilmente più critica. Le aziende che privilegiano i diplomati in lettere non sono poche, anche in terre lontane dalla cultura antica. Possibile che i rappresentanti del grande business non hanno cambiato atteggiamento di fondo, è difficile pensare che viene capito il vero valore dello spirito della cultura antica. Appare evidente il valore da disciplina utile per imparare a ragionare. Una scuola della logica quindi, utile per la logistica. Il “ragionare classico” in funzione della vita di oggi. Un argomento stretto, ma utile, assai lontano dalla tradizione classica, lontano da ogni romanticismo. Ragionare bene e con una logica brillante serve all’economia soprattutto in un'”epoca di terziario avanzato”. Bisogna sapere che la Germania e l’Austria sono oramai paesi con un alto grado di “spirito post-industriale”, servono uomini capaci di ragionare, la produzione in senso classico avviene piuttosto altrove. I paesi di lingua tedesca sono laboratori di progettazione, ateliers del concetto, investono molto in ricerca e quindi felice può essere chi ha imparato ad imparare. Lingua Latina ancilla .
Le riforme scolastiche tedesche ed austriache – a parte il fatto che pare che nessuno le conosca fino in fondo − con tutte le vicende tortuose e contraddittorie prevedono un certo spazio per le lingue classiche, precario che sia, e con mille insidie pericolose. La parola magica è “autonomia” della scuola, del singolo istituto. Opportunità e trappola nello stesso tempo. L’autonomia scolastica è diventata perfino un’ossessione.
Forse bisogna sottolineare a questo punto che i licei nei paesi di lingua tedesca sono in un certo senso “omnicomprensivi”, nel senso che non esiste la scuola media. In liceo si entra all’età di dieci anni, dopo quattro anni di scuola elementare: i primi quattro anni sono il “liceo inferiore”, poi segue il “liceo superore”. Il carattere classico (o meno classico) inizia quindi già in prima classe, all’età di dieci anni. Proprio questo “liceo lungo” crea delle tensioni. Molti chiedono il “liceo inferiore unificato o standardizzato” (Gesamtschule, un cavallo di battaglia della politica socialista degli anni ’70, in séguito adottato anche dai partiti di destra) per garantire trasferimenti più facili da una scuola all’altra. Ed ecco il rischio e la mina vagante che minaccia ogni liceo: I primi anni dovrebbero essere uguali in tutte le scuole. In quel contesto il latino nel liceo inferiore diventa sempre più un miraggio. O almeno una materia che molti vogliono abbattere o mettere in concorrenza con le lingue viventi appena introdotte, come lo spagnolo p.es.. Queste guerre si fanno da trent’anni. Con un discreto successo: Sono molte le scuole che abbandonano il latino nelle prime classi, pur rivendicando ancora la fama del liceo a pieno titolo.
D’altra parte mi sono giunte anche delle notizie da scuole in Germania che hanno reintrodotto il latino già nelle classi inferiori. Esempi da contare sulle dita di una mano, ma comunque da non sottovalutare. Mancano ancora i numeri per poter dire se queste nuove offerte hanno un impatto sulla società o una prospettiva operativa per il futuro.
Non dobbiamo cadere, quindi, nella trappola delle illusioni. Da nessuna parte ci sarà fornita la dichiarazione di garanzia. Tanto meno in un tempo che si dichiara dinamico e pronto a tutte le mutazioni pensabili. Siamo chiamati noi latinisti tedeschi ed austriaci a darci uno sforzo particolare, una vera spiegazione di forze del cervello, dello spirito, dell’anima, del cuore, che non avrà nessun effetto se non sarà basato su una vera rivoluzione interna del nostro modo e della nostra filosofia di insegnare – e soprattutto di essere. L’entusiasmo visibile deve essere più forte della tradizionale precisione super-filologica. L’argomento della buona tradizione di 150 anni di liceo classico non basta. Gli edifici scolastici tedeschi ed austriaci sono spesso veri gioielli d’architettura e anche ben curati. L’atmosfera respira lo spirito classicista di generazioni di scolari che hanno studiato abbondantemente Omero e Virgilio, Cicerone e Livio, con pazienza e tenacia, senza discussioni. Il liceo era quello che era. Ma di quei giorni parlano soltanto le targhe, con le scritte in oro sullo sfondo nero e l’alloro finto attorno. Con lo spirito burkhardtiano e le considerazioni di Winkelmann non si possono attirare i genitori di oggi. (Sono sempre loro a decidere sugli indirizzi delle scuole mandando li i figli o non.) Lontani sono anche i tempi dei maestri che non hanno mai lasciato il posto davanti al tavolone, l’insegnamento frontale era indiscusso.
