Concetti
La questione della formazione dei concetti è stata fondamentale nella gnoseologia greca.
1. Secondo la concezione platonica i concetti preesistono nell’anima e vanno richiamati alla mente con l’aiuto dell’educazione; sono tanto più chiari e precisi quanto più l’anima prima di incarnarsi ha visto il mondo delle idee. Platone pensa cioè che i concetti corrispondano ad entità esistenti nell’iperuranio e che le forme corrispondenti in terra ne siano solo copie imperfette e pertanto differenziate fra loro:
Le anime immortali, quando sono giunte al sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano sopra il dorso del cielo: e l’orbitare del cielo le trae attorno, così librate, ed esse contemplano quanto sta fuori del cielo…In questo luogo (scil. l’iperuranio) dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo dall’intelletto pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigine della vera scienza…Bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal ragionamento. Questa comprensione è reminiscenza (anamnesi) delle verità che una volta l’anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito d’un dio, e dall’alto piegava gli occhi verso quelle cose che ora chiamiamo esistenti, e levava il capo verso ciò che veramente è (Platone, Fedro, 246b-c-d; 249c).
2. Secondo la definizione di Aristotele, il metodo deduttivo è il ragionamento nel quale, poste alcune premesse, deriva da queste, e in forza di queste, necessariamente qualcosa d’altro (Analitici primi, I, 24 b, 18). “Storicamente, la sua genesi s’inquadra nella complessa storia dei problemi logici del pensiero greco, e risponde alla concezione deduttiva o apodittica della conoscenza, che, discendendo da alcune necessarie premesse universali («premesse immediate»), intuite noeticamente dall’intelletto, ne ricava, con analitica necessità, tutte le particolari nozioni implicite. A fondamento della dottrina sillogistica sta, quindi, la concezione dianoetica della conoscenza basata sul giudizio, o nesso predicativo, che collega due noemi, cioè due contenuti ideali unitari e determinati, in una sintesi che asserisce o nega che il secondo sia predicato del primo. Come il giudizio è sintesi di due noemi, così il sillogismo è sintesi di due giudizi: perché sia possibile questa sintesi, è necessario che i due giudizi abbiano un noema in comune. Questo noema assume il nome di «termine medio», perché, mediando tra gli altri due termini, appartenenti ciascuno a uno dei due giudizi, ne rende possibile l’unità nel giudizio conclusivo. In contrapposizione al medio gli altri due noemi assumono il nome di termini estremi, e in antitesi alla conclusione, costituita dal giudizio in cui culmina il sillogismo, i due giudizi che lo condizionano vengono chiamati premesse. Il principio della deduzione sillogistica è costituito dal fatto che, essendo affermato dalle premesse che il primo termine è implicito, positivamente o negativamente, nel secondo e il secondo nel terzo, risulta necessariamente che il primo è implicito nel terzo”(da “Dizionario di filosofia” Treccani s.v.)
Citiamo da Aristotele:
Principio di tutto è l’essenza: dall’essenza, infatti, partono i sillogismi (Metafisica VII, 9, 1034a, 30-31).
La sensazione in atto ha per oggetto cose particolari, mentre la scienza ha per oggetto gli universali e questi sono, in certo senso, nell’anima stessa. (De anima)
Aristotele cioè, pur non partendo dalla concezione platonica della preesistenza e preconoscenza delle idee, pone alla base del ragionamento deduttivo (l’unico valido, dato che l’induzione non fa scienza ma può solo avere una funzione propedeutica) un’intuizione dell’anima sulle essenze, senza della quale sarebbero impossibili le premesse maggiori dei sillogismi.
Nel mondo pagano è diffusa l’idea di una prenozione di Dio e l’idea di una prenozione di legge:
Gli dèi esistono: evidente è la loro conoscenza (Epicuro, ep. a Men. 123)
Non son d’ieri né d’oggi (scil. le leggi), ma da sempre/ vivono: e quando diedero di sé/ rivelazione è ignoto (Soph. Antigone, vv. 456-7).
Traiamo inizio da quella somma legge che è nata tutti i secoli prima che sia stata scritta ogni legge o sia stata formata ogni società (Cic. Leg.I, 6, 19).
Cfr. lo stoico Crisippo: Tutte le leggi si nutrono dell’unica legge divina.
Anche in matematica gli assiomi euclidei sono delle evidenze da cui tutto il resto deriva per deduzione.
3. L’induzione parte dall’esperienza dei casi particolari per giungere a certezze provvisorie in ambito scientifico. Si esclude una prenozione. Come si è visto, Aristotele non considera l’induzione fonte di conoscenza: cfr. Analitici secondi II, 7, 92a-92b.
