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Ovidio al Meeting di Rimini

by Mariapina Dragonetti

Letture da Ovidio al Meeting per l’amicizia tra i popoli

a cura della Redazione


Per il bimillenario di Ovidio

Monumento di Ovidio a Costanza, l’antica Tomi (autore Ettore Ferrari, 1887)

P. Ovidio Nasone muore a Tomi sul Ponto Eusino nel 17 o 18 d.C. secondo la testimonianza del Chronicon di s. Gerolamo. Siamo quindi al bimillenario di un poeta non sempre apprezzato dalla critica, ma amato da Dante e imitato e ripreso in ogni epoca. Avevamo inserito alcuni suoi brani in diversi reading presentati al Meeting di Rimini: riproponiamo i più significativi precisandone il contesto nel tema del reading e aggiungendo l’originale latino che nello spettacolo riminese mancava per ovvi motivi di pubblico. I testi completi dei reading sono pubblicati su Zetesis 1/2003 (in forma ampliata), 2/2012 e 2/2014.

Anno 2003
Felicitas – Desiderio di felicità e sentimento delle cose nel mondo latino

 Uno dei passaggi di questo reading aveva titolo Felicità nell’affidamento alla divinità.

Fra i testi esemplificativi abbiamo scelto il seguente:

Ovidio, Metamorfosi, VIII, vv. 618 segg.

… Immensa est finemque potentia caeli
non habet et, quid quid superi voluere, peractum est.
Quoque minus dubites, tiliae contermina quercus
collibus est Phrygiis, medio circumdata muro.

(…)

Iuppiter huc specie mortali cumque parente
venit Atlantiades positis caducifer alis.
Mille domos adiere locum requiemque petentes,
mille domos clausere serae. Tamen una recepit,
parva quidem, stipulis et canna tecta palustri;
sed pia Baucis anus parilique aetate Philemon
illa sunt annis iuncti iuvenalibus, illa
consenuere casa paupertatemque fatendo
effecere levem nec iniqua mente ferendo.
Nec refert, dominos illic famulosne requiras:
tota domus duo sunt, idem parentque iubentque.
Ergo ubi caelicolae parvos tetigere penates
submissoque humiles intrarunt vertice postes,
membra senex posito iussit relevare sedili,
quo superiniecit textum rude sedula Baucis.
Inque foco tepidum cinerem dimovit et ignes
suscitat hesternos foliisque et cortice sicco
nutrit et ad flammas anima producit anili.
Multifidasque faces ramaliaque arida tecto
detulit et minuit parvoque admovit aeno.
Quodque suus coniunx riguo conlegerat horto,
truncat holus foliis; furca levat illa bicorni
sordida terga suis nigro pendentia tigno
servatoque diu resecat de tergore partem
exiguam sectamque domat ferventibus undis.
Interea medias fallunt sermonibus horas
sentirique moram prohibent.

(…)

Unicus anser erat, minimae custodia villae:
quem dis hospitibus domini mactare parabant.
Ille celer penna tardos aetate fatigat
eluditque diu tandemque est visus ad ipsos
confugisse deos. Superi vetuere necari
“di” que “sumus, meritasque luet vicinia poenas
impia” dixerunt; “vobis inmunibus huius
esse mali dabitur. Modo vestra relinquite tecta
ac nostros comitate gradus et in ardua montis
ite simul.” Parent ambo baculisque levati
nituntur longo vestigia ponere clivo.
Tantum aberant summo, quantum semel ire sagitta
missa potest: flexere oculos et mersa palude
cetera prospiciunt, tantum sua tecta manere.
Dumque ea mirantur, dum deflent fata suorum,
illa vetus, dominis etiam casa parva duobus
vertitur in templum: furcas subiere columnae,
stramina flavescunt, aurataque tecta videntur
caelataeque fores adopertaque marmore tellus.
Talia tum placido Saturnius edidit ore:
“Dicite, iuste senex et femina coniuge iusto
digna, quid optetis.” Cum Baucide pauca locutus
iudicium superis aperit commune Philemon:
“Esse sacerdotes delubraque vestra tueri
poscimus; et quoniam concordes egimus annos,
auferat hora duos eadem, ne coniugis umquam
busta meae videam neu sim tumulandus ab illa.”
Vota fides sequitur. Templi tutela fuere,
donec vita data est. Annis aevoque soluti
ante gradus sacros cum starent forte locique
narrarent casus, frondere Philemona Baucis,
Baucida conspexit senior frondere Philemon
Iamque super geminos crescente cacumine vultus
mutua, dum licuit reddebant dicta “vale” que
“o coniunx” dixere simul, simul abdita texit
ora frutex. Ostendit adhuc Thyneius illic
incola de gemino vicinos corpore truncos.
Haec mihi non vani (neque erat cur fallere vellent)
narravere senes: equidem pendentia vidi
serta super ramos, ponensque recentia dixi
“cura deum di sint, et qui coluere colantur.”