Oggi tutto è cambiato: Urge un insegnamento che deve essere una azione duratura di accompagnare lo studente “per aspera ad astra”, attraversando anche quelle difficoltà che a noi latinisti sembrano banali. Ne ho parlato recentemente davanti a latinisti italiani ed esteri a Trieste alla nuova Summer School of Classics. Queste mie considerazioni non sono inedite. Ma certe cose bisogna ripetere, per sottolineare la loro importanza: Il latino non può essere una serie di lezioni che hanno come unico contenuto la traduzione, parola per parola, non può essere un semplice corso di “trasformazione di testi” da una lingua all’altra e con lo scopo di imparare ad evitare errori e sbagli. Non può essere un semplice corso di grammatica, non può essere un continuo esercizio di morfologia e sintassi, anche se queste cose bisogna insegnare bene e consolidare in vista dei futuri contenuti della materia. Il latino non può essere presentato (o peggio: venduto) con l’etichetta della sola tradizione. Lo stemma nobile non è sufficiente, il proverbio nobile in un latino elegante, schietto e snello non salva l’atmosfera. E tanto meno il continuo parlare del valore del latino per salvare i tesori del passato. Piaccia o no, non dobbiamo parlare troppo di passato, bisogna parlare del futuro. Ciò soprattutto in una società che è post-industriale, che deve affrontare i problemi del tempo libero in abbondanza. Soprattutto la Germania è un paradiso del divertimento. Un paese che forse ha voglia di cultura proprio perché è afflitto dalla noia del recente passato industriale e del presente super-tecnologico. L’insegnamento del latino deve offrire un tuffo in un mare di pensieri attuali, di contenuti che nessun’ altra materia può offrire: un piccolo universo culturale, di avventure, di un mondo creduto morto e stranamente vivo. Il latino in noi, uomini dei tempi di oggi. Non solo “lingua Latina”, ma “Latinitas”. E ciò non solo poche settimane prima degli esami di stato, ma dall’inizio dell’insegnamento. Non nascondo che anche nelle elementari si dovrebbe parlare di più di questa nostra Europa latina. Di Europa si parla nelle scuole dell’Europa Centrale, ma non di quella latina.
Viene richiesta una disponibilità forte e permanente come mai prima, a reinterpretare, o piuttosto: ridefinire la nostra azione d’insegnamento,il nostro stato d’animo, il nostro “habitus”, lo scopo supremo (autentico, speriamo) del nostro “docere”. Troppo spesso è stato commesso l’errore di fare tale esame di coscienza solo quando si trattava di affrontare le tematiche riservate alle classi superiori. Con quelle domande dobbiamo confrontarci fin dalla prima ora di latino, magari davanti a quei ragazzi che sono entrati nel “liceo inferiore” con insegnamento di latino (!), e non sanno la causa per la quale frequentano questi banchi di scuola e non altri. Forse non lo sanno neanche i loro genitori.
La domanda di fondo è: Docere, come e con quale stato mentale, con quale identificazione, con quale filosofia e con quale immagine del giovane che dobbiamo accompagnare? Con quali strumenti e con quali procedure ? Docere come impegno su vari livelli: intellettuale, emotivo, artistico. Se vogliamo portare il latino nelle classi inferiori, non dobbiamo essere riconoscibili come “latinisti”, ma come uomini che abbondano di cultura viva, allegra, accattivante, in una parola: cultura a 360 gradi. Un fatto del cervello e dell’animo, del cuore e del istinto. Perché docere è una arte.
Pedagogia, vuol dire condurre i giovani, pedagogia non invadente, ma costante e con emozioni finissime, sottili, raffinate – in un mondo caratterizzato dagli impatti fin troppo forti. L’attuale tendenza filosofica che tocca i paesi di lingua tedesca, una specie di visione universale del mondo e della vita, rende più probabile un successo in quella direzione.
