Home Didattica delle letterature classiche La “nuova” Saffo: i frr. P.Köln inv. 21351 + 21376, P.Sapph. Obbink

La “nuova” Saffo: i frr. P.Köln inv. 21351 + 21376, P.Sapph. Obbink

by Mariapina Dragonetti

a cura della Redazione


Offriamo in questa pagina il testo e la traduzione di due frammenti di Saffo che sono stati acquisiti recentemente alla nostra conoscenza. Per la verità, uno dei due frammenti era già noto e presente come fr. 58 nell’edizione di Saffo curata da E. Voigt: una scoperta papiracea ha permesso di leggere in maniera più completa versi di cui erano rimasti solamente frustuli. Il secondo frammento è invece scoperta recente: malgrado il carattere mutilo del carme (manca certamente  all’inizio almeno una strofa, di cui resta appena qualche brandello), e malgrado l’impossibilità di individuare in modo certo l’interlocutore a cui Saffo si rivolge, il testo è abbastanza leggibile: sta per tornare dall’Egitto Carasso, il fratello di Saffo, con una nave carica di merce, e la poetessa si augura che tutto possa andare per il meglio. Nella parte finale viene ricordato anche l’altro fratello, Larico, con un accenno di interpretazione difficile. Come è ovvio, la difficoltà di inquadrare esattamente il carme in un contesto ha suscitato un approfondito dibattito fra gli specialisti. Non intendiamo qui né discutere le moltissime proposte di lettura e di interpretazione che sono state fatte, né tantomeno proporne di nuove. Chi volesse avere un quadro generale della questione, con un’analisi esauriente della bibliografia e osservazioni sempre equilibrate, può consultare la monografia di Roberta Granato, La nuova Saffo: commento ai frammenti di Colonia e al papiro Obbink (P.Köln inv. 21351 + 21376, P.Sapph. Obbink),  reperibile in rete (clicca sul link): il lettore vi troverà anche una Bibliografia molto ampia a cui fare riferimento per approfondire i molti aspetti di entrambi i carmi.


P. Köln 21351 
col. I ll.9-12, col. II ll. 1-8 + 21376; P. Oxy 1787 ll. 11-22
ἰ]ο̣κ[ό]λ̣πων
κάλα δῶρα, παῖδες,
τὰ]ν̣ φιλάοιδον
λιγύραν χελύνναν
 
] π̣οτ̣’ [ἔ]ο̣ντα
χρόα γῆρας ἤδε
ἐγ]ένοντο τρίχες
ἐκ μελαίναν

βάρυς δέ μ’ὀ [θ]ῦμο̣ς̣ πεπόηται, γόνα
δ’οὐ φέροισι,
τὰ δή ποτα λαίψη̣ρ’ ἔον ὄρχησθ’ ἴσα
νεβρίοισιν

τὰ στεναχίζω θαμέως· ἀλλὰ τί
κεν ποείην;
ἀγ̣̣ήραον ἄνθρωπον ἔοντ’ οὐ δύνατον
γένεσθαι.

καὶ γάρ π̣[ο]τ̣α̣ Τίθωνον ἔφαντο
βροδόπαχυν Αὔων
ἔρωι δ..α̣.εισαν βάμεν’ εἰς
ἔσχατα γᾶς φέροισα

ἔοντα̣ [κ]ά̣λ̣ο̣ν καὶ νέον, ἀλλ’
αὖτον ὔμως ἔμαρψε [
χρόνωι π̣ό̣λ̣ι̣ο̣ν̣ γῆρας ἔχ̣[ο]
ν̣τ̣’ ἀ̣θ̣α̣νάταν ἄκοιτιν
che hanno il seno di viola
i bei doni, ragazze,
[la] cara al canto
acuta lira. 

la pelle che un tempo era
la vecchiaia ormai(bianchi)
divennero i capelli
da neri che erano; 

pesante mi si è fatto il cuore; e le ginocchia
non più mi portano,
esse che un tempo erano nel danzare agili
pari a cerbiatti. 

