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La religione di Euripide

by Giorgio Zangrandi

di Moreno Morani

da Zetesis, 1982-1


L’epiteto di filosofo della scena, che gli antichi attribuiscono a Euripide (1), ha una sua ragion d’essere: in Eschilo e in Sofocle lo svolgimento di una problematica è attuato con mezzi puramente poetici e teatrali, in Euripide l’intervento diretto del poeta sulla scena, per bocca dei suoi personaggi o, talora, sovrapponendosi addirittura ad essi, è frequente e dà in molti punti 1’impressione di un procedere declamatorio estraneo a un’opera di teatro.


Profondamente partecipe alla crisi morale e politica cui al suo tempo versa la polis come istituzione, incapace di trovar conforto in molti dei valori è degli ideali che formavano un patrimonio trasmesso da una tradizione culturale sviluppatasi attraverso secoli e sottoposto alla critica demolitrice della sofistica, Euripide mostra nei suoi drammi, sia per il contenuto, sia per il taglio con cui sceglie, affronta e sviluppa la materia, forti elementi di novità, tali da proiettare la sua figura verso il modo di pensare dell’Ellenismo più di quanto la facciano sentire legata al mondo della  polis. Tanto la sua figura di poeta doctus, che trae dalla lettura e dallo studio approfondito della letteratura lo punto per i suoi drammi, quanto il suo modo di affrontare la materia poetica, l’uso del mito, l’introspezione psicologica accurata, il rinnovamento del linguaggio in senso “borghese” sono tutti elementi che i poeti ellenistici assumeranno da Euripide, fino a sentirlo come il vero iniziatore e maestro della loro arte. In questo atteggiamento decisamente novatore anche il modo in cui Euripide affronta il tema religioso non può che presentare importanti novità rispetto alle conclusioni  a cui Eschilo era giunto o a cui il suo contemporaneo Sofocle, attraverso un cammino spirituale ricco di tormento e sofferenza, stava giungendo.
Difficilmente si potrebbe negare che al fondo della concezione  religiosa di Euripide vi sia un’ansia profonda di ritrovare  una divinità più morale di quella che la cultura greca aveva  immaginato fino allora e che la sua critica alla religiosità tradizionale sia mossa da un desiderio inappagato di far luce sul1’enigma della vita. Eppure, quando ci si accosta al teatro di Euripide nel tentativo di individuarne le istanze più profonde, non si può fare a meno di provare un vago senso di disagio.
Imbevuto di filosofia eraclitea, e non soltanto eraclitea, legato agli ambienti della sofistica e probabilmente vicino a Socrate (2), tanto da citarlo in un frammento (3),e da meritarne sincera ammirazione ed elogi, Euripide riprende con forti accentuazioni polemiche la critica all’antropomorfismo tradizionale, che era stata già iniziata con Senofane, e giunge a conclusioni che sono definite spesso razionalistiche e illuministiche. L’aspetto razionalistico del pensiero euripideo è il più usuale criterio di lettura con cui sia gli antichi sia i moderni affrontano le tragedie dell’ultimo grande tragediografo. Wilhelm Nestle, nel suo libro Euripides, der Dichter der griechischen Aufkärung, ha dato di questa interpretazione la sistemazione più coerente e completa: si tenta di vedere quasi in ogni passo del poeta l’influsso di dottrine eraclitee e sofistiche e si considera Euripide alla stregua di un filosofo che, forte di una dottrina profonda e di un sistema coerente di pensiero, si avvicina alle conclusioni a cui  in epoca moderna pervenne 1’Illuminismo. All’estremità opposta troviamo il volume del Masqueray, Euripide et ses idées, scritto agli inizi del ventesimo secolo, in cui si tenta di dimostrare  che Euripide, non avendo idee precostituite su nessun argomento, è l’uomo delle contraddizioni, e la contraddizione è l’essenza stessa del suo genio. Tra queste due tesi contrastanti è forse possibile trovare una terza strada, che, senza esaltare eccessivamente un sostrato ideologico, peraltro esposto ad incertezze, dell’autore, permette di vedere lo sforzo di ricerca e la tensione con cui egli giunge a conclusioni spesso pessimistiche e disperate. Atteggiamenti diversi e contraddittori fra una tragedia e l’altra sono innegabili: è il contraddirsi del1’uomo che, privo di una verità a cui aggrapparsi, cerca disperatamente con lo sforzo della ragione e con la disponibilità del suo animo una conclusione che ogni volta si rivela limitata e non appagante.
