Riportiamo in questa pagina alcuni stralci dal volume di M. Morani, Introduzione alla linguistica latina, München 2000, relativi alla formazione e alla caratteristiche del latino cristiano. Per indicazioni bibliografiche più complete e per ulteriori notizie si dovrà ricorrere alla lettura diretta del libro.
Il latino cristiano ha tutte le caratteristiche della lingua speciale, ricca di tecnicismi, spesso (ma non sempre) collegati con le novità di concezione della religione cristiana: tali tecnicismi (cristianismi) possono essere costituiti tanto da prestiti (dal greco o dalle lingue semitiche) quanto da innovazioni sorte internamente al latino (neologismi o risignificazione di termini già esistenti). Dal punto di vista linguistico il latino cristiano si può definire come una forma particolare di latino tardo che presenta al suo interno una discreta varietà di registri.
L’idea che la lingua parlata dai primi cristiani avesse dei caratteri propri che la definivano come una lingua speciale fu intuita dal francese F. Ozanam, i cui studi però, sia per la sua sensibilità personale sia per la mancanza di strumenti d’indagine adatti, rimasero confinati soprattutto all’ambito dello stile [1]. È merito del linguista olandese J. Schrijnen l’aver impostato lo studio del latino cristiano antico su basi più moderne: in questo fu avvantaggiato da una formazione di linguistica storica, da un interesse per le problematiche di linguistica teorica fornitogli dai suoi studi di Saussure e infine dall’attenzione con cui gli studiosi della sua generazione seguivano gli sviluppi dell’indagine sociolinguistica. L’esposizione in forma sintetica dei risultati a cui era approdato nei suoi studi, pubblicata nel 1932 col titolo Charakteristik der altchristlichen Latein [2], può essere considerata il manifesto della cosiddetta scuola di Nimega, che allo studio del latino cristiano antico (e, più tardi, anche del greco cristiano antico) ha dato un impulso notevolissimo [3].
Il formarsi di una lingua speciale dei cristiani fu favorita dalla visione del mondo della comunità cristiana primitiva, che in ogni momento tendeva a sottolineare il carattere particolare della sua presenza nel mondo: è l’affermazione di una condivisione e di una separatezza insieme, per cui i cristiani possono dire di sé cohabitamus hoc saeculum, navigamus et nos vobiscum et militamus et rusticamur et mercatus proinde miscemus [4], e nello stesso tempo, oltre ad affermare già con questo «noi» contrapposto a un «voi» irriducibile la propria diversità, ribadire il carattere transeunte della propria presenza sulla terra, da stranieri in una città che ci ospita solo temporaneamente, perché la patria vera e definitiva del cristiano è il cielo: licet convivere cum ethnicis, commori non licet [5]. Strumento delicato e sensibile ad ogni variazione di natura sociale e culturale, la lingua doveva necessariamente riflettere questa novità: i cristiani usano la lingua del paese in cui vivono, ma sulla loro bocca e nei loro scritti questa finisce per atteggiarsi in modo nuovo. In una parola, la lingua dei cristiani non è un dialetto distinto dalla lingua comune, bensì un’articolazione particolare di questa: una lingua speciale, per l’appunto. Anche chi, come Löfstedt, si è mostrato scettico nei confronti di quest’impostazione, e ha preferito sottolineare nel latino cristiano gli elementi di continuità rispetto alla tradizione pagana, così che in molti casi espressioni della lingua cristiana sarebbero il naturale sviluppo delle corrispondenti pagane in un’ottica più di trasformazione che di novità, deve poi ammettere il carattere «sorprendentemente vivo e naturale» del latino cristiano e il «contenuto nuovo e vivo» che esso veicola [6].