4. L’illazione comporta l’utilizzo di segni e indizi da interpretare per giungere ad una certezza morale: è tipica della storiografia, della filologia, dell’indagine poliziesca, della teologia non rivelata.
Egli ha voluto che gli uomini cercassero Dio e si sforzassero di trovarlo, come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi (Atti, 17)
Ma Epicuro contrappone prenozione a illazione riguardo agli dèi: le dichiarazioni della massa sugli dèi non sono prenozioni ma supposizioni. (ep. Men. 124).
Tucidide d’Atene ha narrato la guerra tra i Peloponnesiaci e gli Ateniesi, come combatterono fra loro, avendo cominciato subito, sin dal suo inizio, e avendo previsto che sarebbe stata grave e la più degna di memoria tra le precedenti. Lo ricavava dal fatto che i due popoli vi si apprestavano all’epoca della loro massima potenza e con una preparazione completa, e che il resto delle genti greche si schierava o con gli uni o con gli altri, alcuni subito, altri meditando di farlo… Infatti gli avvenimenti che precedettero il conflitto e quelli ancor più remoti era impossibile studiarli in modo attendibile, per la grande distanza cronologica: ma sulla base degli indizi cui io – che li ho osservati per molto tempo – sento di poter prestare fede, ritengo che non siano stati notevoli né sotto il profilo militare né per altri aspetti. (Thuk. Storie, Proemio).
E quanto a ciò che dissero in discorsi o prima di combattere o già nel conflitto, era difficile ricordare l’esatta precisione delle cose dette sia per me riguardo a ciò che ho personalmente udito sia per quelli che mi riferivano da qualche altro luogo; dunque ho riportato come mi sembrava che ciascuno dovesse aver detto riguardo alle diverse situazioni, attenendomi il più possibile al complessivo senso di ciò che è stato veramente detto. I fatti poi avvenuti in guerra ho deciso di scriverli non informandomi dal primo venuto né come sembrava a me, ma ho riferito quelli a cui sono stato presente e ho indagato con la maggior attenzione possibile su quelli riferiti da altri. Risultava difficile perché i presenti a ciascun fatto non dicevano le stesse cose sugli stessi eventi, ma dipendeva dalla simpatia per gli uni o per gli altri e dalla memoria. (I, 22)
5. La definizione è così è spiegata dall’enciclopedia Treccani s.v.: L’analisi e la determinazione del contenuto di un concetto, espresse in un giudizio in cui il soggetto è il concetto da definire e il predicato è costituito dal complesso dei termini che nel loro insieme lo definiscono: d. reale, soprattutto nella filosofia scolastica, quella che ha per oggetto una cosa e ne spiega in parole l’essenza; d. nominale, quella che si limita a spiegare il significato di un nome. In contrapposizione a descrizione (che è un elenco di caratteristiche e proprietà dell’oggetto da definire, talvolta anche accidentali), la d. vera e propria, secondo la tradizione aristotelica (d. per genere prossimo e differenza specifica), è quella che individua una più vasta classe di enti (genere prossimo) entro la quale si trova la sottoclasse degli oggetti da definire, rilevando poi la o le restanti caratteristiche peculiari dell’oggetto che si vuol definire (differenza specifica): per es., «l’uomo è un animale [genere prossimo] razionale [differenza specifica]».
Vedi più oltre il verbo horizo e gli esempi relativi.
