L’idea che muove questa serie di note è quella di riprendere e verificare una tematica che in più occasioni ha attratto la nostra attenzione: l’idea cioè che si debba cercare nelle pagine della letteratura greca il punto di partenza della nostra letteratura europea e occidentale. Con una precisazione, però: mentre tra l’esperienza letteraria e artistica dell’antica Roma e la nostra è sempre stata percepita una continuità mai interrotta, la letteratura greca, anche nelle epoche in cui ha saputo suscitare in modo più vivace e produttivo fermenti e spunti di ripresa, è sempre stata sentita come qualcosa di diverso: Virgilio è un poeta nostro, anzi la “nostra maggior Musa”, mentre Omero, pur considerato il padre dei poeti tutti, si situa in una zona culturale diversa e in una prospettiva di lontananza remota. Tentiamo di verificare quest’ipotesi con una panoramica sulla poesia pastorale. La tradizione della poesia pastorale sembra nascere con Virgilio; è dalle sue Bucoliche che prende l’avvio un filone che ha avuto una consistenza notevole nel corso della successiva esperienza letteraria italiana ed europea. Ma la fonte di Virgilio, cioè la poesia teocritea, è sempre rimasta nell’ombra: la tradizione successiva si richiama a Virgilio e ne riprende e rielabora temi e motivi; Teocrito, che pure di Virgilio è stato l’ispiratore, presenta caratteri di diversità e rimane comunque nell’ombra, iniziatore di un genere nuovo, ma ignorato da chi ha trattato questo genere.
Pur collocato nell’ambito alessandrino e accomunato da varie importanti caratteristiche a molti dei poetae docti suoi contemporanei, Teocrito presenta tratti fortemente personali nella sua produzione letteraria e, se risente di motivi comuni alla sua epoca, quali si incontrano anche in altre importanti figure come Callimaco o Apollonio Rodio, perviene a una scrittura personale e ricca di suggestione. Oggi si tenta una valorizzazione, o quanto meno una considerazione meno soffocata da pregiudizi estetizzanti, dell’ellenismo: sarebbe utile non cadere nell’eccesso opposto rispetto ai critici e agli studiosi precedenti, e non fare dell’ellenismo quello che esso non è: motivi di interesse possono darsi nello studio scientifico, nell’invenzione della filologia, in altri settori dell’attività umana, ma non certo nella poesia: Callimaco, Apollonio e gli altri minori possono avere per noi tratti di interesse di natura storica o culturale, ma non possiamo ritenere grande o sentita o partecipata la loro poesia; l’ellenismo non fu epoca di grande creatività dal punto di vista letterario: in questo quadro non propriamente esaltante Teocrito è uno del pochi poeti a conservare una sua personalità poetica viva e a darci degli scritti non puramente scolastici o letterari nel senso deteriore del termino. Teocrito è poeta che tuttora noi leggiamo con piacere o con interesse.
Già da un punto di vista formale Teocrito si presenta con tratti di originalità e di novità: la sua raccolta comprende una trentina di idilli, su alcuni del quali pende però un giudizio di incertezza (che per la verità molto spesso muove da argomenti molto discutibili o estremamente soggettivi) circa la paternità. Il termine di idillio, che verrà poi ripreso in letteratura con significati molto diversi, significa semplicemente piccolo componimento; è difficile dire se già Teocrito diede questo titolo o questo nome ai suoi componimenti: certo il termine idillio s’incontra per la prima volta solo in una lettera di Plinio a Paterno (IV xiv), in cui, dedicando una piccola raccol:ta di endecasillabi all’amico, l’autore afferma tra l’altro: “sive epigrammata sive idyllia sive eclogas sive, ut multi, poematia seu quod aliud vocare volueris, licebit voces: ego tantum hendecasyllabos praesto“. Dal che risulta sia che il termine idyllion non ricopriva in tutti i suoi valori quello di ecloga sia che la terminologia era allora estremamente fluttuante e l’idillio non si presentava ancora con caratteri fortemente individuati, tali da distinguerlo con sicurezza da altri tipi di brevi componimenti in metro vario. Quanto poi Teocrito, nel creare o quanto meno nel diffondere e precisare questo genere nuovo di poesia, sia debitore a Sofrone e al mimo siceliota, è difficile precisare; dal mimo siceliota poté assumere l’amore per la forma dialogica, ad esempio; ma è probabile che l’insieme dei caratteri che contraddistinguono l’idillio teocriteo da altri generi poetici siano dovuti allo stesso Teocrito.