La questione di base è tripla. Il latino come materia linguistica o come materia culturale per antonomasia? “La Materia Culturale” quindi. Non pochi in Germania e Austria la rivendicano. In ogni caso un latino autentico e non semplificato artificialmente, anche perché il latino più bello e più nobile non è complicato, ma è proprio quello chiaro e semplice. I giovani devono capire che il latino è bello perché è trasparente, come lingua e come cultura. Simplicitas vincit. Un latino che è rimasto una lingua viva, un essere vivente fuori dalla gabbie della tradizione, fuori dalle prigioni della traduzione, lontano da ogni tradimento. Ma anche lontano da modifiche e manomissioni improprie. Ci sono casi in cui per esprimere un pensiero in italiano o tedesco occorrono dieci o dodici parole, e in latino ne bastano quattro o cinque. Brevitas vincit. Il latino è un bene in evoluzione, certo, ma non deve essere vittima di storture. Illustrarlo come una lingua chiara e perciò semplice fa bene, ma non è necessario banalizzarlo, renderlo troppo facile. I giovani vanno stimolati ad affrontare anche alcune difficoltà. La tendenza didattica predominante nei paesi di lingua tedesca è quella di alzare il livello delle prestazioni. Troppe azioni di semplificazione non possono creare, a lunga andata, piacere nei giovani perché un bel giorno si renderanno conto che non hanno imparato il latino vero, ma un secondo “esperanto” del quale il mondo non ha bisogno. Dobbiamo renderci conto che anche per i giovani il tempo è prezioso. In una società che vive con la velocità in tutte le cose, parlo appunto dei paesi di lingua e mentalità tedesca, bisogna calcolare i tempi a disposizione. Non dobbiamo fare lo sbaglio di tentare di sostituire l’inglese dal latino, in quel caso il latino perde di sicuro. In quel caso noi latinisti siamo i bersagli di tutti, e neanche a torto.
Penso a una anima europea non imprigionata dalla tradizione, ma sostenuta dalla consapevolezza della “sostanza in movimento” della civitas europea. Il latino come lingua di identificazione, non da veicolo linguistico quotidiano. In Germania ci sono alcuni “estremisti” del latino che vogliono parlarlo in ogni momento della vita. Anche questa è una tendenza, ma non vincente. Con tutta l’ammirazione per l’idealismo palese,voglio dire: il “troppo” può anche nuocere. Nel mondo scolastico bisogna navigare a vista ed evitare ogni sorta di estremismo. In ambedue le direzioni. Essere riguardati ridicoli non aiuta per niente. Non possiamo tornare indietro nella storia, dobbiamo inserirci noi nel contesto che ci circonda.
Sia chiaro: La tentata fuga verso una scuola superiore senza lingue classiche sarebbe una fuga verso una scuola non-europea, qualunquista dispersa e sospesa nel mondo anonimo. La tradizione scolastica ha sicuramente una ragion d’essere. La sola imbalsamazione del latino , però, non ha senso e non è per niente sufficiente. Se tradizione vuol dire adorazione di mummie, saremo dei poveri custodi di un museo morto.
Molto spesso le tradizioni liceali tedesche ed austriache sono diventate gabbie. Nel caso della Germania e dell’Austria la filosofia metodologica regnante, quella della traduzione meticolosa, dominava il “mercato” delle pubblicazioni didattiche per molte generazioni. Una tradizione che doveva servire da spina dorsale e che è venuta insufficiente nel frattempo. Ma spesso i riformatori si trovano come il famoso Gabbiano Ionathan. Se una battaglia per il rinnovamento viene vinta in Italia,con il metodo naturale p.e.o altre metodologie interessanti, la vicenda non è vinta in Europa. Se parlo di vicenda non penso solo agli ostacoli che la politica e la società creano al rilancio e al consolidamento degli studi del latino e del greco, ma anche alla piccola (e nello stesso tempo grande) fatica quotidiana che gli studenti devono subire davanti a un testo che appare difficile, indecifrabile, pieno di insidie e quindi noioso e già per questo antipatico. Ai margini del discorso voglio dire che anche i testi da leggere sui banchi di scuola sono rimasti sempre gli stessi fino a pochi anni fa: decenni e decenni di ripetizioni, e solo pochi insegnanti hanno rotto il “canone” dell’usuale. Alcuni propongono oggi dei programmi non basati su un elenco di autori, ma su elenchi tematici. Una tendenza che si diffonde, sempre di più.
