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Editoriale 1988-1

by Mariapina Dragonetti

a cura della Redazione


In un’intervista al quotidiano Il Tempo (l6-4-88) il ministro Galloni, rispondendo a una domanda su come risolvere il nodo del futuro biennio e della sua collocazione tra media inferiore e successivo triennio, avrebbe detto: “So ben io come si risolve questo nodo. Con un biennio che sia scuola autonoma. Né scuola secondaria né scuola media. Lo chiami pure terza fascia dell’obbligo. Avrà magari edifici comuni con le altre scuole, ma come entità culturale indipendente, come postula la sua delicatezza”. Concediamo pure al ministro, almeno entro certi margini, un beneficio del dubbio, sapendo che spesso nelle interviste il pensiero dell’interrogato viene riferito approssimativamente o addirittura travisato, ma la sostanza rimane ugualmente preoccupante. Non ci riferiamo tanto al contenuto delle affermazioni; da un certo punto di vista diremmo che il ministro ha scoperto l’acqua calda, perché da sempre il biennio superiore ha una fisionomia sua specifica sia rispetto alla media  sia rispetto al triennio superiore. Quel che preoccupa è la sicurezza iniziale (“so ben io come si risolve”): abbiamo visto a che cosa ha portato, negli ultimi anni, l’eccessiva sicurezza di vari predecessori di Galloni, che hanno imposto, o tentato d’imporre, con circolari e provvedimenti amministrativi posizioni del tutto personali, che hanno poi prodotto conseguenze nefaste nella scuola.
Nel frattempo, il ministro ha insediato la commissione che dovrà formulare le proposte di riforma del biennio. Non è adeguatamente rappresentativa del parlamento italiano: vi mancano i divi dello spettacolo, i noti calciatori, le fanciulle di dubbia moralità che allietano le aule parlamentari, e questo fa presumere che il modo di lavorare dei commissari sarà meno pittoresco. Dal punto di vista professionale, dubitiamo che i risultati saranno migliori; le persone che, all’interno di questa commissione, hanno una competenza viva e vissuta della scuola si contano sulle dita di una mano, e nessuno di essi ha una competenza specifica nell’ambito delle lettere classiche. La scelta non è dovuta al caso, ma s’inserisce sicuramente in un disegno più ampio, che è poi lo stesso che ha portato nel 1962 alla riforma della media inferiore: livellare verso il basso il biennio superiore.

Di fatto, nonostante l’abbassamento del livello di studi nella media inferiore, alcuni ordini di scuole, e il liceo classico in particolare, hanno mantenuto una loro efficacia didattica ed educativa. Uno studente di terza liceo classico porta tuttora agli esami di maturità un programma di greco dignitoso, che consta di diverse centinaia di versi di tragedia (e nessuno ignora le difficoltà linguistiche, concettuali ed espressive che si devono affrontare per poter leggere una tragedia greca nel testo originale), ampi brani di prosa, argomenti non certo semplici di letteratura dell’età ellenistica, imperiale e spesso cristiana: il tutto dopo cinque anni di studio intenso delle lingue classiche, invece degli otto che si avevano negli anni preriforma. E’ ben vero che è difficile misurare l’efficienza e la produttività di un ordine di studi (e già l’applicazione di queste categorie di giudizio proprie del mondo industriale alla scuola ci lascia molto perplessi), ma basterebbero queste considerazioni per dedurne la bontà. Ancora: basterebbe una buona statistica dell’andamento degli studi universitari, per rilevare come in tutte le facoltà gli studenti usciti dal liceo classico sono proporzionalmente meno esposti alla mortalità scolastica, qualunque sia la facoltà in cui s’iscrivono.

Quale dovrebbe essere il compito di una vera e sana riforma scolastica e quale il dovere di un riformatore? Valutare l’esistente, misurarne gli aspetti positivi e negativi, apportare i necessari correttivi per eliminare, nei limiti delle possibilità umane, questi ultimi, e soprattutto portare ogni ordine di studi ad essere efficace e formativo, in quel che è lo specifico del suo intendimento. La prospettiva in cui ci si è mossi e` esattamente opposta, Si disegnano grandi progetti, che non hanno nessuna possibilità pratica di realizzazione, si ignora testardamente l’esistenza di vocazioni e di opzioni diverse (per cui sarebbe perverso costringere a studiare fino a sedici anni giovani che realisticamente  spenderebbero meglio le loro energie e capacità in un luogo diverso dalla scuola) e si vorrebbe che il ragazzo uscito dall’obbligo fosse un piccolo manager, imbevuto d’informatica e di economia, di quelle cose, cioè, che servono nella “vita vera”.
Non vorremmo parere pessimisti più di tanto. Si tratterà di aspettare qualche anno. Come già osservavamo in un precedente editoriale, altri paesi europei hanno commesso gli stessi errori e ora stanno faticosamente tentando di riparare gli errori commessi. E` vero che errare humanum estperseverare diabolicum, ma non si può pretendere sempre che i nostri interlocutori siano uomini.

Infine, le riforme della scuola passano, i classici restano. Chi dirige questa rivista ha avuto la gioia di vedere un suo allievo vincitore del Certamen Florentinum. Partecipando alla cerimonia della premiazione abbiamo potuto scorgere in tante persone, giovani e meno giovani, studenti e presidi, professori e ispettori, una passione e una convinzione sul valore formativo della cultura classica, che ci ha lasciati profondamente stupiti. Il modo migliore per superare le difficoltà del presente è quello di proseguire il nostro umile lavoro “di base” (per usare un’espressione nata in ambienti che certo non erano teneri verso la cultura classica), con la serietà di chi in modo convinto e gioioso opera su materie ricche di valore educativo e capaci di dare alla persona categorie di affronto per la realtà presente solide e durature. Siamo certi che questa testimonianza umana e scolastica finirà per aver ragione dell’ostilità, dell’indifferenza, dell’ottusità con cui molti guardano la nostra fatica.