Ma per molti concetti è discussa la possibilità oggettiva della definizione, soprattutto in ambito poetico, in cui spesso la personale definizione è contrapposta a quelli di altri con la tecnica del Priamel. Esempio per la definizione di bello: Alcuni dicono che la cosa più bella sia una schiera di cavalieri, altri di navi, altri di fanti, io invece ciò che uno ama (Saffo 16 V); di areté (la maggiore qualità dell’uomo maschio): Non ricorderei né terrei in conto un uomo né per areté di podista né di lottatore, né se avesse la grandezza e la forza dei Ciclopi e vincesse nella corsa il tracio Borea, né se fosse più grazioso d’aspetto di Titono, e più ricco di Mida e di Cinira, né se avesse più potere regale di Pelope tantalide, e avesse una lingua più dolce di Adrasto, né se avesse tutta la fama tranne l’impetuoso coraggio. (Tirteo fr.9 D, vv. 1-9); di felicità (olbos): integro, senza malattie, immune da dolori, dai bei figli, di bell’aspetto; se oltre a ciò finirà bene la vita, questo è colui che tu chiedi, chi è giusto chiamare felice; ma prima che muoia bisogna attendere e chiamarlo non felice ma fortunato (Erodoto, I, 32, 6-7); di virtus (la qualità dell’uomo maschio in latino): La virtus, o Albino, è essere capaci di pagare il giusto prezzo alle cose fra cui ci aggiriamo, fra cui siamo; la virtus sapere per l’uomo che valore abbia ogni cosa, che cosa per l’uomo sia giusto, che cosa utile, onorevole, quali cose siano buone, quali cattive, che cosa sia inutile, vergognoso, disonorevole; virtus sapere il limite e la misura del guadagno, virtus poter dare il giusto prezzo al denaro, virtus dare all’onore ciò che veramente gli spetta, essere nemico e avversario degli uomini e dei costumi malvagi, al contrario difensore di quelli buoni, questi stimare, a questi voler bene, con questi vivere da amico; inoltre mettere al primo posto l’interesse della patria, poi dei genitori, per terzo e ultimo il nostro (Lucilio). La definizione di oratore che risale a Catone il Censore e viene ripresa da Cicerone e Quintiliano, vir bonus dicendi peritus (uomo buono esperto del parlare), nella sua apparente semplicità si inserisce nella secolare polemica fra definizioni incentrate sulla insegnabilità dell’arte retorica e definizioni che privilegiano l’idea di una predisposizione naturale o un’ispirazione divina (idee assenti dalla definizione catoniana), e fra definizioni che privilegiano nella formazione dell’oratore l’educazione integrale dell’uomo e definizioni per cui l’abilità retorica prescinde totalmente dal vero e dal giusto per puntare sul’abilità e il successo.
Le parole del dire
1. Dalla radice (w)eku-/(w)oku– provengono in latino il verbo voco ‘chiamare’, il sostantivo vox ‘voce’ e il sostantivo vocabulum ‘vocabolo, nome’: in greco il sostantivo ops ‘voce’, il sostantivo epos ‘parola’ (ma anche ‘poema’), e alcune forme del verbo del dire (aoristo eipon ‘dissi’). La radice esprime quindi un polisenso: voce umana ma anche animale, divina, strumentale, parola ma anche poesia, dire ma anche dare il nome.
Ad esempio in questo frammento di Alcmane, importante anche per l’idea di creazione poetica come imitazione:
Parole e musica trovò Alcmane
componendo in forma linguistica la vocedelle pernici (39 PGM)
Parole è (all’accusativo plurale) epos, voce (all’accusativo) ops: i due termini corradicali mostrano una forte distanza, fra la voce animale e le parole della lirica: però è sentita una derivazione creativa, anche se è incerta la comprensione della derivazione etimologica.
Nel frammento incontriamo (seppure in un punto controverso testualmente) un verbo formato su glossa “lingua come espressione di uomini”. E’ al participio predicativo dell’oggetto voce: “trasformata in lingua, in forma linguistica”. L’opposizione fra glossa e ops è qui chiara.
2. Dalla radice deik’-/dik’- il verbo latino dico: il suo senso è chiarito dal corradicale greco deíknymi ‘indicare, dimostrare’, quindi il dire è sentito come un chiarimento, un’indicazione.
3. Dalla radice bhā- il greco femì ‘dire, definire’ il latino fari ‘dire’ connesso con fatum ‘la parola del destino’ e fabula ‘parola, favola, fiaba, opera teatrale in quanto parlata’. Quindi l’enfasi è sulla parola pronunciata, enunciata.
4. Dalla radice leg-/log– il più importante verbo del dire greco, lego, e il più importante sostantivo, logos, nel suo significato più rilevante il pensiero/parola, cioè il concetto già presente nella mente prima di essere formulato a voce. Aristotele lo contrappone a phoné (voce): La natura non fa niente a caso, come diciamo: e solo l’uomo fra gli esseri viventi ha il logos. Ora, la phoné esprime il dolore e il piacere, perciò anche gli altri esseri la possiedono: infatti la loro natura giunge fino ad avere e comunicare reciprocamente la sensazione di dolore e piacere; invece il logos serve per segnalare ciò che giova e ciò che danneggia, quindi anche il giusto e l’ingiusto: questo infatti è proprio degli uomini rispetto agli altri esseri, l’avere lui solo il senso del buono e del cattivo e del giusto e dell’ingiusto e delle altre cose; e la messa in comune di queste crea la casa e la città. Si potrebbe fare un riferimento alla contrapposizione glossa/ops di Alcmane; ma la questione più interessante del testo aristotelico è posto dalla parola koinonía, che significa sia messa in comune, sia comunanza: la società, nel suo embrione di famiglia o nella sua più ampia realtà di stato, si forma per la comunicazione linguistica o esiste per l’uguaglianza linguistica?