Edizione secentesca di Ovidio, con note marginali e commento

E’ immensa la potenza del cielo, è infinita, e ciò che gli dèi vogliono tutto si compie. Perché tu non abbia a dubitare, sui colli della Frigia c’è una quercia vicina a un tiglio, circondata da un piccolo muro … Qui venne Giove, con l’aspetto di un mortale, e con suo padre venne il nipote di Atlante, portatore del caduceo, deposte le ali. Bussarono a mille case chiedendo un luogo per riposare: mille case rimasero chiuse. Alla fine una li accolse, piccola invero, ricoperta di stoppie e di canne palustri. Ma la pia Bauci e Filemone, vecchio come lei, in quella capanna si erano uniti negli anni giovanili, e vecchi lì erano divenuti; riconoscevano la loro povertà, e sopportandola tranquillamente l’avevano resa leggera; non importa che tu chieda chi in quella casa sono i padroni, chi i servi: loro due sono tutta la casa, e a un tempo ordinano e obbediscono. Dunque, quando i celesti arrivarono alla piccola dimora, abbassata la testa varcarono la porta bassa; il vecchio, preso un sedile, li invitò a riposare le membra; Bauci pose su quel sedile una rozza coperta. Poi lei smosse nel focolare la cenere del giorno prima, tiepida ancora, e suscitò un po’ di fuoco, lo nutrì con secca corteccia, ravvivò le fiamme col suo povero fiato di vecchia; portò giù dal solaio pezzi di legna tagliata e arbusti secchi, li sminuzzò, li mise sotto il piccolo paiolo; lo monda dalle foglie un cavolo, che il marito era andato a cogliere nell’orto irrigato, mentre lui con la forca a due denti prende una spalla di maiale affumicata, che pendeva dalla nera trave, e da quel pezzo, a lungo serbato, taglia una piccola parte e la butta nell’acqua bollente. Frattanto ingannano il tempo con quattro chiacchiere, che non fanno sentire l’attesa… C’era un’unica oca, custode della dimora assai povera, ed essi si preparavano a sacrificarle in onore degli ospiti dèi. Quella, lesta di ali, li stanca, loro vecchi di età, e infine la si vede rifugiarsi in grembo agli stessi divini. Proibirono questi che la si uccidesse: “Noi siamo dèi, e sarà il vostro empio vicinato che pagherà le sue colpe, mentre a voi sarà dato di essere immuni dal male che giunge; però lasciate la vostra casa, e accompagnate i nostri passi, e insieme andate sull’alto dei monti”. I due obbediscono e, appoggiati ai bastoni, si forzano di porre i loro passi sulla lunga salita. Erano ormai tanto lontani dalla vetta quanto può andare una freccia, una volta lanciata: volsero gli occhi, videro ogni cosa sommersa dalla palude, e soltanto la loro casa restava. Mentre guardano meravigliati, mentre piangono la sorte dei loro vicini, quella vecchia casupola, piccola anche per due soli padroni, si muta in un tempio: colonne sostituiscono i pali, le stoppie del tetto rilucono, si vedono tegole di bronzo dorato, le porte son cesellate, il pavimento si copre di marmo. Il figlio di Saturno allora disse, con calme parole; “Ditemi, o giusto vecchio e tu, moglie di un giusto marito, che cosa volete”. Dopo aver parlato un poco con Bauci, Filemone espose ai divini il parere comune: “Chiediamo di essere sacerdoti, e di custodire il vostro tempio; e siccome abbiamo anni uguali, che una stessa ora ci porti via entrambi: che non abbia a vedere il sepolcro di mia moglie, né sia seppellito da lei”. I loro voti furono esauditi: diventarono custodi del tempio, finché fu data loro vita. Consunti dagli anni, mentre un giorno se ne stavano sui gradini del tempio e raccontavano i fatti del luogo, Bauci vide che Filemone metteva fronde, e Filemone vecchio vide lo stesso per Bauci. E mentre già cresceva la cima sul volto di entrambi, si scambiavano care parole, finché fu possibile: “Addio, o consorte!” dissero insieme, e insieme la corteccia coperse la loro bocca. Ancora qualcuno della gente di Tino mostra gli antichi tronchi senza menzogne, né c’è ragione perché debbano mentire. E io appunto ho visto i doni votivi appesi a quei rami, e io stesso, ponendone nuovi, dissi: “I pii sono cari agli dèi, e chi li onorò viene onorato”

