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L’amicizia danza intorno al mondo

by Mariapina Dragonetti

Raccolta di testi a cura della Redazione di Zetesis in margine al tema del Meeting 2023: “L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile”

a cura della Redazione


Il Meeting di Rimini, a cui per tanti anni la redazione di Zetesis ha partecipato attivamente con mostre, incontri, reading e spettacoli, invita con il tema proposto quest’anno «a scoprire o a riscoprire l’amicizia nel suo significato profondo, nella sua forza generativa, nelle sue origini e nelle sue prospettive per l’esistenza di ogni uomo e per la costruzione di una nuova socialità» (dalla presentazione del tema in www.meetingrimini.org/edizioni/edizione-2023/tema-e-manifesto/). Sempre nella stessa pagina si afferma che «l’amicizia è da sempre al centro del desiderio del cuore umano». Abbiamo voluto perciò contribuire al Meeting anche quest’anno, seppur indirettamente, proponendo una breve antologia di testi latini e greci che testimonia l’apporto ricco e profondo che già gli antichi hanno dato alla descrizione di questa importante componente della vita umana e alla riflessione sul tema. Si può confermare attraverso la semplice lettura di questi testi la verità di ciò che si afferma nel manifesto del Meeting: «Quanto più è grande la consapevolezza di non poter rispondere personalmente alle esigenze fondamentali di felicità, verità, giustizia e amore, tanto più potente emerge il desiderio di una relazione di amicizia autentica. Nell’esperienza dell’incapacità e della solitudine, l’uomo avverte infatti il bisogno di un’apertura che lo spinge ad una relazione con gli altri, alla ricerca della realizzazione di sé».

Tanti aspetti dell’amicizia

Giamblico, Vita di Pitagora 229-30, v. 69-70

Φιλίαν δὲ διαφανέστατα πάντων πρὸς ἅπαντας Πυθαγόρας παρέδωκε, θεῶν μὲν πρὸς ἀνθρώπους δι’ εὐσεβείας καὶ ἐπιστημονικῆς θεραπείας, δογμάτων δὲ πρὸς ἄλληλα καὶ καθόλου ψυχῆς πρὸς σῶμα λογιστικοῦ τε πρὸς τὰ τοῦ ἀλόγου εἴδη διὰ φιλοσοφίας καὶ τῆς κατ’ αὐτὴν θεωρίας, ἀνθρώπων δὲ πρὸς ἀλλήλους, πολιτῶν μὲν διὰ νομιμότητος ὑγιοῦς, ἑτεροφύλων δὲ διὰ φυσιολογίας ὀρθῆς, ἀνδρὸς δὲ πρὸς γυναῖκα ἢ τέκνα ἢ ἀδελφοὺς καὶ οἰκείους διὰ κοινωνίας ἀδιαστρόφου, συλλήβδην δὲ πάντων πρὸς ἅπαντας καὶ προσέτι τῶν ἀλόγων ζῴων τινὰ διὰ δικαιοσύνης καὶ φυσικῆς ἐπιπλοκῆς καὶ κοινότητος, σώματος δὲ καθ’ ἑαυτὸ θνητοῦ τῶν ἐγκεκρυμμένων αὐτῷ ἐναντίων δυνάμεων εἰρήνευσίν τε καὶ συμβιβασμὸν δι’ ὑγείας καὶ τῆς εἰς ταύτην διαίτης καὶ σωφροσύνης κατὰ μίμησιν τῆς ἐν τοῖς κοσμικοῖς στοιχείοις εὐετηρίας. ἐν πᾶσι δὴ τούτοις ἑνὸς καὶ τοῦ αὐτοῦ κατὰ σύλληψιν τοῦ τῆς φιλίας ὀνόματος ὄντος, εὑρετὴς καὶ νομοθέτης ὁμολογουμένως Πυθαγόρας ἐγένετο, καὶ οὕτω θαυμαστὴν φιλίαν παρέδωκε τοῖς χρωμένοις, ὥστε ἔτι καὶ νῦν τοὺς πολλοὺς λέγειν ἐπὶ τῶν σφοδρότερον εὐνοούντων ἑαυτοῖς ὅτι τῶν Πυθαγορείων εἰσί.

Pitagora insegnò in modo chiarissimo l’amicizia di tutti verso tutti, degli dèi verso gli uomini tramite la religiosità e il culto fondato sulla conoscenza, delle dottrine fra loro, e in genere dell’anima verso il corpo, del razionale verso le forme dell’irrazionale, tramite la filosofia e la contemplazione con lei connessa, degli uomini fra loro, dei cittadini tramite la sana osservanza della legge, degli stranieri tramite la corretta concezione di natura, dell’uomo verso la moglie, i figli, i fratelli, i parenti tramite un’indistruttibile comunanza, insomma di tutti verso tutti  e inoltre verso alcuni animali tramite la giustizia e il legame e comunanza di natura, e del corpo in sé mortale come pacificazione e conciliazione delle forze contrarie che vi si celano, tramite la salute, il modo di vivere finalizzato ad essa e la temperanza, a imitazione del benessere degli elementi cosmici. A giudizio comune Pitagora fu inventore e regolatore del nome unico e uguale complessivamente per tutto questo, amicizia: e così mirabile è l’amicizia da lui insegnata a chi lo frequentava, che ancora adesso la gente dice di quanti sono particolarmente benevoli fra loro che sono Pitagorici.