Nella nota che segue tenteremo di rilevare in pochi spunti questo lavorio di ricerca che Euripide ci fa conoscere. Escluderemo deliberatamente qualsiasi accenno alle Baccanti, attorno alle quali sono state proposte ipotesi diverse e nettamente contrastanti e tali da aprire, per la differenza di atteggiamento rispetto a tutte le altre tragedie euripidee, una serie di interrogativi a cui é impossibile dare una risposta precisa in poco spazio.
Con Euripide penetra per la prima volta nel teatro tragico critica alle divinità olimpiche, già intrapresa molto prima dagli autori della scuola ionica e poi riaffermatasi nella Sofistica.
La polemica contro l’antropomorfismo religioso e, secondariamente, contro gli aedi che di questa brutale riduzione della divinità sono stati gli artefici e iniziatori, si trova più volte in quasi tutte le tragedie (4). L’egoismo, la malvagità, il modo capriccioso con cui trattano gli uomini, l’abbandonarsi al furto, all’adulterio e ad ogni genere di azioni inaccettabili tra gli uomini, la pretesa di sacrifici anche umani, sono tutti elementi contro cui si appuntano  le critiche euripidee. Il limite estremo di questo atteggiamento si può trovare nell’Eracle, una tragedia che non lascia il minimo spazio ad una concezione positiva della divinità. L’accanimento con cui Era, preda della gelosia, colpisce il più popolare eroe greco e lo conduce ad azioni inconcepibili, come l’uccisione della moglie e dei figlioletti, sono tali da rendere sgomento persino Lyssa, il demone della follia, a cui Era ha affidato 1’incarico di accecare Eracle: “Perché far del male a un mortale così buono, che non ha mai fatto mancare nulla a noi, che ha reso servigi agli dèi, che ha restaurato il nostro culto quando era distrutto dagli uomini empi?” (5). E Anfitrione, in balìa del tiranno Lico, può affermare con grande vanto la superiorità dell’uomo morale rispetto al dio : “O Zeus, vanamente io ti ho avuto come compagno di matrimonio e vanamente noi ti chiamiamo comune padre del figlio. Tu eri un amico inferiore rispetto a quanto sembravi. Io, che sono un mortale, ti vinco per virtù, nonostante che tu sia un grande dio: io infatti non ho tradito i figli di Eracle: tu invece sei stato capace di giungere a un congiungimento nascosto e ti sei preso la moglie di altri senza che alcuno te la desse, ma non sei capace di salvare gli amici. Tu sei un dio sciocco oppure non sei giusto” (6). La parte finale della tragedia, quando Eracle si è reso conto del male fatto e ha cercato conforto presso Teseo, é costituita da un lungo dialogo in cui il poeta, per bocca di Eracle, ribatte con forza ad alcune delle rappresentazioni tradizionali della divinità. Teseo, riprendendo 1’immagine degli dèi che gli aedi avevano data, cerca di consolare 1’eroe convincendolo del1’esistenza di una forza superiore che accomuna in un unico soffrire gli uomini agli dei e rende necessario affrontare la vita con rassegnazione: anche gli dèi si son resi colpevoli di molti mali e hanno subito questa loro condizione; a maggior ragione deve farlo un mortale, di tanto inferiore a un dio.
Le parole con cui Eracle ribatte non lasciano dubbio: “Ahimé, questo non ha attinenza con le mie disgrazie: io non credo che gli dèi abbiano mai avuto amori non giusti e non ho pensato né mai mi convincerò che mettano mano a catene né alcun dio sia diventato signore di un altro. Infatti Zeus, se veramente é un dio, non ha bisogno di nulla: questi sono infelici discorsi degli aedi.” (7). Vediamo cosi affermata una notazione positivistica: la assoluta perfezione del dio, che deve avere come conseguenza 1’estraniarsi della divinità dalle vicende del mondo: una sua partecipazione ad esse costituirebbe una contaminazione inaccettabile di ciò che è per definizione beato. Nell’Ifigenia Taurica la protagonista rifiuta di credere veri i banchetti divini di Tantalo, e che si siano cibati di un bimbo: “Io credo che le persone di quaggiù, che sono, loro sì, capaci di uccidere gli uomini, riferiscano agli dèi la loro pochezza; io penso che nessun dio sia cattivo” (8).
