A cura della Redazione
Mentre scriviamo questa nota, la stampa dedica un notevole spazio alla questione del latino: lo spunto è dato da un convegno sulla didattica del latino che si sta per svolgere, in lingua latina, a Napoli. Sotto il titolo (ad effetto) Latino. La lingua morta ci parla il Corriere della Sera del 22 aprile 1998 dedica quasi per intero la prima pagina della sezione Cultura e Spettacoli all’evento. Naturalmente, per doveroso impegno di par condicio, accanto ai pareri entusiastici degli organizzatori sono riportati anche pareri scettici: quello dell’illustre filologo (dell’università di Siena, la stessa di Berlinguer: sarà un caso?) che ritiene preferibile cogliere i contenuti culturali dei testi in traduzione o quello dell’illustre italianista che guarda con un po’ di sufficienza la cultura classica e ne propone una minore diffusione («il greco è da destinarsi soltanto a tipi di studi orientati al mondo antico»: iscriversi a lettere classiche appena finita la scuola dell’obbligo?). Peraltro, affermata la nostra distanza dalla posizione scettica, dobbiamo anche rilevare che neppure la posizione entusiasta ci convince (e lo diciamo col massimo rispetto per gli organizzatori del convegno, alcuni dei quali sono nostri colleghi e amici). Non riteniamo né possibile né produttivo che si insegni il latino come se fosse una lingua viva, e il solo proporlo finisce inevitabilmente per confondere i termini del dibattito e porci in una situazione facilmente (e legittimamente) attaccabile. Una lingua è viva quando esiste una comunità di parlanti nativi che se ne serve per le proprie necessità di comunicazione e quando esiste la possibilità che il patrimonio della lingua (la langue) sia modificato e accresciuto dai singoli atti linguistici dei parlanti: nessuna delle due condizioni ricorre nelle circostanze attuali. Ma dire che il latino e il greco sono lingue morte non significa per nulla sminuirne l’importanza culturale ed educativa.
Vorremmo, tra la posizione scettica e la posizione entusiasta, tentare di proporne un’altra, che oseremmo definire costruttiva.
Nel documento che la Commissione dei saggi nominata dal ministro Berlinguer ha recentemente proposto si afferma tra l’altro che nei saperi di base della futura scuola italiana vanno compresi anche i contenuti della civiltà classica, ponendo l’accento sull’“attualità dei messaggi che queste civiltà contengono”. L’affermazione è stata salutata con interesse, o addirittura entusiasmo, anche da parte di organi di stampa e di personalità del mondo scientifico non allineate con l’attuale ministro, e quindi non impegnate a sottoscrivere, vuoi per dovere d’ufficio vuoi per spirito di adulazione, ogni sua dichiarazione. A noi sembra che molte reazioni abbiano peccato di ingenuità: indubbiamente questa affermazione rappresenta un timido passo avanti, rispetto ai tempi (non lontanissimi) in cui si additava come reazionario chiunque affermasse che queste civiltà avevano dei messaggi da proporre. Ma la portata dell’affermazione citata viene sminuita, e praticamente vanificata, da altre due affermazioni che sono contenute nel medesimo testo: la prima è che la proposta dei messaggi della cultura antica avverrà “indipendentemente dallo studio delle due lingue”, la seconda, che non riguarda soltanto la cultura classica ma tutto l’impianto della scuola italiana, che “è necessario operare un forte alleggerimento dei contenuti disciplinari”. A proposito di quest’ultima affermazione, ci sia consentito in via preliminare di ringraziare pubblicamente il suo estensore e di dargli atto di una meritoria integrità morale: chiunque altro, nel dire che si deve abbassare, e di molto, il livello della scuola italiana, avrebbe almeno tentato di trincerarsi dietro qualche nobile perifrasi: l’estensore del testo invece ce lo dice seza sottintesi, in modo chiaro e onesto. Questi dunque sono i termini del problema.