Aristotele, Etica Nicomachea 1155a

ἔστι γὰρ ἀρετή τις ἢ μετ’ ἀρετῆς, ἔτι δ’ ἀναγκαιότατον εἰς τὸν βίον. ἄνευ γὰρ φίλων οὐδεὶς ἕλοιτ’ ἂν ζῆν, ἔχων τὰ λοιπὰ ἀγαθὰ πάντα· καὶ γὰρ πλουτοῦσι καὶ ἀρχὰς καὶ δυναστείας κεκτημένοις δοκεῖ φίλων μάλιστ’ εἶναι χρεία· τί γὰρ ὄφελος τῆς τοιαύτης εὐετηρίας ἀφαιρεθείσης εὐεργεσίας, ἣ γίγνεται μάλιστα καὶ ἐπαινετωτάτη πρὸς φίλους; ἢ πῶς ἂν τηρηθείη καὶ σῴζοιτ’ ἄνευ φίλων; ὅσῳ γὰρ πλείων, τοσούτῳ ἐπισφαλεστέρα. ἐν πενίᾳ τε καὶ ταῖς λοιπαῖς δυστυχίαις μόνην οἴονται καταφυγὴν εἶναι τοὺς φίλους. καὶ νέοις δὲ πρὸς τὸ ἀναμάρτητον καὶ πρεσβυτέροις πρὸς θεραπείαν καὶ τὸ ἐλλεῖπον τῆς πράξεως δι’ ἀσθένειαν βοηθείας, τοῖς τ’ ἐν ἀκμῇ πρὸς τὰς καλὰς πράξεις “σύν τε δύ’ ἐρχομένω·”

E’ una virtù o compagna della virtù, e del tutto necessaria per la vita. Nessuno infatti sceglierebbe di vivere senza amici, pur avendo tutti gli altri beni; e in effetti per i ricchi e per chi ha cariche e poteri sembra che ci sia maggiormente bisogno di amici, giacché qual è l’utilità di una tale prosperità se si elimina la beneficenza, che si compie soprattutto e in misura più lodevole verso gli amici? O come si conserverebbe e si salverebbe senza amici? Quanto è maggiore tanto più è insicura. Nella povertà e nelle altre sfortune ritengono che il solo rimedio siano gli amici. E per i giovani perché evitino gli errori, per i vecchi per averne cura e compiere le  altre azioni richieste dall’incapacità di provvedere a sé, per chi è nel pieno vigore per le belle opere “procedendo due insieme” . 

Epicuro, Gnomologium Vaticanum 23

Πᾶσα φιλία δι’ ἑαυτὴν αἱρετή· ἀρχὴν δὲ εἴληφεν ἀπὸ τῆς ὠφελείας

Ogni amicizia è scelta per se stessa: ha inizio dal giovamento.

Id. 28

Οὔτε τοὺς προχείρους εἰς φιλίαν οὔτε τοὺς ὀκνηροὺς δοκιμαστέον· δεῖ δὲ καὶ παρακινδυνεῦσαι χάριν φίλιας.

 Non bisogna stimare né chi è proclive all’amicizia né chi è riluttante: bisogna anche correre rischi per l’amicizia.   

Id. 39

Οὔθ’ ὁ τὴν χρείαν ἐπιζητῶν διὰ παντὸς φίλος, οὔθ’ ὁ μηδέποτε συνάπτων· ὁ μὲν γὰρ καπηλεύει τῇ χάριτι τὴν ἀμοιβήν, ὁ δὲ ἀποκόπτει τὴν περὶ τοῦ μέλλοντος εὐελπιστίαν.

Né chi cerca il vantaggio è del tutto amico, né chi mai si lega: l’uno infatti mercanteggia il ricambio al dono, l’altro elimina la speranza per il futuro.

Id. 52

῾Η φ ιλία περιχορεύει τὴν οἰκουμένην κηρύττουσα δὴ πᾶσιν ἡμῖν ἐγείρεσθαι ἐπὶ τὸν μακαρισμόν.

L’amicizia danza intorno al mondo annunciando a tutti noi di svegliarci alla beatitudine.

Cicerone, Laelio- Sull’amicizia 20

Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio, qua quidem haud scio an excepta sapientia nihil melius homini sit a dis immortalibus datum. Divitias alii praeponunt, bonam alii valetudinem, alii potentiam, alii honores, multi etiam voluptates: beluarum hoc quidem extremum; illa autem superiora caduca et incerta, posita non tam in consiliis nostris quam in fortunae temeritate. Qui autem in virtute summum bonum ponunt, praeclare illi quidem, sed haec ipsa virtus amicitiam et gignit et continet, nec sine virtute amicitia esse ullo pacto potest.

L’amicizia non è altro il consenso riguardo alle cose umane e divine unito al volersi bene e all’affetto: e non so se niente di meglio rispetto ad esso sia stato dato all’uomo dagli dèi immortali, a parte la saggezza. Altri preferiscono la ricchezza, altri la buona salute, altri le cariche politiche, molti anche i piaceri: quest’ultima cosa è comune anche alle belve; quelle precedenti sono caduche e incerte, riposte non tanto nei nostri progetti quanto nell’azzardo della sorte. Coloro poi che  pongono nella virtù il sommo bene fanno benissimo, ma questa stessa virtù genera e conserva l’amicizia, e senza la virtù in nessun modo può esserci amicizia.

Sallustio, La congiura di Catilina 20

Ni virtus fidesque vostra spectata mihi forent, nequiquam opportuna res cecidisset; spes magna, dominatio in manibus frustra fuissent, neque ego per ignaviam aut vana ingenia incerta pro certa certis captarem. Sed quia multis et magnis tempestatibus vos cognovi fortis fidosque mihi, eo animus ausus est maxumum atque pulcherrimum facinus incipere, simul quia vobis eadem quae mihi bona malaque esse intellexi; nam idem velle atque idem nolle, ea demum firma amicitia est.

Se il vostro valore e la vostra lealtà non mi fossero note, invano la situazione sarebbe  capitata al momento giusto; una grande speranza, il potere a portata di mano sarebbero stati inutili, e io non cercherei di prendere l’incerto al posto del certo per mezzo di persone vili e vane. Ma poiché in molte e grandi circostanze vi ho conosciuto forti e fedeli a me, per questo il mio animo ha osato dare inizio ad un’impresa grandissima e bellissima, e anche perché ho capito che per voi il bene e il male sono gli stessi che per me:  infatti volere le stesse cose e non volere le stesse cose, questa è ultimamente  la salda amicizia.