“Se gli dèi compiono iniquità, vuol dire che non sono dèi” leggiamo in un frammento dei Bellerofonte (9). Ed è in versi come questi che si può misurare la differenza tra la concezione religiosa di Euripide e quella di Sofocle. Quello che gli dèi vogliono, secondo Sofocle, non può essere male: credere che gli dèi possano volere il male sull’uomo, e la conseguente ritrosia ad accettarne le volontà, che conduce alla perdizione il protagonista dell’Edipo re, così come è piena accettazione della volontà degli dei a riscattarlo nell’Edipo a Colono. Indubbiamente la volontà degli dèi può apparire difficile da accettare, misteriosa (Aiace, Trachinie); ma è la disponibilità ad accoglierne liberamente il volere che può indicare all’uomo la via per capire se stesso e di conseguenza realizzarsi pienamente. Ciò che gli dèi fanno è di per sé buono: l’uomo religioso greco deve accettare il volere degli dèi con la stessa umiltà con cui Abramo accetta di sacrificare anche suo figlio, se questo vuole Dio da lui.
Ma di fronte a questa prospettiva Euripide si ribella. La concezione razionalistica presume una perfezione anche etica da parte della divinità. Di fronte al pasto di Tantalo l’animo religioso di Pindaro aveva espresso il suo stupore e manifestato il silenzio di chi non vuol proferire nessuna parola che possa essere empia (10); Euripide manifesta il suo rifiuto. La critica contro il modo di agire degli dèi é particolarmente forte nell’Ifigenia in Tauride e nell’Ippolito: ma accenti significativi si trovano anche altrove. Basti citare il prologo delle Troiane, in cui due divinità si accordano per sfogare il proprio rancore su una folla di uomini, del tutto insensibili alla sofferenza di quelli.
La critica euripidea si esercita anche nei confronti del mito, e conseguentemente il mito stesso, da parte integrante di una storia religiosa a cui l’uomo aderisce e da portatore di verità, frutto di una saggezza antica e degna di rispetto, diventa in Euripide un semplice pretesto drammatico. L’accentuazione dell’intreccio (con la conseguente introduzione del deus ex machina), l’uso di versioni secondarie del mito stesso (come nell’Elena o nel1′Ifigenia in Tauride), la ricerca dei motivi più truci delle stesse vicende mitiche portate sulla scena (come nell’Ecuba o negli Eraclidi) sono tutti elementi i quali indicano come per Euripide il mito sia una storia come un’altra: gli elementi costitutivi e l’ossatura dei suoi drammi egli non li ritrova a partire dalla tradizione della polis e dalla sua coscienza religiosa: egli per la prima volta si presenta come poeta dotto, che va alla ricerca degli spunti teatrali a partire innanzitutto dalla sua cultura: è possessore di una biblioteca privata e studia e conosce in maniera pressoché perfetta i drammi dei suoi predecessori: sono tutti fatti che indicano una diversa visione della vita in Euripide rispetto a Eschilo e Sofocle.
Strettamente connessa con la polemica contro l’immaginario tradizionale della divinità è la polemica contro la mantica: così si scaglia contro gli indovini in un frammento del Filottete: “Perché mai voi, sedendo sui vostri troni di indovini, giurate di conoscere in maniera chiara le cose degli dèi? Gli uomini non hanno la possibilità d’inventare parole su questo: chi si vanta di sapere qualcosa intorno agli dèi, non sa fare altro che persuadere con la sua loquela” (11). L’uomo non ha mezzi per conoscere il futuro: è solo con la sua prudenza, con la γνώμη … ἤ τ᾿εὐβουλία a cui accenna Elena (12). Unico strumento di conoscenza é dunque la ragione umana: ciò che supera la ragione è inconoscibile, e qualunque tentativo di oltrepassare il limite del razionale pare illusorio; il mistero esiste, ma il velo che lo nasconde agli occhi degli uomini non può essere squarciato da nessuno strumento, e quindi è vano  argomentare su di esso.