Logos è anche ragione: cfr. la coppia noerà kaì logikà, gli esseri dotati di mente (nus) e di ragione (logos). Nella retorica logos è il discorso politico o giudiziario, nella storiografia il racconto o il settore di un’opera dedicato ad un personaggio o un episodio. In Platone e nel linguaggio teologico significa anche essenza, caratteristica di un essere: Nessuno avrà scrupoli ad affermare che questa (scil. l’immortalità) è l’ousía e il logos dell’anima (Pl. Fedro 245 e) dove ousìa (tradotto abitualmente con essenza) e logos sono una coppia sinonimica; Sono illuminati in modo appropriato (scil. gli angeli) sulle essenze degli esseri (Dion. Areop. Div. Nom. 144).
Nel prologo giovanneo Logos è la seconda persona della Trinità, il pensiero creatore.
5. Dalla radice (w)er- alcune forme verbali greche del dire (futuro erò), presenti eromai ed eiromai ‘chiedere’, sostantivo réma, termine lessicale anche nel senso grammaticale di “verbo”, sostantivo rétor oratore, dalla fine del secolo V a.C. uomo politico come professionista della parola. Con ampliamento il latino verbum, parola nel senso di termine del lessico; nel caso sia contrapposto a vocabulum, “verbo” in senso grammaticale contro “sostantivo”.
La Vulgata l’utilizza per tradurre Logos, la seconda persona della Trinità.
6. Lat. nomen, di etimologia incerta perché il legame con (g)nosco sembra escluso, indica il nome comune o proprio di qualcosa o qualcuno. In greco onoma, probabilmente corradicale.
7. Latino oro con derivati orator, oratio, ecc. indica il parlare solenne, mirato, davanti a dio o agli uomini. Etimologia incerta, gli antichi lo collegavano ad os, oris (bocca). Nell’uso ciceroniano opus oratorium assume però anche il significato di opera letteraria (scritta) e orator il senso di scrittore.
8. Greco mythos: parola, racconto, favola morale, il soggetto di un’opera.
9. Greco ainos: parola efficace, con uno scopo, quindi esortazione, lode, favola morale.
10. Latino loquor, il parlare comune, senza enfasi. Ma il composto eloquor, con i derivati eloquentia, elocutio appartiene al lessico dell’oratoria: elocutio in particolare è la modalità espressiva, lo stile (il terzo punto della formazione dell’orazione).
11. Greco horizo: è il verbo della definizione, da horos confine. Es. Definiremmo correttamente definendo giusti i sapienti? (Senofonte, Mem. 4, 6, 6); e più precisamente dall’idea di confine: Senza dubbio, o Socrate, buona è la tua definizione, il tuo porre il bello entro i termini di piacere e di bene (Plat. Gorgia 475).
12. Greco frazo: indicare, rivelare. Al medio, dall’idea di “rivelare a se stesso” passa al senso di ‘riflettere, escogitare’, ecc.
Sul rapporto fra segno e significato
Nel mondo grecoromano è presente uno sforzo di far corrispondere parola/cosa, nome/persona. I tentativi denotano un’idea di derivazione programmatica della parola dalla cosa indicata (del significante dal significato), ma sono generalmente ingenui e forzati, anche per le insufficienti conoscenze delle etimologie indeuropee e dei rapporti fra le lingue. Un esempio è la presunta derivazione oro ab ore (bocca) di cui si è detto.
Altri esempi:
Faenerator (usuraio) viene da faenus (usura) che a sua volta viene da fetus (parto) e per così dire da una certa riproduzione del capitale che genera altro denaro e cresce (Varrone fr.18);
Gli antichi artefici dei nomi non considerarono il delirio dell’esaltazione né vergognoso né spregevole, perché altrimenti non avrebbero collegato questo nome con l’arte bellissima per la quale si conosce il futuro, chiamandola esaltazione profetica (manica)… I moderni … inserendovi una T la chiamarono “mantica” (Plat. Fedro, 244bc): nel proclamare il valore della follia d’origine divina Platone afferma che il nome originario dell’arte divinatoria derivasse da mania (follia) e che i moderni abbiano frainteso l’origine intenzionale del nome.