Seneca, Epistole 9, 8-10

Sapiens etiam si contentus est se, tamen habere amicum vult, si nisi aliud ut exerceat amicitiam, ne tam magna virtus iaceat, non ad hoc quod dicebat Epicurus in hac ipsa epistula, ‘ut habeat qui sibi aegro adsideat, succurrat in vincula coniecto vel inopi’, sed ut habeat aliquem cui ipse aegro adsideat, quem ipse circumventum hostili custodia liberet. Qui se spectat et propter hoc ad amicitiam venit male cogitat. Quemadmodum coepit, sic desinet: paravit amicum adversum vincla laturum opem; cum primum crepuerit catena, discedet. Hae sunt amicitiae quas temporarias popolus appellat; qui utilitatis causa adsumptus est tamdiu placebit quamdiu utilis fuerit. Hac re florentes amicorum turba circumsedet, circa eversos solitudo est, et inde amici fugiunt ubi probantur, hac re tot nefaria exempla sunt aliorum metu relinquentium, aliorum metu prodentium.  Necesse est initia inter se et exitus congruant: qui amicus esse coepit quia expedit <et desinet quia expedit>; placebit aliquod pretium contra amicitiam, si ullum in illa placet praeter ipsam. ‘In quid amicum paras?’ Ut habeam pro quo mori possim, ut habeam quem in exilium sequar, cuius me morti opponam et inpendam: ista quam tu describis negotiatio est, non amicitia, quae ad commodum accedit, quae quid consecutura sit spectat.

Il saggio, anche se basta a se stesso, tuttavia vuole avere un amico, se non altro per esercitare l’amicizia, perché una virtù così grande non resti inattiva: non per lo scopo che diceva Epicuro in questa stessa lettera ‘per avere uno che lo assista se malato, lo soccorra se è gettato in prigione o povero’, ma per avere qualcuno da assistere se malato, da liberare se imprigionato dal nemico. Chi guarda a se stesso e per questo entra in amicizia pensa male. Come ha cominciato, così finirà: si è procurato un amico perché lo aiuti contro la prigionia; appena cigolerà una catena, se ne andrà. Queste sono le amicizie che la gente chiama provvisorie; chi è stato accolto per essere utile piacerà finché sarà utile. Per questo una folla di amici circonda chi è nella prosperità, intorno a chi è abbattuto c’è il deserto, e gli amici fuggono da dove sono messi alla prova,  per questo vi sono tanti indegni esempi di alcuni che fuggono per paura, altri che tradiscono per paura. E’ inevitabile che inizi e fini siano congruenti: chi ha cominciato ad essere amico perché serve smetterà anche perché serve; piacerà qualunque vantaggio contro l’amicizia, se in lei ne piace qualcuno oltre ad essa stessa. ‘A che scopo ti procuri un amico?’ Per avere uno per cui poter morire, per avere uno da seguire in esilio, contro la cui morte oppormi e spendermi; questo che descrivi è uno scambio commerciale, non un’amicizia: si accosta al vantaggio, guarda a che cosa otterrà.    

Vangelo di Giovanni 15, 13-15

Mείζονα ταύτης ἀγάπην οὐδεὶς ἔχει, ἵνα τις τὴν ψυχὴν αὐτοῦ θῇ ὑπὲρ τῶν φίλων αὐτοῦ. ῾Υμεῖς φίλοι μού ἐστε, ἐὰν ποιῆτε ἂ ἐγὼ ἐντέλλομαι ὑμῖν. Οὐκέτι λέγω ὑμᾶς δούλους , ὅτι ὁ δοῦλος οὐκ οἶδεν τί ποιεῖ αὐτοῦ ὁ κύριος· ὑμᾶς δὲ εἴρηκα φίλους, ὅτι πάντα ἃ ἤκουσα παρὰ τοῦ πατρός μου ἐγνώρισα ὑμῖν.

Nessuno ha un amore più grande di uno che dà la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa che cosa fa il suo padrone: vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito da mio Padre ve l’ho rivelato.

Agostino, Confessioni 4, 4

In illis annis, quo primum tempore in municipio quo natus sum docere coeperam, comparaveram amicum societate studiorum nimis carum, coaevum mihi et conflorentem flore adulescentiae. Mecum puer creverat et pariter in scholam ieramus pariterque luseramus. Sed nondum erat sic amicus, quamquam ne tunc quidem sic uti est vera amicitia, quia non est vera nisi cum eam Tu agglutinas inter haerentes sibi “caritate diffusa in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis”. Sed tamen dulcis erat nimis, cocta fervore parilium studiorum.

In quegli anni, in cui avevo cominciato a insegnare  nella città dove sono nato, mi ero procurato un amico, carissimo per la comunanza di studi, mio coetaneo e come me nel fiore della giovinezza. Da ragazzo era cresciuto con me, eravamo andati insieme a scuola e avevamo giocato insieme. Ma  non era ancora così amico: per quanto neppure dopo lo era così com’è la vera amicizia, perché non è vera se non quando Tu la cementi  fra quelli che si uniscono  tra di  loro “per l’amore diffuso nei nostri cuori tramite lo Spirito Santo che ci è stato dato”. Ma tuttavia era dolcissima, maturata nel fervore di interessi comuni.

Amici nel mito

Achille e Patroclo

Omero, Iliade 11, 783- 793

Πηλεὺς μὲν ᾧ παιδὶ γέρων ἐπέτελλ’ ᾿Αχιλῆϊ
 αἰὲν ἀριστεύειν καὶ ὑπείροχον ἔμμεναι ἄλλων·
σοὶ δ’ αὖθ’ ὧδ’ ἐπέτελλε Μενοίτιος ῎Ακτορος υἱός·
τέκνον ἐμὸν γενεῇ μὲν ὑπέρτερός ἐστιν ᾿Αχιλλεύς,
πρεσβύτερος δὲ σύ ἐσσι· βίῃ δ’ ὅ γε πολλὸν ἀμείνων.
ἀλλ’ εὖ οἱ φάσθαι πυκινὸν ἔπος ἠδ’ ὑποθέσθαι
καί οἱ σημαίνειν· ὃ δὲ πείσεται εἰς ἀγαθόν περ.
ὣς ἐπέτελλ’ ὃ γέρων, σὺ δὲ λήθεαι· ἀλλ’ ἔτι καὶ νῦν
ταῦτ’ εἴποις ᾿Αχιλῆϊ δαΐφρονι αἴ κε πίθηται.
τίς δ’ οἶδ’ εἴ κέν οἱ σὺν δαίμονι θυμὸν ὀρίναις
παρειπών; ἀγαθὴ δὲ παραίφασίς ἐστιν ἑταίρου.