Al termine del suo travaglio interiore, ma in coerenza con le sue premesse, Euripide finisce col mettere in dubbio la stessa esistenza degli dei tradizionali: “O Zeus, cosa dovrò dire, che tu vedi gli uomini o che hai acquistato vanamente questa credenza, ed é invece la tyche che guarda ciò che avviene tra i morta1i?” (13). Respinti gli dèi della tradizione, Euripide mette al loro posto altri dèi,come l’etere, la terra. Sulla scia di Diogene di Apollonia, così Euripide afferma in un frammento del Crisippo: “O terra grandissima ed etere di Zeus, 1’uno genitore degli uomini e degli dèi, l’altra invece, ricevendo le umide stille della pioggia genera i mortali, genera le piante e le stirpi degli animali, donde non ingiustamente è ritenuta madre di tutte le cose. E ciò che nasce dalla terra di nuovo torna alla terra e ciò che è germinato dalla generazione del cielo di nuovo ritorna alla volta celeste e nulla delle cose che sono muore, ma risolvendosi una cosa in un’altra rivela ogni volta una nuova forma” (14). E questi nuovi dèi meritano anche la preghiera da parte dei mortali; così Ecuba si rivolge loro: “O carro della terra e tu che hai sede sotto la terra, chiunque mai tu sia, difficilissimo da conoscere, o Zeus, che sia tu necessità della natura o mente dei mortali, io ti prego: infatti attraverso un cammino silenzioso tu procedi e conduci le cose dei mortali secondo giustizia” (15). E’ una preghiera nuova, come afferma Menelao che la sente sopraggiungendo sulla scena, ed è una preghiera che afferma un’esigenza interiore di giustizia destinata a rimanere delusa dallo stesso prosieguo della vicenda. Ma queste nuove preghiere ai nuovi dèi suonano astratte: per quanto adulteri e malfattori, i vecchi dèi permettevano un colloquio tra l’uomo e il dio, educavano l’uomo a un rapporto di dipendenza che in Euripide viene completamente vanificato. Quelli di Euripide sono gli dèi dei filosofi, che non danno all’uomo nessuna risposta e non permettono da parte dell’uomo nessuna speranza.
Resta dunque il problema della tyche. Secondo alcuni autori (per es. il Levi) il mondo di Euripide è dominato da un  destino cieco e capriccioso: e anche nell’esaltare la tyche come  dominatrice unica delle vicende umane Euripide precorrerebbe l’ellenismo. Di fatto, leggendo alcune tragedie sembrerebbe di poter condividere questa tesi: la totale mancanza di una moralità così. tra gli dèi come tra gli uomini, il morire per il capriccio del caso, sono elementi che si ritrovano abbondantemente nelle Troiane e nel1′Ippolito, in cui ogni speranza di giustizia, anche lontana, sembra assente. Elena non viene punita per aver causato con la sua condotta la rovina di un’intera città, mentre Ippolito, in cambio del suo agire virtuoso, trova solamente incomprensione e morte.
Il cosmo é visto in una prospettiva vagamente deterministica. Risentendo forse della tradizione culturale a lui precedente e del continuo richiamo alla μετρι?της e al μηδ?ν ?γαν di cui la cultura ateniese é imbevuta, Euripide accetta 1’esistenza di una legge universale, connaturata alle cose, in cui ogni eccesso o deviazione dal1’ordine naturale devono essere eliminati. La trasgressione della giustizia rompe un’armonia, ma non nel senso eschileo del1’affermazione; semplicemente, pone in atto la vio1azione di un ordine prestabilito, e questa violazione, in un contesto puramente naturale e privo, almeno apparentemente, di richiami al trascendente, deve essere subito eliminato (16).
Strettamente connessa a questa notazione é 1’altra puntata polemica sul1’immunità concessa a chi si siede sugli altari degli dei. Da una parte é ingiusto, secondo Euripide, che un malinteso timore degli dei possa frenare il corso della giustizia umana e impedire la punizione su chi si rende colpevole di qualche delitto; d’altra parte solamente alla persona pura e onesta dovrebbe essere consentito di accostarsi agli altari gli dèi. Queste affermazioni sono dette in modo vigoroso soprattutto in due punti dello Ione e dell’Edipo (17).