Circa il processo di formazione del latino cristiano possiamo dire poco. Il testo più antico che possediamo è costituito dagli Acta martyrum Scillitanorum, un verbale di un processo contro un gruppo di cristiani dell’Africa che risale al 180, a un’epoca dunque in cui il processo di evangelizzazione nel mondo di lingua latina aveva già un’estensione e una profondità notevole: nei più antichi testi letterari, le opere di Tertulliano, il latino cristiano ha già una tradizione dietro le spalle. Si è creduto a lungo, ma erroneamente, che Tertulliano avesse “inventato” il latino cristiano: si tratta di un errore di prospettiva: l’uso di molti termini nuovi o la risignificazione in senso cristiano di parole preesistenti si affaccia per la prima volta in Tertulliano solamente perché poco o nulla è sopravvissuto della letteratura cristiana precedente: almeno nella maggioranza dei casi si avrà a che fare, dunque, con la prima e più antica attestazione di un determinato termine, non con una innovazione assoluta. Quando Tertulliano scrive le sue opere, la lingua dei cristiani ha ormai già raggiunto una piena maturità espressiva.
Uno degli aspetti che più colpiscono il lettore in latino è la straordinaria quantità di grecismi che i primi testi cristiani presentano. La ragione prima di questo risiede nel fatto che il Cristianesimo ebbe origine e si propagò inizialmente in terre ove il greco era da secoli la lingua veicolare. I cristiani di Roma e delle province di lingua latina appresero la nuova religione da greci. In una situazione di radicato e diffuso bilinguismo, come era quella dell’impero romano nel I secolo, poche persone vi dovevano essere nella metà orientale dell’impero che non avessero una nozione, sia pur minima, di latino (se non altro per le ovvie necessità di natura amministrativa legate alla dominazione politica di Roma), e nelle terre di madre lingua latina pochi dovevano essere completamente digiuni di greco. Ma, per ragioni facilmente comprensibili, a Roma e nell’occidente dell’impero un’opera di evangelizzazione in profondità non poteva essere svolta che in latino. È stata spesso affermata, con enfasi persino eccessiva, l’idea che la primitiva diffusione del Cristianesimo riguardasse strati sociali molto bassi: in realtà fin da epoca antica le adesioni e le nuove conversioni alla religione cristiana tagliavano trasversalmente la composizione sociale romana, e cristiani si trovavano anche negli strati più elevati culturalmente e socialmente [7]. I grecismi che s’incontrano in abbondanza nei testi latini sono dovuti, almeno inizialmente, a ragioni contingenti che non hanno nulla a che vedere col presunto basso livello culturale dei primi convertiti: la prima predicazione è svolta da non latini, che conoscono il latino e lo sanno anche parlare, ma sempre come lingua straniera o seconda. Vi era innanzitutto l’incombenza di produrre una versione latina delle Scritture e dei primi testi cristiani, tutti scritti in greco: man mano che il Cristianesimo si diffondeva in Occidente, s’iniziava un lavoro febbrile di traduzione: ma all’entusiasmo con cui questo lavoro veniva affrontato non sempre corrispondeva la perizia linguistica dei traduttori. Agostino descrive bene questo intenso lavorio di appropriazione dei testi cristiani da parte dei latini: ut enim cuique primis fidei temporibus in manus venit codex Graecus, et aliquantulum facultatis sibi utriusque linguae habere videbatur, ausus est interpretari “nei primi tempi della fede, appena a uno veniva nelle mani un codice greco e aveva l’impressione di avere un po’ di competenza in entrambe le lingue, osava tradurre” [8]. Queste prime traduzioni, e in modo particolare le traduzioni delle Scritture, esercitarono un influsso profondo sullo sviluppo successivo del latino cristiano, in quanto costituivano un punto di riferimento da cui prendeva avvio una tradizione che doveva segnare profondamente la lingua. Il fatto che molte di queste prime versioni siano andate perdute, via via sostituite da altre versioni che, pur non potendosi definire perfette, sono comunque opere di persone che possiedono maggiore perizia nel tradurre e più piena competenza della lingua, ne dimostra il carattere essenzialmente pratico. La vitalità dei grecismi cristiani è mostrata dalla loro adattabilità al contesto latino e dalla loro capacità di dar vita a serie derivative: da apostolus si ha apostolica verba o apostolica doctrina, da angelus si ha angelica gaudia; in qualche caso il modello greco è sotteso e facilmente percepibile, anche se il materiale di cui ci si serve è latino, come nel caso dell’espressione dominica verba, la cui prima parola è evidentemente un calco del gr. κυριακός.