Il vecchio Peleo raccomandò a suo figlio Achille di primeggiare sempre e distinguersi dagli altri; a te (scil. Patroclo) a sua volta raccomandò Menezio, figlio di Attore: “ Figlio mio, per stirpe è superiore Achille, ma tu sei più vecchio; lui è molto migliore come forza; tuttavia digli una parola saggia e consiglialo e dagli indicazioni: lui ti darà retta se è per il meglio.” Così raccomandava il vecchio, ma tu l’hai dimenticato; eppure ancora adesso potresti dire tali cose al prode Achille, se ti dà retta. Chissà che tu commuova il suo animo con l’aiuto di un dio se gli parli! E’ buona l’esortazione di un amico. 

Id. 16, 2- 31

Πάτροκλος δ’ ᾿Αχιλῆϊ παρίστατο ποιμένι λαῶν
δάκρυα θερμὰ χέων ὥς τε κρήνη μελάνυδρος,
ἥ τε κατ’ αἰγίλιπος πέτρης δνοφερὸν χέει ὕδωρ.
τὸν δὲ ἰδὼν ᾤκτιρε ποδάρκης δῖος ᾿Αχιλλεύς,
καί μιν φωνήσας ἔπεα πτερόεντα προσηύδα·
τίπτε δεδάκρυσαι Πατρόκλεες, ἠΰτε κούρη
νηπίη, ἥ θ’ ἅμα μητρὶ θέουσ’ ἀνελέσθαι ἀνώγει
εἱανοῦ ἁπτομένη, καί τ’ ἐσσυμένην κατερύκει,
δακρυόεσσα δέ μιν ποτιδέρκεται, ὄφρ’ ἀνέληται·
τῇ ἴκελος Πάτροκλε τέρεν κατὰ δάκρυον εἴβεις.
ἠέ τι Μυρμιδόνεσσι πιφαύσκεαι, ἢ ἐμοὶ αὐτῷ,
ἦέ τιν’ ἀγγελίην Φθίης ἐξέκλυες οἶος; 
ζώειν μὰν ἔτι φασὶ Μενοίτιον ῎Ακτορος υἱόν,
ζώει δ’ Αἰακίδης Πηλεὺς μετὰ Μυρμιδόνεσσι;
τῶν κε μάλ’ ἀμφοτέρων ἀκαχοίμεθα τεθνηώτων.
ἦε σύ γ’ ᾿Αργείων ὀλοφύρεαι, ὡς ὀλέκονται
νηυσὶν ἔπι γλαφυρῇσιν ὑπερβασίης ἕνεκα σφῆς;
ἐξαύδα, μὴ κεῦθε νόῳ, ἵνα εἴδομεν ἄμφω.
Τὸν δὲ βαρὺ στενάχων προσέφης Πατρόκλεες ἱππεῦ·
ὦ ᾿Αχιλεῦ Πηλῆος υἱὲ μέγα φέρτατ’ ᾿Αχαιῶν
μὴ νεμέσα· τοῖον γὰρ ἄχος βεβίηκεν ᾿Αχαιούς.
οἳ μὲν γὰρ δὴ πάντες, ὅσοι πάρος ἦσαν ἄριστοι,
ἐν νηυσὶν κέαται βεβλημένοι οὐτάμενοί τε.
βέβληται μὲν ὃ Τυδεΐδης κρατερὸς Διομήδης,
οὔτασται δ’ ᾿Οδυσεὺς δουρικλυτὸς ἠδ’ ᾿Αγαμέμνων,
βέβληται δὲ καὶ Εὐρύπυλος κατὰ μηρὸν ὀϊστῷ.
τοὺς μέν τ’ ἰητροὶ πολυφάρμακοι ἀμφιπένονται
ἕλκε’ ἀκειόμενοι· σὺ δ’ ἀμήχανος ἔπλευ ᾿Αχιλλεῦ. 
μὴ ἐμέ γ’ οὖν οὗτός γε λάβοι χόλος, ὃν σὺ φυλάσσεις
αἰναρέτη.

Patroclo si presentò ad Achille, pastore di popoli, versando calde lacrime come una fonte d’acqua bruna, che versa acqua oscura da una ripida roccia. Vedendolo ne ebbe compassione il glorioso Achille piè veloce, e rivolgendosi a lui disse parole alate:“Perché sei in lacrime, Patroclo, come una bimba piccina, che correndo dietro la mamma la spinge a prenderla in braccio,aggrappandosi alla veste, e la impiccia nei movimenti, e la guarda piangendo, per essere presa in braccio? Simile a lei, Patroclo, versi tenere lacrime. Forse annunci qualcosa ai Mirmidoni, o a me stesso, o hai sentito solo tu una notizia di Ftia? Eppure dicono che ancora vive Menezio figlio di Attore,  vive l’Eacide Peleo fra i Mirmidoni, i due per la cui morte soffriremmo molto. Oppure hai pietà degli Argivi, che sono annientati presso le concave navi per la loro prepotenza? Parla, non celarlo nella mente, perché entrambi sappiamo”. A lui con gemiti profondi dicesti, cavaliere Patroclo: “Achille, figlio di Peleo, di gran lunga il più forte fra gli Achei, non adirarti: tale angoscia ha raggiunto gli Achei! Tutti coloro che prima erano i migliori giacciono presso le navi colpiti o feriti. E’ colpito il forte Diomede Tidide, è ferito Odisseo glorioso per la lancia, e Agamennone, è colpito anche Euripilo alla coscia con una freccia. Si affannano intorno a loro i medici dai molti rimedi, curando le ferite: ma tu se intrattabile, Achille. Non mi prenda mai una tale collera, come tu la conservi, distruttrice!”