L’uomo é spesso preda di forze oscure, di passioni che lo dominano. Diversamente da Socrate, che ritiene sufficiente la cognizione del bene per indurre l’uomo a seguire la giustizia, in Euripide predomina l’idea di un uomo domato da passioni alle quali é inevitabile soggiacere. Si dice nell’Ippolito: “Mi sembra che gli uomini si comportino male non per la natura della loro mente – molti infatti sanno ben ragionare; ma la cosa va in questo modo. Noi sappiamo e conosciamo ciò che è bene, ma non lo mettiamo in pratica, alcuni per pigrizia altri per qualche piacere che viene preferito al bene” (18).
Ad una passione insana soggiace Fedra:  i suoi tentativi di liberarsi di questo veleno sono destinati a fallire, e, quel che è significativo, la nutrice consiglia Fedra a non ribellarsi: abbi il coraggio di cedere di fronte a questo amore, perché é inutile tentare di opporsi a una forza della natura. Tanto vale non stare a considerare ciò che é bene e ciò che è male e cedere alla forza della passione. Con un completo stravolgimento della morale comune, è hybris il tentativo di Fedra di reagire alla passione che si é impossessata di lei, perché è voler essere superiore agli dèi : non c’é scampo da Cipride, anche Zeus ha dovuto assoggettarsi alla sua forza; non potrà un mortale pensare di essere più forte di Zeus di fronte all’amore (19). E in un’altra tragedia Medea cede sempre più a un’ ansia di vendetta che la porta a una serie di omicidi, fino all’uccisione dei figlioletti: benché giustificate dal tradimento subìto, le sue azioni si fanno via via meno accettabili agli occhi del Coro, che sempre meno sente l’eroina vicina, anche se manca ogni giudizio morale sugli atti della protagonista: anche Medea è preda di se stessa, di forze dirompenti che si scatenano nel1’animo umano e che l’uomo può solamente subire. Si direbbe che proprio nel razionalista Euripide siano maggiormente esaltate le componenti dionisiache, irrazionali e potenti, dell’anima greca. Eppure anche in Euripide viene proclamata la necessità dell’equilibrio, della μετρι?της, della σωφροσ?νη. Μa non sono più i valori tradizionali, così come erano stati disegnati dai tragici precedenti. Col solo ausilio della ragione l’uomo deve pervenire ad equilibrare un groviglio di passioni che lo trascinano verso vie senza sbocco; sostanzialmente fedele alla cultura greca e al suo profondo senso del limite, Euripide sente anche che la ragione umana da sola non è in grado di dipanare questa matassa, e il più delle volte si trova a soccombere di fronte alla passionalità e all’irrazionale.
Ecco allora la tentazione di trovare una giustificazione del proprio agire, facendo di questa passionalità una divinità. “Noi siamo schiave e siamo forse senza forze”, dice Ecuba nella tragedia dedicata al suo mito (20). “Sono gli che hanno forza, e ciò che domina sopra di loro, il nomos: infatti noi abbiamo un’idea deg1i dèi secondo la legge,e viviamo distinguendo 1’ingiusto e il giusto” (21). L’uomo dovrebbe seguire la φρ?νησισς e l’?ρετ?: ma la vicenda delle tragedie rende difficoltoso il trovare la conferma di questo. Nelle Troiane, Elena si giustifica della propria condotta chiamando divinità la sua ?φροσ?νη, la sua insipienza: gli dèi, cioé Amore, le avevano imposto una momentanea follia: ma è troppo comodo chiamare dio un proprio capriccio (22).
Di grande interesse doveva essere per noi la lettura dei Cretesi, in cui si rappresentavano gli amori di Pasifae per un toro e il suo congiungimento con questa bestia. In uno dei frammenti  superstiti Pasifae si giustifica di fronte al Coro con argomentazioni simili a quelle di Elena: ella era stata accecata  da un dio, e pertanto non c’era nulla di male in ciò che faceva, perché quello che viene da un dio non può essere giudicato male: si tratta evidentemente di una lunga tirata polemica alla quale non doveva mancare una risposta che definiva meglio il pensiero del poeta. Un’altra tragedia molto significativa da questo punto di vista doveva essere la Melanippe  filosofa: 1’eroina partorisce a Posidone due gemelli che, esposti nel pascolo di suo padre, vengono allattati da una mucca: suo padre, pensando che siano nati dalla mucca,  dà ordine di ucciderli in quanto esseri semianimali, τ?ρατα, ma Melanippe li difende affermando che non c’è nessuna violazione  del1’ordine naturale, perché non esistono mostri prodigiosi (23). Sembra dunque che il razionalista Euripide giunga alla conclusione di una totale mancanza di razionalità nel mondo e nel suo divenire; è una battuta dello Ione che giunge a questa tesi estrema: “E’ una cosa mirabile come il dio abbia posto le leggi per i mortali non bene né secondo l’intelligenza razionale!” Ancora più acuta questa percezione viene avvertita in un altro frammento della Melanippe filosofa. Si dice chiaramente che non esiste giustizia presso gli dèi: il criterio di giustizia non va cercato lontano, bensì fra gli uomini stessi: “Voi ritenete che le ingiustizie balzino con le loro ali verso gli dèi e che poi qualcuno  le scriva nelle pagine di un quaderno di Zeus e Zeus vedendole rechi giustizia ai mortali? Neppure basterebbe tutto il cielo se Zeus scrivesse le colpe degli uomini, né egli potrebbe, vedendole, inviare punizione a ciascuno. La giustizia è qua vicino, da qualche parte, se volete guardarvi intorno” (24).