Sui nomi propri: Aiace: Ai ai! Chi avrebbe mai creduto che il mio nome sarebbe stato così corrispondente ai miei mali? (Sofocle, Aiace, v. 430 seg.); Menzognero è il nome con cui ti chiamano le divinità, Prometeo: hai bisogno tu di un preveggente (Eschilo, Prometeo, vv. 85 seg.): l’interpretazione tradizionale del nome del titano era “che conosce prima”, qui considerata una scelta sbagliata da parte degli dèi; su questa etimologia fu costruito il nome del fratello ingenuo, Epimeteo (“che conosce dopo”). “Autolico, tu stesso trova il nome da porre al figlio di tua figlia: l’hai molto desiderato” Le rispose Autolico e disse: “ Genero e figlia, ponetegli il nome che vi dico: io sono giunto qui odiando molti, uomini e donne, sulla terra feconda: sia a lui il nome Odisseo” (Omero, Odissea, XIX, vv.403 segg.). Un altro esempio è il nome di Pandora, all’origine un’ipostasi della dea della terra, da cui il nome “che dà tutti i doni”, ma in Esiodo il nome è reinterpretato come “colei a cui tutti danno doni” per adattarlo alla sua lettura del mito.
L’etimologia fra scienza e opinione
Interessante comunque il progetto di ricerca dell’origine delle parole nel De lingua latina di Varrone. Come spiega l’autore, l’indagine si rivolge soprattutto alle parole di uso comune ma non immediatamente evidenti quanto all’origine, dando la preferenza alle parole ancora in uso, ma senza tralasciare del tutto quelle cadute in disuso. Tutte rientrano nel cosiddetto terzo livello di spiegazione, mentre poca importanza ha la spiegazione delle parole immediatamente chiare o delle creazioni poetiche. L’ultimo livello (le parole più arcane) è solo per iniziati e difficilmente raggiungibile. Si veda III, fr. 7-10:
7. Nunc singulorum verborum origines expediam, quorum quattuor explanandi gradus. Infimus quo populus etiam venit: quis enim non videt unde argentifodinae et viocurus? Secundus quo grammatica escendit antiqua, quae ostendit, quemadmodum quodque poeta finxerit verbum, quod confinxerit, quod declinarit; hic Pacuvi: Rudentum sibilus, hic: Incurvicervicum pecus, hic:Clamide clupeat bracchium.“
Ora tratterò l’origine delle singole parole, di cui quattro sono i livelli di spiegazione. Il più basso è quello a cui arriva anche il popolo: infatti chi non vede da dove provengono argentifodinae (miniere d’argento) e viocurus (curatore di strade)? Il secondo dove sale l’antica grammatica, che mostra come il poeta abbia foggiato ciascuna parola, quale abbia inventato, quale abbia modificato. Così Pacuvio: Il sibilo delle corde / il bestiame dalla testa curva (in una parola) / fa scudo della clamide al braccio (metafora)”
8. Tertius gradus, quo philosophia ascendens pervenit atque ea quae in consuetudine communi essent aperire coepit, ut a quo dictum esset oppidum, vicus, via. Quartus, ubi est adytum et initia regis: quo si non perveniam ad scientiam, at opinionem aucupabor, quod etiam in salute nostra nonnunquam facit cum aegrotamus medicus.
“Il terzo livello, dove è giunta salendo la filosofia e ha cominciato a svelare ciò che era di uso comune, come da dove è derivato oppidum vicus, via. Il quarto dov’è il recesso e la soglia del re: in esso se non arriverò alla scienza, almeno andrò in cerca dell’opinione, cosa che anche nella nostra salute va talvolta il medico quando siamo malati.”
9. Quodsi summum gradum non attigero, tamen secundum praeteribo, quod non solum ad Aristophanis lucernam, sed etiam ad Cleanthis lucubravi. Volui praeterire eos, qui poetarum modo verba ut sint ficta expediunt. Non enim videbatur consentaneum quaerere me in eo verbo quod finxisset Ennius causam, neglegere quod ante rex Latinus finxisset, cum poeticis multis verbis magis delecter quam utar, antiquis magis utar quam delecter. An non potius mea verba illa quae hereditate a Romulo rege venerunt quam quae a poeta Livio relicta?
“Se poi non toccherò il livello massimo, tuttavia tralascerò il secondo, cosa che ho compreso alla luce non solo di Aristofane, ma anche di Cleante. Ho voluto tralasciare quelli che spiegano come sono state foggiate le parole a modo dei poeti. Infatti non sembrava adatto indagare la causa di quella parola che aveva foggiato Ennio, e trascurare ciò che prima aveva foggiato il re Latino, poiché delle parole poetiche ho più diletto che uso, di quelle arcaiche più uso che diletto. O non sono mie quelle parole che giunsero per eredità dal re Romolo più di quelle lasciate dal poeta Livio?”
10. Igitur quoniam in haec sunt tripertita verba, quae sunt aut nostra aut aliena aut oblivia, de nostris dicam cur sint, de alienis unde sint, de obliviis relinquam: quorum partim quid tamen invenerim aut opiner scribam.
