a cura della Redazione
Due caratteristiche vorremmo che fossero base ideale del nostro lavoro: la semplicità del metodo e l’umiltà di chi si sente alla ricerca e al servizio delle verità. Ogni cammino di ricerca dovrebbe essere guidato e illuminato dal desiderio e delle speranza di poter avvicinarci ogni volte di un passo fino ed intravedere in uno spiraglio di luce la meta. L’atteggiamento con cui muoverci è quello dell’ascolto: la cultura antica, e gli autori che si fanno voci vive e rappresentative di essa, sono altro da noi, sono una realtà già data che ci interpella, che si sottopone alle nostre domande, ma richiede quanto meno che le nostre domande siano leali, in coerenza con ciò che essa dichiara apertamente di essere. Non ci interesse scoprire verità originali; non pensiamo che le affermazioni rivoluzionarie o provocatorie, che sperano di poter ricavare verità più profonde semplicemente dando un colpo di spugna a interpretazioni più tradizionali, siano utili per avvicinarci di un centimetro alla meta: se si ritiene che le strada già fatta sia ancora molto poca rispetto alla meta da raggiungere, non è ritornando al punto di partenza e tentando un sentiero più impervio che si risolve il problema. Tento meno ci interessa inventare un metodo critico nuovo, che finalmente scopra le manchevolezze di tutti i metodi precedenti e si proponga come unico, vero, scientifico e oggettivo, capace, esso solo, di dare une lettura esauriente del mondo antico o di un autore. Troppa parte della critica attuale basa le sue certezze più sulla asserita bontà del metodo usato che sulla sua reale capacità di capire l’autore: e troppo spesso ci si trova coinvolti in battaglie ideologiche tra sostenitori di metodi diversi, sostenute con metodi e dogmatismi che sono degni di ben altre competizioni. A noi sembra che, più che il metodo critico, sia la personalità di chi lo usa a rendere accettabile o mono un certo criterio di indagine, e metodi diversi possono integrarsi fra di loro e farci scoprire più aspetti di un testo: l’essenziale è comunque il desiderio di capire più profondamente, ]’attenzione alla persona che ci sta davanti, l’onestà di non ridurla alla nostra misura o, peggio, di incasellarla in uno schema prefissato, di farne il campione ante-litteram di modi di pensare moderni. Per quanto polivalente, il discorso dell’arte pone dei limiti oggettivi, al di fuori dei quali certe interpretazioni rispecchiano solo l’arbitrarietà o il preconcetto di chi ascolta sé stesso più che il suo interlocutore.
Per noi, dunque, esiste il dato obbiettivo dal testo (obbiettivo, si intende, al di là delle possibili incertezze di tradizione e dei possibili interventi di natura filologica che ne possono alterare qualche particolare della fisionomia), espressivo di un mondo poetico, di una concezione della vita e dei valori che rendono la vita degna di essere vissuta, mezzo insomma con cui una persona del passato, legata certo alla cultura in cui vive, ma capace anche di una visione più profonda (profetica, oseremmo dire platonicamente) o di una comunicazione più piena, esprime sé stessa, interpellandoci o chiedendo di essere ascoltata.
Se oggi, a distanza di duemila anni esatti dalla morte, riteniamo giunto dedicare parte del nostro tempo e dei nostri studi alla lettura di Vergilio, non è né per un rituale omaggio a una ricorrenza millenaria né per lasciarci trasportare da un passatempo inutile ed ozioso. Neppure ha pesato sulla nostra scelta il fatto che Vergilio abbia uno spazio, nelle nostre scuole, quale nessun altro autore può vantarsi d’avere. Il motivo sta piuttosto nella continue percezione di quanto le personalità poetica di Vergilio, quale essa si dispiega della lettura delle sue tre opere fondamentali, sia ricca di fascino per i valori che ci propone e per il linguaggio con cui sa farceli percepire; comunicazione di valori e capacità espressiva sono i due poli, entrambi necessari, delle creazione artistica: È proprio nell’opera d’arte, diceva già l’anonimo autore Del Sublime, coinvolgere totalmente la personalità del lettore, afferrandolo e scuotendolo con lo stesso vigore del fulmine che precipita del cielo. Studio dei valori e studio del linguaggio sono le due tematiche che abbiamo affrontate nel convegno svoltosi e Milano il 25 aprile: ne riportiamo le relazioni in due sezioni del bollettino.