In tutta l’area non prettamente neolatina (vale a dire nei paesi germanici, anglosassoni e slavi) il latino è davvero lingua straniera, e non viene considerata “lingua degli antenati”. Il latino viene da fuori, anche se fuori non era mai, vista la Latinità “subcutanea” di molte delle civiltà europee. Anche i Paesi germanici hanno sin dai tempi del Sacro Romano Impero un forte elemento latino che è andato dimenticato, ma non è perso. Certamente il minor impatto della cultura ecclesiastica sulla società – a parte il fatto che la Chiesa è già lontana dal latino per molti aspetti – si fa sentire. L’eredità linguistica latina è assai indiretta (o almeno pare di esserlo) per essere percepita automaticamente, le trasformazioni lessicali, morfologiche e semantiche sono troppo gravi per permettere una percezione di rapporto madre-figlia. E poi ci sono le parole prettamente non-latine, germaniche o celtiche appunto. Il latino è “lontano”, e difficile perché nettamente diverso dal tessuto linguistico della proprio lingua. Ma c è anche un’altro fatto, in un certo senso positivo: il latino è “lontano”- e quindi appetibile, interessante perché esotico, strano ed estraneo, magari un lusso culturale ed intellettuale, e perfino uno “status simbol” della borghesia d’elite o di quella che si crede tale. È la chance per le “famiglie di cultura” di darsi un profilo socio-culturale. Si intende da se che questi aspetti sono già problematici in se stessi. Il latino e la cultura classica latina appaiono come dei beni d’importazione, un oggetti quindi preziosi, per qualche verso stranieri e quindi belli, giusti per il “salotto di buona famiglia”. I libri dei poeti antichi si inserivano molto bene negli ambienti “Biedermayr” della Vienna della fine dell’800 e dell’ “Altdeutsche Stil” della Berlino del primo ‘900. In tale senso il latino godeva anche di un posto d’onore.. Un motivo sincero, quindi ? Visto anche il fatto che l’approccio si fa o almeno si faceva tramite la traduzione (!) e non tramite la lingua come bene integrato nella propria vita. Una tradizione della traduzione che doveva colpire già i piccoli all’età di 11 anni. Ho detto appositamente: colpire. Spesso l’arrivo del latino sui banchi degli alunni di prima classe era davvero un colpo. Centocinquant’anni di tradizione, traduzione e tradimento. Eccoci qua.
Centocinquant’anni di tradizione romantica, eroica, snaturante e falsificante. La traduzione dal latino in un tedesco assai discutibile, perché artificiale e poco naturale aggiungeva il suo. Ancora un tradimento. Forse ciò non ha validità negli occhi dei giovani, ma almeno in quegli dei genitori che a loro volta hanno studiato le “lingue nobili” sui banchi dei licei d’elite di tanti anni fa, con un palese atteggiamento di addestramento borghese e perfino militare. I licei prussiani con la loro tradizione quasi marziale servivano da modello per tutto il mondo di lingua tedesca. Tradition oblige, la tradizione obbliga, e sono tentato di aggiungere: la traduzione anche. Ma non solo per amore per la cultura, ma per dotarsi di un marchio di qualità. La cultura del marchio è diffusa in Germania e in Austria, come in pochi paesi.
Ma attenzione: Se però dilaga la mania del “credo” tecnologico e consumistico, come è da parecchio tempo il caso nei paesi del Nord in una misura non più comprensibile, il latino perde subito l’aura e il carisma del gioiello prezioso. Cito per un attimo il caso della Svizzera, dove il latino è quasi scomparso, del greco non parliamo, anche dalle scuole più nobili, ivi compreso il Canton Ticino che in teoria dovrebbe sentirsi particolarmente legato al mondo latino.
La situazione in Austria è particolarmente difficile: L’Austria è un piccolo paese, la società è afflitta dall’impressione di essere in ritardo rispetto ai grandi paesi europei, e quindi si fa di tutto per lanciarsi a tutti i costi in un mare di modernismi. Il latino ne è una vittima. Ora sembra che siamo arrivati a una fase di consolidamento, le scuole con un discreto spazio per il latino si mantengono, alcune sono anche riconosciute, ma non sappiamo se siamo solo all’occhio del ciclone o davvero in acque tranquille. In ogni modo: la tregua consente una riflessione più approfondita e passi decisi per il rinnovamento dell’insegnamento del latino. Nessuno però può programmare il futuro, e la didattica ne risente.
Ogni azione didattica deve partire dalla domanda sincera e coraggiosa: Cosa vogliamo trasmettere ai giovani nelle nostre ore di latino ? Quale peso vogliamo dare noi latinisti al latino in una società non neo-latina, ma sospesa tra le tradizioni tedesche e l’inglese “chic” invadente da tutti i lati? Una più vasta comprensione dei testi, dei loro contenuti, dei significati palesi e nascosti, delle allusioni sottilissime, dei motivi e dei simboli, delle metafore e parabole, dei mezzi stilistici e perfino un po’di poesia, e quindi l’arte di scrivere e quella (ancora più importante) di capire? E forse quell’ultima è ancora più difficile da imparare. Non solo il “corretto” e lo “sbagliato”, ma anche il “buono” e il “cattivo”, il “bello” e il “brutto”. Non dobbiamo dimenticare che in francese si parla di “belles lettres”. Categorie che di solito le materie matematiche ed informatiche non possono offrire. E neanche le scienze naturali se non viste assieme alla filosofia, all’etica, alla teologia e più in generale alle lettere. Il nostro insegnamento potrebbe essere quindi multidimensionale.