Vaso apulo ad anse datato attorno al 330-320 a.C., conservato nel Michael C. Carlos Museum di Atlanta, raffigurante nella parte inferiore il mito di Melanippe.

Al termine di questo itinerario spirituale non può esservi che desolazione, la disperazione di chi si rende conto di quanto il proprio sforzo di affermare e di cercare la verità stia fallendo. Ed Euripide ammette lealmente la propria sconfitta. In uno dei passi più ispirati di tutta la sua opera, uno stasimo dell’Ippolito, il poeta sente profondamente che solo un atteggiamento religioso è in grado di portare conforto al cuore dell’uomo; ma nuovamente, di fronte alla visione del mondo, di fronte al dilagare della violenza e dell’ingiustizia. Negli anni difficili di guerra e di lotte intestine a cui Euripide assiste, il poeta non può che ribadire, con sofferta amarezza, l’incredulità che il mondo possa essere governato da una provvidenzialità: “Veramente il pensiero degli dèi quando giunge al cuore porta via ogni affanno. Ma, benché io nutra speranza di capire, vengo meno quando scruto i casi e i fatti dei mortali. Infatti le cose si scambiano vicendevolmente e una vita piena di peregrinazioni subisce continuamente trasformazioni per gli uomini” (25). La speranza di capire è la traiettoria sulla quale si muove il pensiero euripideo. A differenza dei tragici precedenti, che si ponevano in colloquio con la polis e collaboravano alla sua crescita spirituale, Euripide scriveva per sé, per un’esigenza interiore: “Io vorrei cantare e dire qualche cosa di saggio” afferma il frammento 901 dell’Antiope (26). Egli sa di non aver nulla da insegnare, perché la sua ricerca, tesa più ad abbattere che a costruire, non gli lascia certezze. Nel suo animo non rimane che la domanda sul significato della vita: “Chi sa se il morire é un vivere e una vita il morire viene considerato là sotto” (27). Una domanda a cui l’uomo non potrà dare una risposta: solo una rivelazione divina potrà togliere di mezzo lo schermo che ci separa dalla verità. E’ nuovamente un personaggio del1′Ippolito, la più carica forse di tensione tragica fra le composizioni euripidee, a farsi portavoce di questa speranza: “Tutta quanta la vita degli uomini  è infelice e non c’è riposo dalle sofferenze. Ma ciò che c’è di più caro della vita, qualunque cosa sia, una tenebra la circonda con le nubi e la nasconde. E noi sembriamo innamorati di ciò che sfolgora sulla terra, perché manchiamo dell’esperienza di un’altra vita possibile e non c’è rivelazione delle cose che sono sotto terra e siamo portati qua e la variamente da miti” (28).
Da miti: cioè da parole prive di fondamento, da affermazioni prive di testimonianze obiettive. Il rifiuto delle verità tradizionali, perseguito con rigore e determinazione, ha come risultato l’approdo verso la disperazione di chi sente l’impossibilità di raggiungere il vero e non crede (follia per i gentili) che la divinità possa scendere tra gli uomini a rivelarne i contorni.
L’eroe tragico che forse più di tutti può rappresentare questa tensione euripidea è Bellerofonte. I frammenti della tragedia a lui dedicata sono abbastanza numerosi perché possiamo farcene un’idea. E’ una storia simile a quella dell’Ulisse dantesco, dell’eroe che si mette in viaggio per scoprire la verità, ma viene abbattuto prima di giungere a contemplarla, perché manca della grazia. Con la differenza che per Dante la grazia è un avvenimento vero, già realizzato nella storia: per l’uomo pagano è un concetto inesistente.