Ma prima di introdurci alle letture ci sembra utile spendere anche qualche parola sul criterio con cui abbiamo dato forma a questo numero di Zétesis. Parlare di Vergilio, nonostante quanto si è detto finora, comporta oggi per molti critici imbarazzo o difficoltà. Nessuno osa mettere in dubbio il fascino della sua parola poetica: cosi l’Eneide come gli altri due poemi sono parola poetica, e per di più altissima. Vergilio, nella una fortuna bimillenaria, non ha mai subito gli affronti a cui Omero ha dovuto sottostare durante il XVII secolo, quando il confronto coi poemi cavallereschi dell’epoca lo vede perdente per la sua “rozza semplicità“. Nessun dubbio, quindi, sul valore poetico di Vergilio. Eppure se si la lunga storia critica del poema quanto meno negli ultimi secoli, ci si rende subito conto di quanto Vergilio sia lontano dalla nostra temperie culturale. Agli occhi delle tarda antichità e nel Medioevo, fino a Dante, Vergilio è parte integrante della tradizione poetica e culturale italiana ed europea. Non è per ragioni estrinseche che Vergilio rappresenta per Dante il maestro, il lume: non è solo perché egli “mostrò ciò che potea la nostra lingua” o per “il bello stilo” o “il grande studio e il grande amore”. Vergilio rappresentava allora un modello di umanità: nei suoi poemi si trovava l’esperienza umana più completa che mai si fosse espressa artisticamente. Vergilio era la natura, Vergilio aiutava a capire il divino: non era solo maestro di stile, ere la rappresentazione più completa di ciò che l’uomo privo della fede cristiana poteva, nella sua ricerca del vero e nel suo tentativo di porsi in dialogo con la divinità. Col venir meno di questo modo di pensare, fermo rimanendo il fascino poetico, Vergilio veniva a poco a poco spogliato di ciò che egli aveva scritto di più vero. Il suo personaggio prediletto, il “pius Aeneas”, che più di tutti esprimeva l’animus di Vergilio, la sua “pietas”, la sua umanità ricca di partecipazione nei confronti del dolore che pervade le cose (“sunt lacrimae rerum”) si trovava violentemente in balìa dei critici. Anche autori che alla critica letteraria dedicavano studio e ne traevano esperienza e capacità di lettura vedevano nel “pius Aeneas” nient’altro che un personaggio vile, scialbo, incapace di decisioni, e ad Enea venivano preferiti ora Turno, ora Didone, ora personaggi minori che scarso peso dovevano avere nella concezione vergiliana.
I due termini fondamentali dell’Eneide, il termine “pius” e il termine popolo, venivano completamente fraintesi o rigettati dalla critica moderna. Venivano a mancare i presupposti culturali comuni, che sono necessari per instaurare un colloquio con l’autore. L’Eneide (si veda il tentativo di lettura della Prof. Morsia) è la storia dell’uomo che, dal fondo delle disperazione, quando ormai le certezze terrene sembrano totalmente vanificate, e ci si trova completamente soli e privi di tutto di fronte all’ignoto, dopo un attimo di smarrimento capisce, attraverso la lettura di segni che gli vengono offerti, quale sarà il suo destino: egli si sottomette obbedendo a ciò che gli dèi chiedono a lui, e, attraverso una storia (perché l’uomo non è qualcosa di astratto, definito tutto e subito: egli vive in un tempo e attraverso il tempo si fa consapevole della propria identità) di dolori e di sofferenze, capisce che ciò che gli viene chiesto è spesso di rinunciare ai propri desideri, ma ciò che gli viene offerto in cambio è una personalità che si fa via via più matura, più capace di giudizio, sempre più proiettata verso un futuro di speranza. E accanto ad Enea un popolo: pochi uomini disperati all’inizio, che acquistano sempre più consapevolezza di sé, attraverso l’ubbidienza ad Enea e la rilettura del proprio passato e della propria storia, fino a diventare capaci di sostenere l’urto che popolazioni ostili in un territorio straniero tentano di portare contro loro. Al momento della partenza e durante il viaggio, sembra che Enea sia solo, con pochi fedelissimi compagni: nella seconda metà del poema, ci rendiamo conto che accanto a lui e dietro di lui sta un popolo, capace di potenza guerriera e consapevole delle proprie forze, al punto di non cedere neppure durante i naturali momenti di difficoltà e di incertezze, perché sa che dalla parte di Enea stanno elementi certi e sicuri, mentre le vanterie di Turno non sono altro che menzogne, invenzioni dettate da sicumera e dal desiderio di ingannare.
Pietas e popolo sono termini censurati dalla cultura moderna: il rifiuto del senso di dipendenza dall’altro che è proprio di tante teorie e ideologie moderne,la pretesa di giudizio autonomo, di affermazione incontrastata della propria persona, sono termini che hanno inevitabilmente allontanato Vergilio dal nostro mondo spirituale. Questo spiega l’imbarazzo e il procedere q tentoni di molta critica, la necessità di inventare continuamente ipotesi bizzarre per rendere Vergilio più addomesticato: ma comune a molte ipotesi di letture è la parzializzazione dell’autore, il valorizzare uno o più aspetti pur di non essere costretti ad ammettere che punto fondente di una lettura Vergiliana è quanto meno una simpatia con l’atteggiamento di fondamentale religiosità che ha mosso l’autore. E nel parlare comune si è costretti a ricorrere a pochi luoghi comuni che, grazie al cielo, la critica non ha ancora raccolto. E, senza giungere alle conclusioni più stolide, talmente assurde da non meritare neppure replica, come quelle che fanno di Vergilio un antifemminista (fraintendendo il significato del IV libro dell’Eneide)o un collaboratore dell’imperialismo romano (il che, oltre ad usare termini sconosciuti alla cultura antica ignora quale tipo speciale di imperialismo fosse quello romano e volutamente e per principio dimentica quanto di buono abbia operato in senso culturale e amministrativo l’unificazione europea tentata da Roma), ci si limita a dire che Enea è personaggio freddo, privo di passioni, sostanzialmente passivo di fronte agli ordini degli dèi. Perché per noi, eredi del Romanticismo, discriminante fra poetico e non poetico è l’assenza o meno di grandi passioni, di tumulti dell’animo, di atteggiamenti impetuosi, di romanzi di amore e di morte: il santo ha scarso peso nella nostra mentalità, e certo la sua vita non può essere oggetto di poesie; e fare forze a sé stessi, nella rinuncia di sé, nel tentativo di aderire a ciò che altri ti chiede, al disegno che gli dèi hanno su di te, nella sofferenza di ripetere continuamente, come le più alta preghiera cristiena ci insegne, “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”, tutto questo non è per la cultura moderna materia poetica.