O vogliamo limitarci soltanto a un esercizio linguistico, alla matematica delle parole, a esercizi di ginnastica grammaticale, a una “tour del force” della morfologia e della sintassi” ? L’art pour l’art del latino e del greco ? Vogliamo aggiungere altri anni di “filosofia della ripetizione” ai 150 anni appena passati ?
In poche parole: vogliamo dare spazio al rinnovamento ?
La domanda tutto cruda si impone: Quale è il fine supremo, quindi ultimo, della nostra azione ? Da dove partiamo e fin dove vogliamo arrivare ? Non sarà che vogliamo far capire ai nostri giovani il messaggio e quindi il contenuto di un patrimonio ? Dato che noi siamo i custodi, piuttosto mal pagati, ma un po’sacerdoti di un dono divino. Capire, assumere, interiorizzare, integrare nella propria anima ? In una visione universale, che comprende tutto l’uomo nel suo essere, il cervello e l’ anima. Per farlo diventare modello di vita ? Per farlo diventare un vademecum per sempre ? Un “ktema eis aei “. Tutto ciò senza utopie, niente “esperanto” artificiale, ma latino vero e vivo. Un latino che trova molto bene il suo spazio giusto in un’Europa che si rinnova e alla quale noi stessi crediamo. Lo spirito dei tempi attuali permette un “credo” ? Tendenze chiare cercansi. C è un po’di nebbia.
Se oggi alla formazione dei giovani viene chiesto sempre di più un atteggiamento mentale universale, universalistico, integrale ed integrativo, pluralistico e omnicomprensivo, “globale” se vogliamo, è chiaro che anche l’insegnamento delle lingue classiche dovrebbe essere cosi, molto di più che un addestramento linguistico. Molto di più che un corso di traduzione. Magari un’avventura, che consente anche qualche sperimentazione. E ciò è molto di più che una tradizione riciclata. E voglio ripetere: “molto di più”, il che significa: non senza il primo. Il nostro insegnamento deve conoscere bene il destinatario. Se non vogliamo capire la gioventù di oggi, se la crediamo “come sempre”, abbiamo perso già in partenza. Piace o no, dobbiamo cercare di capire i giovani e il loro mondo. Ma dobbiamo mantenere noi stessi la nostra filosofia, niente svendita del nostro “credo” per essere riguardati bravi e belli dai giovani. Anche noi filologi dobbiamo conoscere e saper spiegare lo spirito dei tempi, ma con il nostro bagaglio di filosofie ed esperienze.
Dove mettere quindi gli accenti, cosa privilegiare, cosa accantonare, dove fare i tagli ? E cosa ritirare dall’obbligo, rispolverare, rilanciare ?
Una relazione che deve parlare di “tendenze” deve anche parlare di tagli da fare.
Tagli fondamentali che riguardano il nostro approccio alla materia: Il latino non è il nucleo della vita scolastica di oggi. È una delle materie principali, questo ruolo mi permetto di rivendicare ancora. Da questa posizione non mollerò. Ma va visto integrato in un ventaglio di materie tutte importanti, delle quali nessuna è una materia-nemica del latino.
Tagli fondamentali che riguardano la dimensione didattica: Soprattutto nelle classi del “liceo inferiore” bisogna ridurre le ore di latino la dove sono davvero in esubero. Se noi latinisti ci accontentiamo di tre o quattro ore settimanali nella fascia di età tra i tredici e quindici anni, almeno in Austria e in Germania possiamo trovare simpatia da parte dei genitori, con cinque ore settimanali siamo fuori dai tempi attuali. Nessun liceo potrà mantenersi sul mercato con troppe ore di latino, meglio limitarsi e fare un insegnamento molto concentrato, intensissimo e anche − lo dico volutamente – un po’ più severo rispetto agli anni passati, nei quali abbiamo abbassato notevolmente il livello delle prestazioni richieste. Il “discount” non ci ha portato niente, ne in termini di qualità ne in termini di comprensione da parte della società.