Questo io spesso lamento: ma che
potrei farci?
non esiste uomo che possa essere
indenne da vecchiaia. 

Infatti anche di Titono un giorno dicevano che
Aurora dalle braccia di rosa
colpita da amore lo portò agli
estremi confini della terra 

quando era bello e giovane, ma
lui ugualmente colse
col tempo la canuta vecchiaia,
lui che pure aveva una sposa immortale.

Le prime due strofe secondo le integrazioni exempli gratia proposte da M. L. West, “The New Sappho”, Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 151 (2005):1–9

῎Υμμες πεδὰ Μοίσαν ἰ]ο̣κ[ό]λ̣πων
κάλα δῶρα, παῖδες,
σπουδάσδετε καὶ τὰ]ν̣ φιλάοιδον
λιγύραν χελύνναν·

ἔμοι δ᾽ἄπαλον πρίν] π̣οτ᾽ [ἔ]ο̣ντα
χρόα γῆρας ἤδη
ἐπέλλαβε, λεῦκαι δ’ ἐγ]ένοντο
τρίχες ἐκ μελαίναν·

 
Voi ai piedi delle Muse che hanno il seno di viola
i bei doni, ragazze,
affrettatevi a porre e l’acuta
lira cara al canto. 

A me la pelle, che un tempo era morbida,
la vecchiaia ormai
ha rapito, e bianchi divennero i capelli
da neri che erano;

P.Sapph. Obbink e P.GC inv. 105
 [π- ()
 [ ]
 λα̣[
 ]σέμα̣[

ἀλλ’ ἄϊ θρύλησθα Χάραξον ἔλθην
νᾶϊ σὺμ πλήαι· τὰ μέν̣, οἴο̣μα̣ι, Ζεῦς
οἶδε σύμπαντές τε θέοι· σὲ δ᾽οὐ χρῆ
ταῦτα νόηισθαι,

ἀλλὰ καὶ πέμπην ἔμε καὶ κέλεσθαι
πόλλα λίσσεσθαι̣ βασί̣λ̣η̣αν Ἤρ̣αν
ἐξίκεσθαι τυίδε σάαν ἄγοντα
νᾶα Χάραξον,

κἄμμ’ ἐπεύρην ἀρτέμ̣εας· τὰ δ’ ἄλλα
πάντα δαιμόνεσσι̣ν ἐπι̣τ̣ρόπωμεν·
εὐδίαι̣ γὰ̣ρ̣ ἐκ μεγάλαν ἀήτα̣ν̣
αἶψα πέλ̣̣ο̣νται·

τῶν κε βόλληται βασίλευς Ὀλύμπω
δαίμον’ ἐκ πόνων ἐπάρ{η}ωγον ἤδη
περτρόπην, κῆνοι μ̣άκαρες πέλονται
καὶ πολύολβοι.

κἄμμες, αἴ κε ϝὰν κεφάλαν ἀέρρῃ
Λάριχος καὶ δήποτ᾽ἄνηρ γένηται,
καὶ μάλ’ἐκ πόλλ⟦η⟧αν βαρ̣υθύμ̣ιάν̣ κεν
αἶψα λύθειμεν.





ma tu continuamente ripeti che Carasso arriva
con la nave piena: queste cose, penso, Zeus
le sa e tutti quanti gli dèi, ma tu non devi
pensare a questo,

bensì a congedarmi e invitarmi
a rivolgere molte suppliche a Era sovrana:
che giunga fin qua portando in salvo
la sua nave Carasso,

e che sane e salve ci trovi: le altre cose
tutte quante affidiamole agli dèi,
il bel tempo infatti dopo grandi tempeste 
d’improvviso si avvera.

Coloro a cui volesse il signore di Olimpo
mandare un dio che infine dalle fatiche
li sostenga, quelli diventano felici
e molto prosperi.

E noi, se alzasse la sua testa
Larico e finalmente diventasse un vero uomo,
allora veramente da molte tristezze
subito saremmo liberate.