 Id. 18, 15- 25; 32-34

     Εἷος ὃ ταῦθ’ ὥρμαινε κατὰ φρένα καὶ κατὰ θυμόν,
τόφρά οἱ ἐγγύθεν ἦλθεν ἀγαυοῦ Νέστορος υἱὸς 
δάκρυα θερμὰ χέων, φάτο δ’ ἀγγελίην ἀλεγεινήν·
ὤ μοι Πηλέος υἱὲ δαΐφρονος ἦ μάλα λυγρῆς
πεύσεαι ἀγγελίης, ἣ μὴ ὤφελλε γενέσθαι.
κεῖται Πάτροκλος, νέκυος δὲ δὴ ἀμφιμάχονται
γυμνοῦ· ἀτὰρ τά γε τεύχε’ ἔχει κορυθαίολος ῞Εκτωρ.
     ῝Ως φάτο, τὸν δ’ ἄχεος νεφέλη ἐκάλυψε μέλαινα·
 ἀμφοτέρῃσι δὲ χερσὶν ἑλὼν κόνιν αἰθαλόεσσαν
χεύατο κὰκ κεφαλῆς, χαρίεν δ’ ᾔσχυνε πρόσωπον·
νεκταρέῳ δὲ χιτῶνι μέλαιν’ ἀμφίζανε τέφρη.
αὐτὸς δ’ ἐν κονίῃσι μέγας μεγαλωστὶ τανυσθεὶς
κεῖτο, φίλῃσι δὲ χερσὶ κόμην ᾔσχυνε δαΐζων…
᾿Αντίλοχος δ’ ἑτέρωθεν ὀδύρετο δάκρυα λείβων
χεῖρας ἔχων ᾿Αχιλῆος· ὃ δ’ ἔστενε κυδάλιμον κῆρ·
 δείδιε γὰρ μὴ λαιμὸν ἀπαμήσειε σιδήρῳ.

Mentre questi pensieri agitava nel petto e nell’animo, allora gli venne vicino il figlio del nobile Nestore, versando calde lacrime, e gli disse la notizia dolorosa: “Ahimé, figlio del prode Peleo, una notizia davvero luttuosa saprai, che non doveva succedere. Giace Patroclo, e combattono intorno al cadavere nudo: le armi le ha Ettore dall’elmo lucente”. Così disse, e quello fu avvolto da una nera nube di dolore: prendendo con entrambe le mani polvere fuligginosa, se la versò giù dalla testa, imbrattò il bel volto; cenere nera si posò sul chitone profumato. Ed egli sdraiato nella polvere, grande per molto spazio, giaceva,  con le mani straziava i capelli strappandoli… Antiloco soffriva versando lacrime, tenendo le mani di Achille, che gemeva nel suo nobile cuore: temeva infatti che si tagliasse la gola col ferro.

Oreste e Pilade

Eschilo, Coefore 896-903

  Κλ.       ἐπίσχες, ὦ παῖ, τόνδε δ’ αἴδεσαι, τέκνον,
      μαστόν, πρὸς ᾧ σὺ πολλὰ δὴ βρίζων ἅμα
      οὔλοισιν ἐξήμελξας εὐτραφὲς γάλα.
 Ορ.       Πυλάδη, τί δράσω; μητέρ’ αἰδεσθῶ κτανεῖν;
  Πυ.       ποῦ δὴ τὸ λοιπὸν Λοξίου μαντεύματα
      τὰ πυθόχρηστα, πιστά τ’ εὐορκώματα;
      ἅπαντας ἐχθροὺς τῶν θεῶν ἡγοῦ πλέον.
 Ορ.       κρίνω σε νικᾶν, καὶ παραινεῖς μοι καλῶς.

Clitemestra: Fermati, figlio, abbi ritegno per questo seno, sul quale spesso mentre riposavi succhiavi con le labbra il latte, buon alimento. Oreste: Pilade, che cosa devo fare? Devo aver ritegno a uccidere mia madre?
Pilade: E dove rimangono gli oracoli del Lossia vaticinati a Delfi, e i giuramenti fedeli? Considera tutti nemici piuttosto che il dio.
Oreste: Giudico che tu abbia la meglio, e mi consigli bene.  

 Euripide, Oreste 725-736

Ορ.   ἀλλ’ εἰσορῶ γὰρ τόνδε φίλτατον βροτῶν
     Πυλάδην δρόμωι στείχοντα Φωκέων ἄπο,
     ἡδεῖαν ὄψιν· πιστὸς ἐν κακοῖς ἀνὴρ
     κρείσσων γαλήνης ναυτιλοισιν εἰσορᾶν.   
Πυ.    θᾶσσον ἤ μ’ ἐχρῆν προβαίνων ἱκόμην δι’ ἄστεως,
     σύλλογον πόλεως ἀκούσας ὄντ’, ἰδὼν δ’ αὐτὸς σαφῶς
     [ἐπὶ σὲ σύγγονόν τε τὴν σήν, ὡς κτενοῦντας αὐτίκα].
     τί τάδε; πῶς ἔχεις; τί πράσσεις, φίλταθ’ ἡλίκων ἐμοὶ
     καὶ φίλων καὶ συγγενείας; πάντα γὰρ τάδ’ εἶ σύ μοι.
Ορ. οἰχόμεσθ’, ὡς ἐν βραχεῖ σοι τἀμὰ δηλώσω κακά.
Πυ. συγκατασκάπτοις ἂν ἡμᾶς· κοινὰ γὰρ τὰ τῶν φίλων.

Oreste: Ma vedo questo carissimo fra i mortali, Pilade, giungere di corsa dalla Focide, gradevole vista:  un uomo fedele nella sventura è meglio della bonaccia da vedere per i marinai.
Pilade: Affrettandomi più del necessario ho attraversato la città poiché ho sentito che c’era un’assemblea cittadina, e io stesso l’ho vista chiaramente [riguardo a te e a tua sorella, per uccidervi subito]. Che è questo? Come stai? Come ti trovi tu, il più caro per me fra i coetanei, e fra gli amici e i parenti? Tutto infatti tu sei per me. Or.: Siamo perduti, per svelarti in breve i miei mali.
Pi.: Hai distrutto insieme anche me: comuni sono le sorti degli amici.