Sul mercato troviamo tutta una vasta gamma di libri per i primi due anni di insegnamento grammaticale. La linea generale è assai unificata: Siamo oramai lontani dall’insegnamento declinazione dopo declinazione, si procede invece assai trasversalmente, imitando in parte i procedimenti delle lingue moderne. I risultati però sono un po’scarsi. Nessuno dei corsi sul mercato ha soddisfatto davvero. Bisogna quindi integrare i capitoli grammaticali che nelle lezioni stesse sono solo presentati in parti (e quasi mai approfonditi) da apposite integrazioni da parte dell’insegnante. In un certo senso un k.o. dei metodi proposti. Mancano da una parte libri che seguono il vecchio metodo, ma con lezioni più interessanti, testi accattivanti e un po’di lingua viva, mancano dall’altra parte i metodi moderni seguiti con perseveranza, tipo metodo Orberg. Non c è dubbio: viviamo dei momenti di grande confusione. Una linea maestra non c è. Io personalmente mi augurerei individuare un corso che procede con chiarezza grammaticale e con elenchi riassuntivi chiari ed esaurienti e con testi tutt’altro che noiosi. Oppure un corso tipo metodo naturale, ma per fare ciò bisognerebbe avere la garanzia di tempo in abbondanza e di autorità scolastiche assai tolleranti. Va detto che almeno in Austria il controllo da parte dei provveditorati anche in termini di metodi adoperati esiste ancora. Non è facile sperimentare radicalmente.
Per consolidare o riproporre l’insegnamento del latino nelle classi inferiori, con un numero di ore di lezione limitato, per non dire limitatissimo, non possiamo andare avanti con soluzioni a metà. O la chiarezza didattica e strutturale tradizionale, ma con testi completamente rinnovati e resi vivi e variopinti, con esercizi direi quasi sportivi e un certo elemento “ludico”, o un metodo radicalmente nuovo che spiega la lingua latina “per se stessa illustrata”, ma per fare ciò ci vuole la garanzia di assoluta libertà didattica e un maggior numero di ore settimanali a disposizione. In un mondo scolastico, ancora caratterizzato dalla filosofia del controllo da parte delle autorità, lo spazio di manovra per un rinnovamento sostanziale, per una sperimentazione con libertà garantita, per un ripensamento della filosofia del “docere” non è grande.
Non credo che nei paesi di lingua tedesca esiste una tendenza dominante, se non quella dei lodevoli tentativi di rendere vivace e colorito l’insegnamento,e i libri scolastici, pur nella parziale confusione metodologica. I latinisti giovani sono assai motivati, molti hanno capito che bisogna proporre ai giovani anche capitoli di storia culturale, ma ciò che manca da molte parti è la disponibilità (e forse anche la capacità) a interpretazioni di testi con atteggiamenti non solo filologici, ma anche filosofici, culturali, storici ed antropologici. L’interdisciplinarietà viene sempre rivendicata, ed è questo già un fatto positivo, ma solo pochi la praticano, e poche scuole – vale a dire poche presidenze – danno lo spazio per farla. A questo punto bisogna parlare della rivista “Der Altsprachliche Unterricht”, la più autorevole testata tedesca in termini di didattica del latino e del greco. Bisogna parlare anche della rivista “DOCERE” che viene proposta dall’Academia Vivarium Novum e dal Centrum Latinitatis Europae, e che ripropone in esclusiva alcuni articoli tradotti parola per parola in italiano, e tenta quindi di portare alcune considerazioni di oltralpe in Italia. E parlo un attimo anche di ZETESIS che accoglie articoli miei che riassumono i contenuti del dibattito didattico nell’ Europa Centrale. Gli addetti ai lavori hanno già scoperto che ci sono differenze di non poco conto tra i due mondi scolastici. Bisogna dire con franchezza che non pochi articoli della rivista tedesca propongono delle vere e proprie utopie che possono essere stimoli preziosi, ma non possono essere tradotti in realtà punto per punto.
In questo quadro tra tradizione e utopia, con molte incertezze e dubbi, l’insegnamento del latino in Germania e Austria va avanti, non troppo male, ma minacciato non solo dalla politica assai anti-latino, ma anche dalla confusione che noi latinisti abbiamo tra le nostre righe, in fatti di didattica, ma anche di filosofia di fondo: siamo soprattutto filologi, o siamo concessionari di cultura generale con un po’ di latino ?
C’è da augurarsi che la confusione potrà partorire prodotti nuovi: quelli attuali non sono pienamente soddisfacenti.