Anno 2012  
Il limite e l’infinito – L’uomo antico di fronte al mistero

Nel percorso del reading si giunge a questo interrogativo: Ma se il mondo ha un inizio che ha in sé i germi della fine, quale è questo inizio, e per opera di chi? La risposta è difficile e varia: vi è chi la disattende, concependo gli elementi che compongono tutta la realtà come eterni, ed è la posizione a cui aderisce Lucrezio; altri pensano ad un artefice, identificabile come una divinità, o la Natura stessa personificata. Dà voce a questa concezione all’inizio delle Metamorfosi il poeta latino Ovidio, che considera tale artefice non come creatore, ma come ordinatore e pacificatore. 

Ovidio, Metamorfosi, I, 5 segg.

Antonio Tempesta (XVI sec.), La Creazione del mondo, da una serie di stampe illustrative delle Metamorfosi utilizzate in parte per un’edizione del poema pubblicata ad Anversa nel 1606 (Fine Arts Museum, San Francisco)

Ante mare et terras et quod tegit omnia caelum
unus erat toto naturae vultus in orbe,
quem dixere chaos: rudis indigestaque moles
nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem
non bene iunctarum discordia semina rerum.
nullus adhuc mundo praebebat lumina Titan,
Hanc deus et melior litem natura diremit.
Nam caelo terras et terris abscidit undas,
et liquidum spisso secrevit ab aere caelum.
Quae postquam evolvit caecoque exemit acervo,
dissociata locis concordi pace ligavit.
Ignea convexi vis et sine pondere caeli
emicuit summaque locum sibi fecit in arce:
proximus est aer illi levitate locoque:
densior his tellus, elementaque grandia traxit
et pressa est gravitate sua: circumfluus umor
ultima possedit solidumque coercuit orbem.
Sic ubi dispositam quisquis fuit ille deorum
congeriem secuit sectamque in membra redegit,
principio terram, ne non aequalis ab omni
parte foret, magni speciem glomeravit in orbis..
(…)

Vix ita limitibus dissaepserat omnia certis,
cum, quae pressa diu massa latuere sub illa,
sidera coeperunt toto effervescere caelo.
Neu regio foret ulla suis animalibus orba,
astra tenent caeleste solum formaeque deorum,
cesserunt nitidis habitandae piscibus undae,
terra feras cepit, volucres agitabilis aer.
Sanctius his animal mentisque capacius altae
deerat adhuc et quod dominari in cetera posset.
Natus homo est, sive hunc divino semine fecit
ille opifex rerum, mundi melioris origo,
sive recens tellus seductaque nuper ab alto
aethere cognati retinebat semina caeli;
quam satus Iapeto mixtam pluvialibus undis
finxit in effigiem moderantum cuncta deorum.
Pronaque cum spectent animalia cetera terram,
os homini sublime dedit, caelumque videre
iussit et erectos ad sidera tollere vultus.

Prima del mare e della terra e del cielo che tutto copre, nell’intero universo il volto della natura era uno solo, che venne detto caos: una rozza massa disordinata, e nulla all’infuori di un peso inerte ed elementi discordi ammucchiati insieme di cose malamente unite. Un Dio o una Natura migliore sanò questa discordia. Infatti divise la terra dal cielo, e il mare dalla terra, e il cielo limpido dalla densa atmosfera. Quando li sviluppò e li liberò dal mucchio cieco, li pose in luoghi separati e li collegò in concorde armonia: la potenza infuocata e senza peso del cielo ricurvo balzò in su e si collocò nel luogo più alto; la più vicina ad esso per collocazione e leggerezza è l’atmosfera; la terra più densa di questi trascinò elementi maggiori e fu schiacciata dal proprio peso; l’acqua scorrendo all’intorno prese l’ultimo posto e abbracciò il mondo solido.
Chiunque sia stato il Dio, quando ebbe così separato e disposto la massa, e la ebbe raccolta in parti, per prima cosa diede alla terra la forma di una grande sfera, perché fosse dovunque uguale. Aveva poi appena diviso tutte le zone della terra entro confini certi, quando le stelle, che a lungo erano rimaste schiacciate da una cieca caligine, cominciarono a brillare in tutto il cielo; e perché nessun luogo restasse privo di propri esseri viventi, gli astri e le forme divine occuparono il suolo del cielo, le onde si resero abitabili per i pesci lucenti, la terra ricevette le bestie, la mobile aria gli uccelli. Mancava ancora un vivente più sacro di questi e più capace di profondi pensieri e in grado di dominare su tutti gli altri: nacque l’uomo, sia che l’abbia fatto con seme divino quell’artefice, perché fosse l’inizio di un mondo migliore, sia che la nuova terra, da poco separata dal profondo etere, conservasse elementi della parentela celeste: il figlio di Giapeto, mescolandola con acque pluviali, la foggiò a somiglianza degli dèi ordinatori, e mentre tutti gli altri esseri abbassano il capo a terra, diede all’uomo un viso rivolto in alto e ordinò che guardasse il cielo e levasse gli occhi alle stelle.