Euripide, Ifigenia in Tauride 674- 710

Πυ. αἰσχρὸν θανόντος σοῦ βλέπειν ἡμᾶς φάος·
     κοινῆι δὲ πλεύσας δεῖ με καὶ κοινῆι θανεῖν.
     καὶ δειλίαν γὰρ καὶ κάκην κεκτήσομαι
     ῎Αργει τε Φωκέων τ’ ἐν πολυπτύχωι χθονί,
     δόξω δὲ τοῖς πολλοῖσι (πολλοὶ γὰρ κακοί)
     προδοὺς σεσῶσθαί σ’ αὐτὸς εἰς οἴκους μόνος
     ἢ καὶ φονεύσας ἐπὶ νοσοῦσι δώμασιν
     ῥάψαι μόρον σοι σῆς τυραννίδος χάριν,
     ἔγκληρον ὡς δὴ σὴν κασιγνήτην γαμῶν.
     ταῦτ’ οὖν φοβοῦμαι καὶ δι’ αἰσχύνης ἔχω,
     κοὐκ ἔσθ’ ὅπως οὐ χρὴ συνεκπνεῦσαί μέ σοι
     καὶ συσσφαγῆναι καὶ πυρωθῆναι δέμας,
     φίλον γεγῶτα καὶ φοβούμενον ψόγον.
Ορ. εὔφημα φώνει· τἀμὰ δεῖ φέρειν κακά,
     ἁπλᾶς δὲ λύπας ἐξόν, οὐκ οἴσω διπλᾶς.
     ὃ γὰρ σὺ λυπρὸν κἀπονείδιστον λέγεις,
     ταὔτ’ ἔστιν ἡμῖν, εἴ σε συμμοχθοῦντ’ ἐμοὶ 
     κτενῶ· τὸ μὲν γὰρ εἰς ἔμ’ οὐ κακῶς ἔχει,
     πράσσονθ’ ἃ πράσσω πρὸς θεῶν, λῦσαι βίον.
     σὺ δ’ ὄλβιός τ’ εἶ καθαρά τ’, οὐ νοσοῦντ’, ἔχεις
     μέλαθρ’, ἐγὼ δὲ δυσσεβῆ καὶ δυστυχῆ.
     σωθεὶς δέ, παῖδας ἐξ ἐμῆς ὁμοσπόρου
     κτησάμενος, ἣν ἔδωκά σοι δάμαρτ’ ἔχειν,
     ὄνομά τ’ ἐμοῦ γένοιτ’ ἄν, οὐδ’ ἄπαις δόμος
     πατρῶιος οὑμὸς ἐξαλειφθείη ποτ’ ἄν.
     ἀλλ’ ἕρπε καὶ ζῆ καὶ δόμους οἴκει πατρός.
     ὅταν δ’ ἐς ῾Ελλάδ’ ἵππιόν τ’ ῎Αργος μόληις,
     πρὸς δεξιᾶς σε τῆσδ’ ἐπισκήπτω τάδε·
     τύμβον τε χῶσον κἀπίθες μνημεῖά μου,
     καὶ δάκρυ’ ἀδελφὴ καὶ κόμας δότω τάφωι.
     ἄγγελλε δ’ ὡς ὄλωλ’ ὑπ’ ᾿Αργείας τινὸς
     γυναικὸς ἀμφὶ βωμὸν ἁγνισθεὶς φόνωι.
     καὶ μὴ προδῶις μου τὴν κασιγνήτην ποτέ,
     ἔρημα κήδη καὶ δόμους ὁρῶν πατρός.
     καὶ χαῖρ’· ἐμῶν γὰρ φίλτατόν σ’ ηὗρον φίλων,
     ὦ συγκυναγὲ καὶ συνεκτραφεὶς ἐμοί,
     ὦ πόλλ’ ἐνεγκὼν τῶν ἐμῶν ἄχθη κακῶν.

Pilade: E’ vergognoso che io continui a vedere la luce se tu muori: bisogna che io, dopo aver navigato con te, muoia anche con te. Infatti avrò fama di viltà e malvagità ad Argo e nella terra dei Focesi dalle molte valli, e apparirà alla gente (giacché la gente è cattiva) che io solo sono salvo in casa perché ti ho abbandonato, o persino che ti ho ucciso nella casa sciagurata per strapparti la sorte in vista del potere, sposando tua sorella che è l’erede. Questo dunque temo e ne provo vergogna, e non sarà mai che io non debba morire con te ed essere sgozzato con te e bruciato nel corpo, io che ti sono amico e temo il disonore.   
Oreste: Di’ cose giuste: bisogna che io sopporti i miei mali e non ne sopporterò il doppio, se posso sopportare un solo dolore. Infatti ciò che definisci doloroso e vergognoso è lo stesso per me, se ti farò morire condividendo la mia pena: giacché questo non è un male per me, lasciare la vita, mentre mi trovo come mi trovo a causa degli dèi. Ma tu sei felice e hai pura, non malata, la casa, io invece empia e sventurata. Se ti salvi, e ottieni figli da mia sorella, che ti ho data in sposa, il mio nome potrebbe sussistere, e senza figli la mia casa paterna non resterebbe mai.  Va’, vivi e abita la casa di tuo padre. Quando giungerai in Grecia e in Argo dai bei cavalli, per questa destra ti raccomando: innalzami una tomba e ponici un monumento, e mia sorella doni lacrime e capelli al sepolcro. Annuncia che sono morto per mano di una donna argiva, vittima sacra di uccisione sull’altare. E non tradire mai mia sorella, vedendo abbandonata la stirpe e la casa di mio padre. Addio: ti ho trovato come il più caro degli amici, compagno di caccia e cresciuto con me, tu che hai sopportato molte sofferenze per le mie sventure.