Un secondo aspetto altrettanto notevole è l’impressione di prossimità al parlato che la maggior parte di questi testi presenta. Non si tratta di un’impressione ingannevole: studi documentati hanno mostrato che questa propensione è una realtà. Si è notato ad esempio che nelle opere di Agostino precedenti il battesimo la presenza di costrutti o termini caratteristici del parlato è assai meno ampia di quanto avvenga nelle opere successive alla conversione. Si confrontino questi dati: il rapporto tra accusativi con l’infinito (costruzione pripria quasi esclusivamente della lingua letteraria) e subordinate dichiarative introdotte da quod è di 1 a 55 nelle opere precedenti il battesimo (De vita beata, Contra Academicos), 1 a 11 nelle Confessiones e nelle Epistulae, 1 a 2 nei Sermones; non solo, ma nelle prime l’uso del quod è limitato a proposizioni col congiuntivo, mentre nelle seconde si hanno costruzioni sia con l’indicativo sia col congiuntivo [9]. Il motivo di questa propensione non risiede né in una deliberata volontà di allontanarsi dalla lingua della letteratura pagana e di valorizzare la lingua dei ceti umili né in un’incapacità della lingua letteraria di adeguarsi alle necessità espressive dei cristiani. La ragione starà piuttosto nel fatto che la lingua speciale cristiana si forma e assume una fisionomia attraverso un’intensa attività di predicazione, ed è dunque inevitabile che questa sua origine e questo suo svilupparsi a stretto contatto col parlato si rifletta anche nei documenti scritti.
Altro motivo che caratterizza la lingua cristiana, rispetto alla coeva lingua pagana, e la accomuna ad altre lingue speciali, è la preminenza degli interessi pratici sugli interessi stilistici: poiché anche l’attività letteraria è vista in funzione dell’azione pastorale della Chiesa, l’assoluta prevalenza della comunicazione e della trasmissione di contenuti dottrinali finiva per porre in seconda linea le esigenze di natura formale e letteraria: in questo senso i caratteri del latino cristiano non sono diversi da quelli di altre lingue speciali, posto che in molti testi tecnici in tutte le lingue (e il latino, come abbiamo visto sopra, non fa eccezione) l’interesse per la forma è secondario. Ciò non significa che all’interno stesso del latino cristiano non si abbiano scarti anche ampi: vi sono autori e scritti in cui l’attenzione formale e la volontà di adeguamento alla tradizione ciceroniana è forte (si pensi al caso di Gerolamo, la cui attrazione per lo stile di Cicerone era talmente forte da essere vissuta addirittura in modo lacerante, come un venire meno ai propri doveri di cristiano [10]), e altri in cui la necessità o l’opportunità di adeguarsi al modello non è ritenuta imperativa. Anche in questo caso, al di fuori dei testi più antichi, spesso dovuti ad autori di madre lingua diversa dal latino, l’ingresso di elementi propri del parlato o la scelta (più o meno spinta a seconda degli autori e delle circostanze) di una lingua dal tono meno elevato non è dovuta all’incultura di chi scrive. L’esempio dei Sermones di Agostino è interessante: se la scelta di parole o costrutti della lingua corrente è un dato di fatto inoppugnabile, è altresì vero che nel procedere e nello sviluppo delle argomentazioni il peso dei modelli retorici classici è rilevantissimo. L’autore si rivolge al popolo e afferma esplicitamente che la necessità di essere capito può portare alla violazione di qualche norma grammaticale (al barbarismo insomma): ma innanzitutto si rivolge a un pubblico che è in grado di capire un discorso in latino sostenuto, in secondo luogo l’uso di figure retoriche si propone di conferire una maggiore vivacità al discorso e fa sì che risulti più agevole seguire lo sviluppo delle idee. In sostanza: se l’influsso del parlato e una certa volontà di adeguarvisi è indiscutibile, sarebbe eccessivo sia affermare che i Sermones sono un documento in latino volgare, sia all’opposto concludere, come fa Löfstedt, che «con la lingua del popolo essi hanno ben poco da spartire» [11].