1. Al di là dell’affermata importanza del mondo classico, siamo avviati verso una sensibile decurtazione: infatti sarà estesa a tutte le scuole la situazione che oggi è realtà nelle scuole che non hanno insegnamento di latino: una presentazione del modo antico operata attraverso una lettura di testi o di documentazione significativa: con la differenza però che oggi è permesso a un’elevata percentuale di studenti di accostarsi in modo più incisivo e maturo a quel mondo attraverso lo studio delle lingue classiche (o quanto meno del latino). Ci sembra inutile ricordare, ancora una volta, che non è possibile uno studio un minimo consapevole di una cultura se non attraverso lo studio della lingua in cui questa si esprime: e ci sembra inutile anche ricordare che momento essenziale e ineliminabile dell’accostamento alle culture antiche è dato dalla lettura dei testi. Lo diciamo egualmente, nell’eventualità (remota per i docenti della materia, ma non per gli esperti ministeriali) che qualcuno si illuda di poter insegnare l’antichità classica navigando fra i CD-ROM e cliccando sui tasti del mouse. Ma anche un’impostazione che privilegiasse eccessivamente l’immagine (monumenti artistici, documentazione archeologica, rappresentazioni teatrali) sulla parola (lettura di testi importanti per il contenuto di arte o di pensiero) darebbe comunque del mondo classico una visione parziale e limitata.
2. L’affermazione ministeriale è in palese contrasto con le più recenti direttive e con gli orientamenti generali di questi ultimi anni, volti a privilegiare sempre e comunque la contemporaneità. La questione non investe solo la storia (con l’impressionante compressione della storia antica in poche lezioni), ma anche altre materie: è inutile, se non disonesto, sbandierare l’importanza del mondo classico, quando è in atto da anni un’eliminazione più o meno tacita dalle scuole dei primi secoli della nostra letteratura: è inutile fare finta di ignorare che in molte scuole lo studio di Dante di fatto è stato eliminato, che tutto ciò che è anteriore diciamo a Foscolo è visto in una prospettiva di remota arcaicità, che a voci di grande interesse e levatura letteraria dei secoli passati sono state sostituite flebili e caduche voci di autori che hanno pochi altri meriti oltre a quello di una data di nascita che inizia per 19. Non insistiamo su questo argomento (si veda il bell’intervento di Cesare Segre sul mensile “Tracce” di gennaio 1998).
In conclusione, chiediamo a chi ha la responsabilità della scuola italiana di operare in modo chiaro e coerente. È inutile affermare l’importanza del mondo classico, quando poi di fatto non si prevedono curricula e programmi nei quali i valori del mondo classico possano essere comunicati e studiati con adeguati strumenti (tra cui fondamentale la conoscenza linguistica). Oseremmo dare un consiglio, quello di essere meno pessimisti: perché partire dall’affermazione di principio che occorre abbassare il livello degli studi? Perché non partire da quei tipi di scuola che meglio in questi ultimi anni, nonostante una politica scolastica spesso sconsiderata, e comunque disorganica, hanno retto e non sono venuti meno alla propria finalità educativa e culturale (per esempio il liceo classico), e tentare di organizzare i curricula di altri ordini scolastici esportando da questi gli aspetti positivi? Ma il vero problema di fondo è: che immagine di uomo, di cittadino, di persona prefiguriamo? Perché è sulla base della risposta a questa domanda che si organizzano poi i cicli e i curricoli, non sulla base di affermazioni ideologiche, che vengono proposte a parole e vanificate nei fatti, al momento delle scelte concrete. Ebbene, noi riteniamo che la risposta sia molto semplice: dobbiamo prefigurare un’immagine di scolaro pienamente consapevole della sua coscienza di uomo, che prenda sul serio sé stesso e che sia richiamato alle sue istanze più autentiche e alla domanda, presente in ogni essere umano, sul significato della vita e del proprio destino, e che sappia interagire con la realtà che lo circonda, il che significa, in maniera molto concreta, che sappia riconoscere nella cultura classica e nel Cristianesimo le linee portanti della sua identità culturale. Una scuola che non lo ponesse nelle condizioni di impegnarsi seriamente nell’acquisizione cosciente di queste due componenti essenziali, di verificarne in modo puntuale (il che significa sui testi) gli aspetti positivi e le testimonianze, è comunque una scuola destinata al fallimento, perché da essa usciranno al massimo studenti, provvisti di un’informazione superficiale, lacunosa e dogmatica, comunque incapace di tradursi in cultura e di aiutare la persona a realizzare pienamente la propria vocazione.