L’amicizia di Teseo e Piritoo e di Teseo ed Edipo

Sofocle, Edipo a Colono 1590-1594; 1638-1656

Ἀγ:ἐπεὶ δ’ ἀφῖκτο τὸν καταρράκτην ὀδὸν
       χαλκοῖς βάθροισι γῆθεν ἐρριζωμένον,
       ἔστη κελεύθων ἐν πολυσχίστων μιᾷ,
       κοίλου πέλας κρατῆρος, οὗ τὰ Θησέως
       Περίθου τε κεῖται πίστ’ ἀεὶ ξυνθήματα
                                               εὐθὺς Οἰδίπους
       ψαύσας ἀμαυραῖς χερσὶν ὧν παίδων λέγει·
       «῏Ω παῖδε, τλάσας χρὴ τὸ γενναῖον φρενὶ
       χωρεῖν τόπων ἐκ τῶνδε, μηδ’ ἃ μὴ θέμις
       λεύσσειν δικαιοῦν, μηδὲ φωνούντων κλύειν.
       ᾿Αλλ’ ἕρπεθ’ ὡς τάχιστα· πλὴν ὁ κύριος
       Θησεὺς παρέστω μανθάνων τὰ δρώμενα.»
       Τοσαῦτα φωνήσαντος εἰσηκούσαμεν 
       ξύμπαντες· ἀστακτὶ δὲ σὺν ταῖς παρθένοις
       στένοντες ὡμαρτοῦμεν· ὡς δ’ ἀπήλθομεν,
       χρόνῳ βραχεῖ στραφέντες, ἐξαπείδομεν
       τὸν ἄνδρα τὸν μὲν οὐδαμοῦ παρόντ’ ἔτι,
       ἄνακτα δ’ αὐτὸν ὀμμάτων ἐπίσκιον
       χεῖρ’ ἀντέχοντα κρατός, ὡς δεινοῦ τινος
       φόβου φανέντος οὐδ’ ἀνασχετοῦ βλέπειν.
       ῎Επειτα μέντοι βαιὸν οὐδὲ σὺν χρόνῳ
       ὁρῶμεν αὐτὸν Γῆν τε προσκυνοῦνθ’ ἅμα
       καὶ τὸν θεῶν ῎Ολυμπον ἐν ταὐτῷ λόγῳ.
       Μόρῳ δ’ ὁποίῳ κεῖνος ὤλετ’ οὐδ’ ἂν εἷς
       θνητῶν φράσειε, πλὴν τὸ Θησέως κάρα.

Messaggero: Dopo che fu giunto alla soglia scoscesa, radicata alla terra con fondamenta di bronzo, si fermò in una delle vie dalle molte diramazioni, vicino al cratere cavo, dove si trovano i patti per sempre fedeli di Teseo e Piritoo…
        Subito Edipo, toccando con le cieche mani le sue figlie, dice: “Figlie, bisogna che sopportiate con animo coraggioso e vi allontaniate da questo luogo, e non vogliate vedere ciò che non è lecito, né udire ciò che viene detto. Al più presto andate: solo il signore Teseo sia presente per apprendere ciò che avviene”. Dopo che disse questo gli ubbidimmo tutti: e gemendo molto accompagnavamo le ragazze. Poco dopo che ci fummo allontanati ci voltammo e vedemmo che l’uomo non era più presente in alcun luogo, e il re stesso a far ombra agli occhi teneva la forte mano, come se un prodigio spaventoso fosse apparso, insopportabile da guardare. Ma in seguito dopo poco tempo lo vediamo venerare la terra e l’Olimpo degli dèi nelle stesse parole. Per quale sorte quello morì nessuno dei mortali potrebbe dirlo tranne Teseo.

L’amicizia di Teseo ed Eracle

Euripide, Eracle 1320-25; 36-7

Θη:  καίτοι τί φήσεις, εἰ σὺ μὲν θνητὸς γεγὼς
     φέρεις ὑπέρφευ τὰς τύχας, θεοὶ δὲ μή;
     Θήβας μὲν οὖν ἔκλειπε τοῦ νόμου χάριν,
     ἕπου δ’ ἅμ’ ἡμῖν πρὸς πόλισμα Παλλάδος.
     ἐκεῖ χέρας σὰς ἁγνίσας μιάσματος
     δόμους τε δώσω χρημάτων τ’ ἐμῶν μέρος…
     κἀγὼ χάριν σοι τῆς ἐμῆς σωτηρίας
     τήνδ’ ἀντιδώσω· νῦν γὰρ εἶ χρεῖος φίλων.

Teseo: Eppure che cosa dirai, se tu che sei mortale soffri troppo per ciò che avviene, e gli dèi no? Lascia dunque Tebe in base alla legge, e seguimi nella città di Pallade. Là purificherò le tue mani dalla contaminazione e ti darò una casa e parte dei miei beni… E in cambio della mia salvezza ti ricompenserò così: infatti sei tu bisognoso di amici.

Amicizie di poeti

Orazio, Odi I, 3, 1-8

Sic te diva potens Cypri,
sic fratres Helenae, lucida sidera,
ventorumque regat pater
obstrictis aliis praeter Iapyga,
navis, quae tibi creditum
debes Vergilium, finibus Atticis
reddas incolumem praecor,
et serves animae dimidium meae.

Te la potente dea di Cipro, e i fratelli di Elena, luminosi astri, e il padre dei venti, rinchiusi gli altri tranne Iapige, proteggano, nave, che sei debitrice di Virgilio affidato a te: alle coste greche ti prego di restituirlo incolume, e di salvare la metà della mia anima.

Id. I, 24

Quis desiderio sit pudor aut modus
tam cari capitis? Praecipe lugubris
cantus, Melpomene, cui liquidam pater
vocem cum cithara dedit.
Ergo Quintilium perpetuus sopor
urget! Cui pudor et iustitiae soror,
incorrupta fides, nudaque veritas
quando ullum invenier parem?
Multis ille bonis flebilis occidit,
nulli flebilior quam tibi, Vergili,
tu frustra pius heu non ita creditum
poscis Quintilium deos.
Quid si Thraeicio blandius Orpheo
auditam moderere arboribus fidem,
num vanae redeat sanguis imagini,
quam virga semel horrida,
non lenis precibus fata recludere,
nigro compulerit Mercurius gregi?
Durum: sed levius fit patientia
quidquid corrigere est nefas.  

Che ritegno o che moderazione potrebbe esserci per il rimpianto di una persona così cara? Insegna canti di lutto, Melpomene, a cui il padre diede una limpida voce insieme alla cetra. Dunque un eterno sonno pesa su Quintilio!
Il pudore e la sorella della giustizia, la lealtà incorrotta, e la nuda verità, quando troveranno uno pari a lui? E’ morto oggetto di pianto per molti buoni, ma per nessuno oggetto di pianto come per te, Virgilio: tu invano pio, ahimè, richiedi agli dèi Quintilio non a questo patto affidato. Ma se con più fascino del tracio Orfeo tu modulassi la lira ascoltata dagli alberi, forse tornerebbe il sangue all’ombra vana, una volta che con la sua tremenda verga, non disposto a schiudere il destino per le preghiere, Mercurio l’abbia spinta nel nero gregge? E’ duro: ma diviene più leggero con la pazienza tutto ciò che non è lecito correggere.