La modalità con cui Gerolamo revisionò il testo delle precedenti versioni bibliche [12] fornisce informazioni di grande interesse, in quanto documenta dal vivo come nella sua epoca la lingua cristiana avesse ormai assunto una fisionomia definitiva. Il suo intervento è di natura filologica e critica più che linguistica (mirato com’è a eliminare gli errori di traduzione o gli errori che discendono dall’uso di antecedenti greci poco affidabili o deturpati da errori di copiatura) e non tocca il tono generale delle versioni precedenti, che rimangono comunque qualcosa di originale e di diverso rispetto alla tradizione della prosa d’arte latina (alla quale pure si rifanno altri scritti di Gerolamo). Per fare un solo esempio, s’incontrano nella Vulgata costruzioni tipiche del latino meno elevato come le dichiarative introdotte da quia: recordati vero sunt discipuli eius quia scriptum est [13].L’atteggiamento di rispetto con cui Gerolamo si accosta al testo biblico impedisce di operare quei cambiamenti che sarebbero necessari per adattare le precedenti versioni al tono e al lessico della tradizione letteraria colta: il carattere sacro del testo impedisce all’interprete di rimodulare secondo i suoi gusti letterari l’originale, di cui si deve conservare ogni sfumatura, compreso l’ordine delle parole. Molti volgarismi delle antiche versioni si ritrovano così nella Vulgata:Gerolamo si limitò a ripulire i testi da ciò che la coscienza linguistica comune considerava errore e a migliorarne la resa (soprattutto nella sintassi) laddove ciò era necessario per una migliore perspicuità. Si ha dunque una scelta consapevole in favore della resa verbum de verbo, ma insieme si ha cura di evitare qualunque sciatteria. Ad es. in Mc. 14, 35-36 per 1legen dell’originale non si trova più la resa letterale dicebat, come nell’Itala, bensì il più esatto dixit; per il participio aoristo proelq`wn non più il participio presente adcedens, come nell’Itala, bensì il più preciso cum processisset. Un fatto sorprendente è che, mentre rispetto alle precedenti versioni vi è stato un lavoro in profondità per eliminare le scorrettezze formali [14], d’altro canto risulta che certi cristianismi si sono ormai radicati nella lingua, tanto che il loro uso, tendenzialmente evitato nelle versioni precedenti, non crea più problemi. Ad es. in Lc. 18, 9-10 il gr. Εἶπεν … τὴν παραβολὴν ταύτην è reso nell’Itala e nell’Afra con dixit autem … similitudinem istam: nella Vulgata leggiamo in luogo di similitudinem il grecismo parabolam.
Difficili problemi linguistici dovette risolvere la comunità cristiana primitiva, nel momento in cui la diffusione del Cristianesimo in occidente imponeva la creazione di una terminologia nuova. Se si segue la classificazione di Schrijnen si deve distinguere fra cristianismi assoluti e cristianismi relativi [15]: con la prima espressione si indicano termini che non ricorrono al di fuori degli autori cristiani, con la seconda termini che si ritrovano con significato analogo in autori non cristiani, anche se la loro frequenza è molto superiore nei testi cristiani (p.es. sepultor, subintrare, honorificare, supereminentissimus). Inoltre all’interno dei cristianismi assoluti si deve distinguere fra cristianismi diretti e indiretti [16], cioè fra termini che servono a designare fatti e idee caratteristiche del Cristianesimo (trinitas, incarnatio, missa, evangelium, martyr, sanctificare) e termini d’importazione greca ed ebraica che, pur non designando elementi caratteristici del Cristianesimo, devono il loro ingresso nella lingua latina alla predicazione o all’influsso cristiano (p.es. eremus).
Di mano in mano che la nuova religione penetrava nel tessuto della società romana, si faceva più pressante l’urgenza di sostituire gradualmente la terminologia di provenienza greca o con nuove formazioni schiettamente latine (cioè con derivazioni, per mezzo di suffissi produttivi, da radici o da temi noti) o con la risignificazione di parole già esistenti: in questo secondo caso però si dovevano evitare quelle parole e quei termini che apparivano troppo marcati in senso pagano per potere essere riutilizzati senza nessuno scrupolo. Lo studio dei testi più antichi mostra come sussistessero a lungo incertezze ed esitazioni nella scelta del termine latino, e in qualche caso l’accettazione del termine greco risultò più comoda, e alla fine vincente.