Incapace di accontentarsi della propria condizione, Bellerofonte  decide di recarsi egli stesso a vedere il mondo degli dèi. Se le vicende umane sono tali da contraddire la possibilità di credere in un dio, è necessario andare a vedere di persona come stanno realmente le cose. I frammenti dal 285 al 304 sembrano far parte di un lungo dialogo fra il Coro e 1’eroe, in cui, alle battute del Coro che, con accenni sofoclei, rammenta che la fortuna del malvagio non é destinata a durare, Bellerofonte ribatte con gli accenti del più duro pessimismo greco, riaffermando la superiorità della morte sulla vita e giungendo ad una conclusione che, nella sua vigorosa proclamazione, non sembra lasciare spazio a speranze: “Qualcuno dice che vi sono degli dèi nel cielo: non vi sono, non vi sono, a meno che qualcuno non voglia servirsi di un vecchio discorso, essendo pazzo”. Bellerofonte ricorda grandi esempi di ingiustizie, in cui città potenti e perverse hanno trionfato su piccoli paesi in cui si praticava la giustizia (29). La risposta del Coro non appaga Bellerofonte; egli prende il suo cavallo alato e si libra verso il cielo: “Lascia o fogliame ricco di ombre che io ti valichi verso rupi provviste di fonti. Infatti mi affretto a vedere l’etere che è sopra la mia testa e quale moto ha la luna”. I pochi frammenti relativi alla parte finale ci consentono di vedere l’eroe colpito dal fulmine di Zeus, portato fuori dalla scena morente. Ma nelle parole finali il Coro può mettere degnamente in risalto la pietas dell’eroe che non per desiderio di potere aveva fatto il suo impossibile tentativo, bensì al termine di una sofferta meditazione. Dice il Coro di Bellerofonte: “Tu fosti pio nei confronti degli dèi  finché  vivesti,  e aiutavi gli ospiti e non eri mai stanco verso gli amici”.
Privo della speranza di poter accedere con le proprie forze alla contemplazione della verità, l’uomo euripideo non può che esercitare una ricerca senza speranza, che lo porta solamente a rilevare 1’assoluta incomprensibilità del comportamento divino, contraddicendo così le premesse razionalístiche su cui il pensiero euripideo prendeva le mosse. Il seguente passo dell’Elena é come la conclusione più piena e chiarificante di tutto il pensiero euripideo: “Chi degli uomini, dopo aver fatto ricerca fino al suo limite, può dire di aver trovato cosa è dio,o se non c’è un dio, o che cos’è, o se c’è qualcosa di mezzo? L’uomo vede che le vicende degli dèi balzano qua e là di nuovo e ancora di nuovo con vicende irrazionali, inaspettate” (30).

BIBLIOGRAFIA

W.NESTLE, Euripides, der Dichter der griechischen Aufklärung, Stuttgart 1901
A.V.VERRALL, Euripides the Rationalist, Cambridge 1895
P. MASQUERAY, Euripides et ses idées, Paris 1908
G. MURRAY, Euripides and his Age, trad.it. col titolo Euripide e i suoi tempi, Bari 1932 (1’edizione inglese è del 1913)
V. DI BENEDETTO, Euripide, teatro e società, Torino 1971
A. FRENKIAN, Les dieux dans la conception d’Euripide, “Studii de Liter.Univ. de Bucuresti” 1956, pag.141 ss.
J. ALSINA, Eurípides y la crisis de la conciencia helénica, “Estudios clàsicos” VII (1962-3), pag.225 ss.
A.LEVI, Le idee religiose di Euripide e la sua visione della vita, “Rendiconti Istituto Lombardo”, 1930, pag. 909  ss.

Questa bibliografia indica solamente alcuni strumenti di lavoro e approfondimento iniziali: sarà poi naturalmente utile il ricorso alle ampie sintesi del POHLENZ e del WILAMOWITZ, così come alle  principali storie della letteratura greca (CROISET, LESKY, ecc.) e della religiosità greca (NESTLE, NILSSON): in questi manuali si troveranno poi gli ulteriori rinvii.