“Dunque poiché le parole sono divise in tre gruppi, o nostre o straniere o dimenticate, delle nostre dirò perché sono, delle straniere da dove provengono, sulle dimenticate lascerò perdere. Tuttavia in parte scriverò che cosa di queste ho trovato o ritengo.”
L’uso come norma
Un testo interessante è Orazio, Ars Poetica, 46 segg.:
Nell’intrecciare parole ti esprimerai egregiamente con cautela e misura se un’abile collegamento renderà nuova una parola nota. Se per caso è inevitabile esprimere realtà sconosciute con segni nuovi, toccherà foggiare parole mai udite al tempo dei Cetegi succinti, e si concederà il permesso preso con moderazione; e parole nuove e di recente formazione godranno di prestigio se verranno da fonte greca, appena modificata. Perché poi i Romani concederanno a Cecilio e Plauto quello che tolgono a Virgilio e Vario? Perché io, se posso aggiungere parole nuove, ne sono impedito, quando la lingua di Catone ed Ennio ha arricchito la lingua patria e prodotto nuovi nomi di cose? È stato lecito e sempre lo sarà produrre un nome contrassegnato da un nuovo conio… Molti vocaboli che ormai sono decaduti rinasceranno, e molti che ora sono in onore cadranno, se lo vorrà!
La polisemìa e lo spostamento semantico nel tempo
Si è già vista la polisemia di gr.logos. Un altro esempio in greco è nomos, che significa sia “usanza” sia “legge positiva”: è interessante che nomos sia la parola chiave delle Storie di Erodoto, la prima opera storiografica dell’occidente: nella prima metà dell’opera è utilizzata nel senso di usanza osservata in ciascun popolo e valorizzata come caratteristica da rispettare, nella seconda metà nel senso di legge, che contraddistingue i Greci rispetto ai Persiani, sottoposti ad un potere tirannico, e costituisce il baluardo dell’unità di popolo. Notiamo del resto che anche in età moderna legge ha due diversi sensi, a seconda che sia considerata in ambito etico/giuridico o in ambito scientifico.
Un esempio di spostamento semantico si ha nella nascita del greco e del latino cristiani. Nuovamente rimando a logos e verbum. Altri esempi: gr. cháris e lat. gratia (“favore, prestigio, gratitudine” anche personificato nelle tre dee) assumono nel greco cristiano il senso di “grazia” come dono divino; gr. agápe (“affetto, preferenza”) e lat. caritas (“affetto come valorizzazione”) acquistano il senso di “amore fra fratelli nella comune fede”. Notiamo come il gr.chàris abbia provocato il comunissimo errore di scrivere charitas invece di caritas.
Teoria e prassi
Cicerone ha dato ragione delle sue traduzioni da oratori greci:
Io li ho resi comportandomi non da traduttore (interpres) ma da scrittore (orator), rispettandone le frasi, con le figure di parole o di pensieri, servendomi tuttavia di termini adatti alle nostre abitudini latine. Non ho quindi ritenuto necessario rendere una parola con una parola (verbum de verbo reddere); e tuttavia ho conservato intatto il significato essenziale ed il valore di tutte le parole…non il loro numero, ma per così dire il loro peso (non enumerare sed tamquam adpendere).
Contro la traduzione verbum de verbo anche Evagro, traduttore in latino della Vita di sant’Antonio: Se la traduzione da una lingua all’altra viene fatta letteralmente nasconde il significato del testo. E S.Gerolamo, il traduttore latino della Bibbia, nella Lettera a Pammachio: Non verbum de verbo ma sensum exprimere de sensu.