Id. 4, 12, 25-29

Verum pone moras et studium lucri,
nigrorumque memor, dum licet, ignium,
misce stultitiam consiliis brevem:
dulce est desipere in loco.

Ma deponi gli impegni e il desiderio di guadagno, e memore dei neri fuochi, finché si può, mescola un po’ di stoltezza alla prudenza: è dolce al tempo opportuno fare sciocchezze.

Id. 2, 17

Cur me querelis exanimas tuis?
Nec dis amicum est nec mihi te prius
obire, Maecenas, mearum
grande decus columenque rerum.
A! Te meae si partem animae rapit
maturior vis, quid moror altera,
nec carus aeque nec superstes
integer? Ille dies utramque
ducet ruinam. Non ego perfidum
dixi sacramentum: ibimus, ibimus,
utcumque  praecedes, supremum
carpere iter comites parati.
Me nec Chimaerae spiritus igneae
nec, si resurgat, centimanus Gyas
divellet umquam: sic potenti
Iustitiae placitumque Parcis.
Seu Libra seu me Scorpios asdspicit
formidulosus, pars violentior
natalis horae, seu tyrannus
Hesperiae Capricornus undae,
utrumque nostrum incredibili modo
consentit astrum: te Iovis impio
tutela Saturno refulgens
eripuit volucrisque Fati
tardavit alas, cum populus frequens
laetum theatris ter crepuit sonum:
me truncus illapsus cerebro
sustulerat, nii  Faunus ictum
dextra levasset, Mercurialium
custos viarum. Reddere victimas
aedemque votivam memento:
nos humilem feriemus agnam.

Perché mi  strappi l’anima con i tuoi lamenti? Non è caro agli dèi né a me  che tu prima muoia, Mecenate, grande onore
e sostegno della mia realtà. Ah! Se rapisce  te, parte della mia anima, una forza prematura, perché indugio io, l’altra metà, né ugualmente caro né sopravvissuto intero? Quel giorno di entrambi porterà la fine. Io non ho fatto un giuramento falso: andremo, andremo, in qualunque momento precederai, pronti a cogliere l’ultimo viaggio come compagni. Me né il soffio dell’ignea Chimera né, se risorgesse, il centimano Gia, mai  strapperanno via: così alla potente Giustizia piacque e alle Parche. Sia che mi guardi la Bilancia o lo Scorpione temibile, parte predominante dell’ora della mia nascita, sia il Сapricorno che impera sull’onda esperia, entrambe le nostre costellazioni incredibilmente vanno d’accordo: te la protezione di Giove splendendo contro l’empio Saturno strappò e rallentò le ali del volante Fato, quando la folla di popolo fece risuonare tre volte nel teatro il lieto applauso: me un tronco caduto sulla testa avrebbe tolto di mezzo, se con la mano non avesse alleggerito il colpo Fauno, custode dei protetti da Mercurio. Ricordati di offrire in cambio vittime e un tempietto votivo: io sacrificherò un’umile agnella. 

Ovidio, Tristia I, 5, 1-16

O mihi post nullos umquam memorande sodales,
et cui praecipue sors mea visa sua est,
attinitum qui me, memini, carissime, primus
ausus es adloquio susinuisse tuo,
qui mihi consilium vivendi mite dedisti,
cum foret in misero pectore mortis amor:
scis bene, cui dicam, positis pro nomine signis,
officium nec te fallit, amice tuum.
Haec mihi semper erunt imis infixa medullis,
Perpetuusque animae debitor huius ero:
Spiritus in vacuas prius hic evanidus auras
Ibit, et in tepido deseret ossa rogo,
quam subeant animo meritorum oblivia nostro,
et longa pietas excidat ista die.
Di tibi nsint faciles, et opis nullius egentem
Fortunam praestent dissimilemque meae.

Tu degno di ricordo per me più di ogni compagno, tu che più di tutti hai considerato la mia sorte come tua, tu che per primo, ricordo, carissimo, hai osato sostenere con le tue parole me sbigottito, tu che mi hai dato mitemente il consiglio di vivere, quando nel mio misero cuore c’era desiderio di morte, sai bene a chi mi rivolgo, dalle indicazioni poste invece del nome,  e non ti sfugge il compito che ti sei assunto, amico. Questo mi resterà  per sempre impresso nel profondo delle viscere,  e sarò perenne debitore di questa vita: lo spirito andrà disperso nell’aria vana e abbandonerà le ossa sul tiepido rogo, prima che l’oblio dei meriti se ne vada dal mio animo, e la tua devozione  sfugga via col lungo passare del tempo. Gli dèi ti siano propizi, e ti donino una sorte  che non manchi di nessun bene e sia diversa dalla mia.

Rutilio Namaziano, Sul suo ritorno 165-178

His dictis iter arripimus: comitantur amici:
dicere non possunt lumina sicca “vale”.
Iamque aliis Romam redeuntibus haeret eunti
Rufius, Albini gloria viva patris;
qui Volusi antiquo derivat stemmate nomen
et reges Rutulos teste Marone refert.
Huius facundae commissa palatia linguae:
primaevus meruit principis ore loqui.
Rexerat ante puer populos pro consule Poenos;
aequalis Tyriis terror amorque fuit.
Sedula primisit summos instantia fasces:
si fas est meritis fidere, consul erit.
Invitum tristis tandem remeare coegi:
corpore divisos mens tamen una tenet.

Detto ciò attaccammo il viaggio: ci accompagnano gli amici: gli occhi non possono dire “Addio” senza lacrime. E quando già gli altri tornavano a Roma si aggrappa a me che parto Rufio, gloria vivente del padre Albino; trae il nome dall’antica stirpe di Voluso e ricorda i re Rutuli citati da Virgilio. Il palazzo fu affidato alla sua faconda loquela: nella prima età  meritò di parlare a nome dell’imperatore. In precedenza da giovane aveva governato come proconsole i popoli cartaginesi; fu per i Tirii ugualmente oggetto d’amore e paura. L’energia zelante ha promesso le massime cariche: se è lecito fidare nei meriti, sarà console. Infine tristemente l’ho costretto a tornare controvoglia: siamo divisi nel corpo, ma una sola mente ci unisce.