Anno 2014
“Il destino troverà la strada”  
Centro e periferie del mondo e della storia nell’età di Augusto

L’occasione del bimillenario di Augusto ha dato origine ad una riflessione sull’idea di centralità ed esclusione, culminante nella nascita di Cristo in una delle periferie dell’impero. Uno dei passaggi utilizzava un testo dei Tristia.

Abbandonare Roma significa ritrovarsi in una situazione di emarginazione e di solitudine. Ce ne dà la prova il poeta Ovidio, costretto all’esilio in una remota regione del Ponto sulle rive del Mar Nero.
Il poeta si è macchiato di una colpa che non conosciamo, perché il poeta stesso è molto reticente al riguardo: sta di fatto che Ovidio viene condannato all’esilio in un paese remoto, e questa condanna non sarà mai revocata, nonostante le richieste insistenti e talora persino querule che il poeta rivolge all’imperatore. Non è solo la scarsa mitezza del clima a deprimerlo, ma è soprattutto la percezione di un’estraneità reciproca con la gente del posto, l’impossibilità per il romano di integrarsi con questi barbari, dai quali, sommo scandalo, è considerato barbaro proprio lui, cittadino romano che ha passato anni a contatto coi personaggi di maggiore prestigio e potere nella corte augustea e nella Roma che conta. La possibilità di avviare una comunicazione almeno minimale con la gente del posto eliminando, o almeno diminuendo lo schermo linguistico non può neppure essere presa in considerazione: come potrebbe un parlante latino pensare di imparare anche solo qualche frase di una lingua barbara come il getico?

Carta della zona di Tomi
Paesaggio nebbioso della zona di Tomi

Ovidio, Tristia, V, 10, 1-12; 37-40

Ut sumus in Ponto, ter frigore constitit Hister,
facta est Euxini dura ter unda maris.
at mihi iam videor patria procul esse tot annis,
Dardana quot Graio Troia sub hoste fuit.
stare putes, adeo procedunt tempora tarde,
et peragit lentis passibus annus iter.
nec mihi solstitium quicquam de noctibus aufert,
efficit angustos nec mihi bruma dies,
scilicet in nobis rerum natura novata est,
cumque meis curis omnia longa facit.
an peragunt solitos communia tempora motus,
suntque magis vitae tempora dura meae?
barbarus hic ego sum, qui non intellegor ulli,
et rident stolidi verba Latina Getae;
(…)

meque palam de me tuto mala saepe loquuntur,
forsitan obiciunt exiliumque mihi.

Da quando abito nel Ponto, il Danubio è gelato tre volte,
tre volte si è ghiacciata l’onda del Mar Nero.
Ma a me sembra ormai che la patria sia lontana da tanti anni
quanti la dardana Troia ha passato sotto l’assedio greco.
Il tempo procede così lentamente che lo diresti fermo,
e l’anno compie il suo viaggio con passi lenti.
Il solstizio non mi porta via nulla della notte
né l’inverno mi rende più brevi i giorni.
Forse la natura si è mutata per me
e insieme ai miei dolori allunga tutte le cose?
oppure il tempo comune continua i soliti moti
e dura di più il tempo pesante della mia vita?…
Qui sono barbaro io, che non sono capito da nessuno,
e i Geti deridono sciocchi le parole latine,
e spesso sparlano di me in mia presenza al sicuro:
forse mi rinfacciano il mio esilio.