Come si è visto, “tradurre” corrisponde in Cicerone e Gerolamo a verbi come reddere ed exprimere in cui non è evidente l’idea del mutamento linguistico; Cicerone usa anche explicare, rendere chiaro, evidente. Meno usate parole che implicano un deciso spostamento, come vertere (lett. voltare) o transferre, traducere, cioè “trasportare, trasferire”, o il sostantivo interpres (rifiutato da Cicerone) che indica chiaramente “chi compie un passaggio fra (inter)”. Vertere (propriamente vortere) è usato da Plauto per indicare il suo lavoro di “traduttore” di commedie greche: paradossalmente proprio un’attività che comporta rielaborazione creativa è definita con il verbo più tecnico: nei prologhi la commedia è citata col nome dell’autore greco, seguito modestamente da espressioni tipo Plautus vortit barbare (ha tradotto in latino, lingua barbara rispetto al greco). Purtroppo la quasi totale perdita dei modelli greci ci rende difficile capire in che modo esattamente Plauto vortit. E’ invece possibile vedere la traduzione dell’Odissea fatta dal primo autore della letteratura latina, un greco bilingue di nome Livio Andronico (III sec. a.C.). Giuntaci solo in frammenti, presenta tuttavia elementi metodologici interessanti perché il testo greco è conosciuto. Anzitutto la traduzione comporta un diverso metro, il saturnio nazionale italico invece dell’esametro; è un metro più breve, quindi la corrispondenza verso per verso non è praticabile e vanno rispettate le diverse regole metriche (per noi non chiarissime). Così risulta il primo verso e il primo dell’originale fino alla dieresi bucolica (la pausa dopo il IV piede)
Virum mihi, Camena, insece versutum
L’uomo a me, Camena, racconta astuto
Andra moi ennepe Moysa polytropon…
L’uomo a me racconta, Musa, astuto…
Si può vedere lo sforzo del traduttore latino, particolarmente trattandosi dell’incipit, in cui il poeta pone tema e invocazione. Le prime due parole si corrispondono; la dea invocata non è la Musa, ignota ai Romani del tempo, ma una divinità agreste il cui nome però poteva richiamare carmen (“poesia”); l’imperativo (“racconta”), solo scambiato di posto con la divinità, ha una straordinaria corrispondenza etimologica con l’originale greco, forse ignota allo stesso traduttore (in/en + radice (s)eku–); il latino, meno duttile del greco, non è ancora in grado di creare composti, quindi poly-tropon (dai molti rivolgimenti, quindi astuto) diviene versutum (connesso con verto, corrispondente come senso alla radice greca trep-/trop-). Si potrebbe anche dire che l’esito migliora l’originale, perché il verso breve è completo in se stesso, mentre l’originale deve proseguire con un réjet (hos mala pollà “che moltissime…”). Dove è meno necessaria la fedeltà alla lettera del testo prevale il desiderio di rendersi più comprensibile ai lettori romani (termini adatti alle nostre abitudini latine dirà Cicerone, come si è visto). Ad esempio dove Omero usa l’immagine comune in greco sciogliersi le ginocchia per indicare l’improvvisa paura Andronico traduce cor frixit prae pavore (“il cuore si ghiacciò per la paura”) con un’immagine più consueta per i Romani. Oppure, dove ricorre nuovamente la Musa, traduce Monetas (genitivo) filia, utilizzando una divinità romana corrispondente alla dea greca della memoria, madre delle Muse.
Situazioni particolari
Una situazione particolare ha origine quando un intero settore del sapere deve essere trasferito in una nuova realtà di popolo che non ne possiede né i termini né i concetti. E’ il caso dell’introduzione in Roma della filosofia greca. Sia Cicerone sia Lucrezio sia più tardi Seneca si troveranno di fronte al problema: Non mi sfugge che sia difficile chiarire in versi latini le oscure scoperte dei Greci, soprattutto perché bisogna trattare molte cose con parole nuove per la povertà della lingua latina e la novità dell’argomento (Lucrezio, I, vv. 136 segg.). Gli autori utilizzano dunque prestiti o perifrasi: ad esempio l’atomo democriteo/epicureo (etimologicamente “indivisibile”) viene trasferito come atomos (alla greca) o atomus (declinato alla latina), ma più spesso reso con perifrasi quali corpora individua, rerum primordia, semina omnium rerum, che esprimono il concetto globale ma non il valore etimologico del termine. La stessa parola per filosofia è introdotta come prestito (philosophia) o resa con sapientia eliminando la prima parte della parola greca (“amore per – la sapienza”). La parola chiave della filosofia epicurea hedoné (“piacere”) è stabilmente tradotta con voluptas, ma mentre hedoné ha il corrispondente aggettivo hedys, voluptas non possiede un aggettivo corradicale, per cui è forzato ad assumerne il ruolo l’aggettivo suavis: vedi il Proemio del II libro di Lucrezio, costruito sull’anafora di suave.
Un altro settore è quello della retorica. In Grecia si distinguono tre generi di oratoria. I retori romani li traducono così: genere symbouleutikòn (dal verbo che significa consigliare, consigliarsi: è il genere dell’oratoria politica) diviene deliberativum; epideiktikòn (dal verbo che significa mostrare: è il genere più simile a quello delle nostre conferenze) diviene demonstrativum; genere dikanikòn (l’oratoria dei processi: dike è la giustizia) diviene iudiciale. In particolare Cicerone nelle opere retoriche fa continuamente riferimento ai corrispondenti termini greci: es. Ornari orationem Graeci putant si verborum mutationibus utantur quos appellant tropous et sententiarum orationisque formis quae vocant schémata (Brutus17).