Ad esempio per indicare il luogo di culto nessuno dei termini presenti (templum, fānum, delūbrum) si poteva prestare a una riutilizzazione [17]: questo spiega perché la parola greca ecclesia, che designa a un tempo il luogo di culto e l’assemblea dei fedeli, finì per prevalere. Per lo stesso motivo non si utilizzarono, per tradurre σωτήρ servātor o cōnservātor: questa parola si trovava nella titolatura pagana di Giove, essendo il latino Iuppiter servātor l’equivalente di Ζεὺς σωτήρ, e questo bastava per rendere inutilizzabile il vocabolo. Si ricorse a salvificator (Tertulliano), sospitator (Arnobio), salvator, e alla fine prevalse quest’ultimo, anche per la trasparenza del suo collegamento con salus, che a sua volta si era imposto come traduzione corrente di σωτηρία: la vittoria di salvator non fu però senza resistenza, e non dovettero mancare le critiche dei grammatici, come si desume da un passo di Agostino (serm.299, 6): Christus, inquit, Iesus, id est Christus Salvator. Hoc est enim Latine Iesus. Nec quaerant grammatici quam sit Latinum, sed Christiani quam verum. Salus enim Latinum nomen est. Salvare et salvator non fuerunt haec Latina, antequam veniret salvator: quando ad Latinos venit, et haec Latina fecit. Parallelo all’affermarsi di salvator è quello del verbo dal quale deriva, salvāre: questo verbo non apparteneva alla lingua letteraria, e nella latinità pagana ha una circolazione limitata: nelle lingue romanze salvare ricopre la maggior parte dei valori che precedentemente spettavano a servare, la cui estensione semantica appare assai meno ampia: in it. serbare è parola (peraltro desueta) che ha un’estensione semantica ristretta (‘risparmiare, salvaguardare’) [18], in rum. sărba vale ‘festeggiare’, cioè propriamente ‘osservare la festa (il precetto festivo)’. Altro caso è quello di cōnfessiō: al tempo di Tertulliano ancora non era a disposizione un equivalente latino per il sacramento della confessione, in greco ἐξομολόγησις: is actus, qui magis Graeco vocabulo exprimitur et frequentatur, exomologesis est, qua delictum nostrum Domino confitemur (de paen. 9, 2). Emerge da questo passo che la via per trovare un equivalente di exomologesis non sarebbe stata difficile: bastava dare un contenuto nuovo a un termine preesistente, vale a dire al verbo cōnfiteor e al suo derivato cōnfessiō, già impiegati dai cristiani per la professione della propria fede: nella Passione dei martiri Scillitani alla domanda del funzionario romano che li interrogava sulla loro fede ceteri confessi sunt [19].
Le due parole esaminate, salvator e confessio, mostrano concretamente i due principali procedimenti di cui la lingua cristiana si è avvalsa per arricchire il proprio vocabolario: derivazione e risignificazione. Non sempre però (e l’abbiamo notato con ecclesia) l’equivalente latino era destinato a prevalere sul termine greco. I motivi che portano all’affermarsi del termine greco sono vari: possono esservi ragioni di economia, oppure un radicamento ormai troppo forte della parola greca, oppure l’acquisizione da parte di questa di un valore tecnico molto preciso. A nulla approdano ad esempio i tentativi (soprattutto dei poeti, che per comprensibili ragioni non possono abusare di grecismi) di sostituire episcopus con antistes [20]: simili finezze sono più apprezzate dagli autori pagani, come Ammiano [21], che dai cristiani, i quali percepiscono in episcopus un forte contenuto tecnico il suo equivalente latino non possiede. In qualche caso la tecnica del calco può essere attuata senza problemi: virtūtēs può estendere il proprio significato, sul modello del gr. ἀρεταί, e passare al significato di ‘fatto miracoloso, miracolo’, come s’incontra con frequenza nel latino cristiano e poi medievale.
Il caso di parabola è significativo [22]: più di una ragione ha indotto Gerolamo a preferire il grecismo parabola rispetto alla parola schiettamente latina similitudo: innanzitutto parabola non era stata introdotta in latino dal Cristianesimo, trovandosi già in autori dell’età neroniana come Seneca [23], anche se un purista come Quintiliano può avanzare delle riserve [24]; in secondo luogo nella versione dei Settanta era venuta ad assumere un significato più vasto di quello che aveva in greco classico, in quanto ricopriva tutta l’area semantica dell’ebr. māšāl, che non vale solo ‘paragone’, ma anche ‘proverbio, modo di dire’: l’uso che si fa di parabola in ambiente cristiano è coerente col significato che παραβολή aveva preso nel greco biblico-cristiano, come risulta dal fatto che il titolo del libro dei Proverbi, in greco Παροιμἰαι Σαλωμῶντος, nella Vulgata suona Parabolae Salomonis: il trapasso verso il valore di ‘parola, detto’ è già praticamente compiuto nel testo biblico, ove troviamo espressioni come assumpta parabola dixit (Num. 23, 7). Ma la ragione principale sta nel fatto che parabola nel senso di ‘parola’ si stava rapidamente diffondendo nella lingua della Chiesa, poiché, a mano a mano che il lat. verbum assumeva il valore pregnante di ‘parola divina, Verbo’ (in corrispondenza del gr. λόγος) [25], diveniva palese la necessità di trovare una parola adatta per l’espressione dell’area semantica di gr. ῥῆμα ‘parola, fatto’. Nelle lingue romanze parabola è continuato nell’it. parola, fr. parole, prov. paraula, sp. e port. palabra: in area italiana e francese si ha anche il verbo derivato parabolare (da cui it. parlare, fr. parler, prov. paraular) [26].
Un altro caso interessante è quello di baptizare. Nei primi scrittori cristiani il tentativo di sostituire il termine greco con tinguere è frequente. Nelle citazioni bibliche che si trovano nel testo di Tertulliano spesso si trova la parola latina: p.es. bapt. 13 tinguentes (citazione di Mt. 28, 19); bapt. 14 non … me ad tinguendum Christus misit (citazione di I Cor. 1, 14); de resurrect. 47 in Christum Iesum tincti sumus (citazione di Rm. 6, 3): in tutti e tre i passi le versioni anteriori alla Vulgata hanno baptizare. E ancora cfr. ad Marc. 4, 27, in un passo che non deriva immediatamente dal testo biblico, cur non prius tinctus esset. La fortuna di baptizare è dovuta in parte al contenuto fortemente tecnico del verbo, che designa un’azione e un concetto che non esistono al di fuori del Cristianesimo, e meritano quindi una parola appropriata ed esclusiva (come rileva Agostino, dando prova, come spesso, di un’acuta sensibilità linguistica [27]), e in parte al contenuto negativo che aveva già assunto nel latino pagano tingere, che andava sviluppando in senso sempre più netto il valore di ‘alterare’ (ad esempio nell’espressione tingere nummos ‘falsificare la moneta’) [28]. L’esistenza della coppia di termini e l’accezione negativa percepita in tingere ha dato modo agli scrittori cristiani di attuare un’interessante specializzazione terminologica: con baptizare si indica il battesimo conferito dalla Chiesa, con tingere il battestimo degli eretici: cfr. Cipr., ep. 72 foris extra ecclesiam tincti o 71 ut putent eos, qui apud haereticos tincti sunt, quando ad nos venerint, baptizari non oportere.