Un altro ambito difficile da tradurre è quello politico/militare, che utilizza un linguaggio tecnico. Qui il problema è stato nei due sensi, dei Greci che parlano di vicende romane e dei Romani che parlano di vicende greche. Esempi: lat. consul tradotto con hypatos (lett. “il più alto”) da Polibio in avanti (indica anche il proconsole o l’exconsole); praetor tradotto con strategòs (lett. “comandante militare”, in Atene carica di “stratego”) da Polibio in poi (indica anche il capo della polizia nelle colonie); senatus tradotto con bulé (in Atene è il consiglio dei 500) in diversi autori. D’altro canto la carica ufficiale ateniese di strategòs è tradotta abitualmente in latino praetor (es. da Cornelio Nepote) ma anche dux o imperator; tuttavia ad esempio Cicerone nel parlare di Pericle “primo stratego” ne riconosce la funzione soprattutto civile e lo definisce princeps concilii).
Il soprannome ufficiale di Ottaviano Augustus (dalla radice di augeo “faccio crescere” nel senso sia attivo di “colui che giova” sia intransitivo di “elevato, potente”) è tradotto ufficialmente Sebastòs (lett. “Venerabile”), mentre Imperator (termine già repubblicano per designare il comandante militare) è tradotto Aytokràtor (lett. “Che ha potere da se stesso”): due traduzioni che in realtà non “traducono”.
Nel NT troviamo ad esempio basilikòs (lett. “regio” ma qui “funzionario imperiale”) tradotto nella Vulgata con centurio, “centurione” (un ufficiale dell’esercito romano): o forse centurio era la parola tecnica originaria, e l’autore neotestamentario l’ha tradotta in greco a suo modo.
Quando la traduzione acquista vita propria
Parto nuovamente dal passaggio logos-verbum nella traduzione della Vulgata. La parola latina, già di per sé poco appropriata in quanto riduttiva rispetto all’originale greco, resta come una sorta di prestito nella traduzione ufficiale italiana, benché la parola verbo in italiano abbia unicamente senso morfologico. Tuttavia Verbo acquista una vita propria, come fosse un termine totalmente nuovo, di senso preciso: la seconda persona della Trinità; e di conseguenza nel parlare comune verbo ha assunto il senso, spesso ironico, di “parola significativa, autorevole”.
Un altro esempio è la traduzione che I. Pindemonte ha dato dell’omerico mnestéres nell’Odissea: il termine proci nel senso di “aspiranti al matrimonio, pretendenti”, un latinismo già disusato al tempo del traduttore (rad. di precor “pregare, chiedere”), è entrato nella comune conoscenza attraverso la scuola, anche se riteniamo che i più ne ignorino il senso e suppongano indichi un popolo o una classe sociale; ma tant’è: i pretendenti di Penelope sono i Proci, qualunque cosa significhi questa parola.
Dalla traduzione all’imitazione
Uno dei canoni estetici fondamentali del mondo grecoromano è l’imitazione, sia intesa come omaggio ad un artista riconosciuto autorevole, sia come indicazione della propria cultura. Anche quando la poetica punta sull’originalità (ad esempio nell’Ellenismo) l’imitazione serve a svelare il “poeta dotto”, pur se alterata nel significato ultimo o addirittura ripresa in modo polemico.
Un paio di esempi:
1. Da Catullo a Virgilio (c. 64 ~ IV libro dell’Eneide):
At non haec quondam blanda promissa dedistι
voce mihi, non haec miserae sperare iubebas,
sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos (Arianna abbandonata da Teseo)
Per ego has lacrimas dextramque tuam te
(quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui)
per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,… (Didone a Enea che ha deciso di partire)
2. Da Archiloco poeta arcaico a Filita caposcuola ellenistico:
eimì d’ egò therapòn mèn Enyalioio ànaktos
kaì Moyséon eratòn dòron epistàmenos
(il frammento d’Archiloco è sua volta imitazione di un passo omerico:
eimì d’egò thugàter megalétoros Alkinòio (“sono figlia del magnanimo Alcinoo”)
ma ha la funzione di sfraghìs, “sigillo”, cioè di autopresentazione, di dichiarazione di priorità e concezione poetica: anzitutto un soldato “servo del signore Enialio – epiteto di Ares” poi poeta perché “conosco l’amabile dono delle Muse”)
all’epéon eidòs kòsmon kaì pollà moghésas
muthon pantòion oimon epistàmenos
Filita compone un distico con lo stesso metro (esametro e pentametro), stesso ritmo quindi, stessa parola finale, per proporre il cambiamento di poetica: si è poeti per aver studiato:
ma so l’ordine delle parole e dopo aver molto faticato
conosco la storia di svariati miti.