Si è parlato finora di fatti lessicali. Ma anche la sintassi merita almeno un accenno. Lo spunto può venire da un esame delle versioni bibliche. In Lc. 18, 14 il greco ha λέγω ὑμῖν, κατέβη οὗτος δεδικαιωμένος εἰς τὸν οἶκον αὐτοῦ παρ᾽ ἐκεῖνον: il secondo termine di paragone è reso sia nell’Itala sia nell’Afra con magis quam ille: nella Vulgata leggiamo invece ab illo, vale a dire un grecismo che a sua volta rappresenta un semitismo sintattico (in ebr. il secondo termine di paragone è introdotto da min, cioè ‘da’ e non si hanno per l’aggettivo differenziazioni formali fra grado positivo e comparativo [29]). L’espressione del secondo termine di paragone in un modo non consueto nel latino classico è quindi più familiare alla lingua del tempo di Gerolamo che alla lingua delle prime versioni bibliche: questo costrutto si trova usato talora nella Vulgata in modo molto ardito, tale da mettere in imbarazzo il lettore che non abbia accesso al testo originale, come in Ps. 4, 7 s. dedisti laetitiam in corde meo, a fructu frumenti (‘più del raccolto di frumento’) et vini et olei sui multiplicati sunt. Ma costruzioni con ab s’incontrano anche al di fuori della versione della Bibbia: basti il rinvio a Aug., serm. 12, 3 melius a daemonibus.
Il patrimonio di parole e di idee che il Cristianesimo tramanda alle età successive fino ai nostri giorni è non solo imponente, ma costitutivo del tessuto stesso della società e della cultura. La risignificazione di molte parole cristiane è l’unica ad aver séguito nelle età successive ed ha valore ancora oggi. Un termine come cāritas appartiene al vocabolario latino più antico, e lo si trova in Catone e poi abbondantemente e con diverse sfumature negli autori dell’ultima età repubblicana, ma il suo uso attuale non sarebbe neppure concepibile al di fuori del significato che l’uso cristiano gli ha conferito. Né si tratta unicamente di vocaboli: spesso la risignificazione della parola che il latino cristiano consegna alle età successive ha la sua origine in una metafora. È il noto caso di follis, che, avendo il significato di ‘pallone’, e più precisamente di ‘sacco gonfio d’aria’, viene usato da Tertulliano col valore di ‘corpo’ (l’involucro dell’anima) [30]: ma l’approdo definitivo al valore attuale si ha nel famoso passaggio di Agostino (serm. 127, 2) adhuc tumes, follis inflatus? Deus est humilis, et tu superbus. Altro noto caso quello di massa. Nei passi delle Lettere di S. Paolo da cui prende avvio il processo che porta al significato attuale la parola ha ancora il suo valore di ‘impasto’: Rom. 11, 16 si delibatio sancta est et massa, et si radix sancta et rami; I Cor. 5, 6 = Gal. 5, 9 modicum fermentum totam massam corrumpit. Estrapolata dal contesto, un’espressione come sancta massa facilmente si reinterpreta nel senso di ‘grande quantità di persone sante’: da qui espressioni che si trovano con frequenza negli autori cristiani come massa paenitentitum (Optat. 2, 26) o conlatis candida massa martyribus (Paol. Nol., carm. 19, 144).
Si realizza così un processo che non ha equivalenti nella storia dell’umanità: una lingua speciale, inizialmente appannaggio di un ristretto gruppo di persone, intrisa di tecnicismi e obbligata a creare una grande quantità di neologismi per la radicale novità delle idee che deve esprimere, diviene in un volgere di tempo relativamente breve la lingua comune, e si appropria in modo inconsueto anche della lingua colta e letteraria già esistente, piegandola naturalmente, senza nessun arbitrio e nessuna forzatura, all’espressione dei concetti cristiani [31].
Osservazioni.
Merita di essere considerato anche il rapporto tra il latino cristiano e altre lingue speciali [32]. La concezione della vita cristiana come militia determina un apporto non indifferente della terminologia militare nel linguaggio cristiano: cfr. sacramentum ‘giuramento del soldato’ (> fr. serment), ma anche ‘sacramento’ nel senso cristiano; statio ‘turno di guardia’, nel linguaggio cristiano ‘luogo di riunione’; desertor è l’apostata. Anche l’uso di paganus proviene probabilmente dalla lingua militare: pagani sono nel linguaggio militare i civili [33], e quindi nell’ambito cristiano indica coloro che non sono ‘combattenti di Cristo’, ‘persone che non hanno prestato il giuramento di fedeltà a Dio e a Cristo’ [34]. Dalle lingue dei mestieri possono provenire termini come eradicatio ‘estirpazione (della miscredenza)’, aedificatio, ecc.