Dei carmi pervenuti sotto il nome di Teocrito, solamente un terzo sono di ambientazione pastorale, e proprio a questi il poeta dovette poi, per il tramite di Virgilio, la sua fama nell’occidente latino (ma è notevole che Virgilio trasferisca in ambiente pastorale anche componimenti che in origine non lo erano: si veda l’VIII ecloga virgiliana rispetto alla sua fonte, costituita principalmente dal II idillio teocriteo, Le incantatrici). Anche l’invenzione della “musa bucolica” sembra dovuta a Teocrito stesso: la letteratura greca non sembra avere precedenti di rilievo; si è voluto cercare in oriente la fonte di questo genere letterario, ma con scarsa fortuna; anche l’ipotesi che all’origine della poesia bucolica stia il travestimento di motivi religiosi, per cui i “boukoloi” sarebbero in realtà gli adepti di qualche loggia segreta, ha basi assai poco convincenti. È piuttosto utile dire che l’ambiente ellenistico proponeva una serie di motivazioni storiche e culturali che potevano favorire il vagheggiamento pastorale teocriteo. Non dobbiamo dimenticare che l’ellenismo vede la nascita delle megalopoli, immense distese di case, costruite spesso secondo piani accuratamente predisposti e seguendo talora l’insegnamento di Ippodamo di Mileto: l’esito era una pianta in cui le vie si intersecavano sistematicamente ad angolo retto, creando così delle prospettive sostanzialmente monotone, in cui solamente il centro della città, con la presenza di edifici religiosi o pubblici monumentali, dava qualche carattere di movimento; certo era stridente il contrasto tra questi nuovi agglomerati impersonali, ricchi di traffico e di rumore (si veda l’idillio XV, Le Siracusane), e la vecchia polis, costruita e cresciuta disordinatamente ma a misura d’uomo, in cui i rapporti interpersonali erano più ricchi e vivi. In questo contesto poteva facilmente nascere l’ideale, poi più volte ripreso anche in tono letterario, della superiorità della campagna; i presupposti da cui Teocrito muove non son o artificiosamente costruiti: e non si dimentichi che in vari idilli lo stesso poeta mette in luce i difetti della città. D’altronde tale tema, di per sé incline a far scivolare nel retorico o nel sentimentale, è trattato dal poeta con tratti molto sobri: in questo egli è aiutato da quella robusta tendenza al realismo, che costituisce un altro dei tratti salienti dell’alessandrinismo. Naturalmente, eliminato ogni possibile richiamo ai presupposti, di ordine più sociale che letterario, che hanno dato vita al realismo otto e novecentesco, dovremo vedere nel realismo alessandrino la tendenza sia a imitare i momenti e gli stati d’animo di un’umanità più comune e di una quotidianità più dimessa (e si tratterà sempre di imitazione dotta, mirante cioè a mostrare l’abilità del poeta alla riproduzione sapiente della realtà) sia ad accentuare lo studio del patetico: la letteratura alessandrina varia dai colloqui intrisi di oscenità di Eronda alla descrizione attenta e minuta dei tormenti amorosi di Medea, così come la statuaria varia dalla Vecchia addormentata e dal Bambino che ammazza l’oca alle tragiche maschere del Laocoonte.
È merito di Teocrito il non aver quasi mai ecceduto né verso l’uno né verso l’altro estremo. Un correttivo da entrambi gli eccessi poteva essere costituito, in questo caso, dal carattere dotto che la poesia alessandrina ha: carattere che porta altri poeti ad esagerazioni tali da rendere faticosa la lettura delle loro opere, non solo per le generazioni moderne ma anche per i contemporanei, e che invece in Teocrito è utile per evitare sciatterie di qualunque genere: i suoi pastori, pur rappresentati al di fuori di qualsiasi idealizzazione, parlano un linguaggio che risente di termini omerici o che risulta intriso di accenni mitologici difficili ed oscuri, senza che però il poeta si lasci prendere la mano neppure in questo senso. Basti leggere la descrizione della campagna nelle Talisie (VII 135 segg.), un componimento dal tono nettamente autobiografico: la visione del poeta è sicuramente positiva: egli vede nella campagna e nella natura qualcosa di positivo e di bello, ma la contemplazione è sobria e fatta con accenti di acuta precisione, con accuratezza di particolari.
Due sono i temi che più diffusamente emergono nella poesia teocritea, non solo pastorale. Il primo motivo è quello amoroso: il sentimento dell’amore è rappresentato in una serie quanto mai varia di sfaccettature, dall’affanno che non dà tregua (si veda il II idillio, in cui il poeta, descrivendo il turbamento della donna che per la prima volta si trova di fronte il suo innamorato, scrive dei versi che possono stare alla pari di certi frammenti di. Saffo) alla gioia (si veda il XII Idillio, in cui l’inizio riprende palesemente un verso di Saffo: “sei venuto, caro fanciullo, con la terza notte ed aurora, sei venuto: ma quelli che desiderano invecchiano in un giorno: quanto la primavera dell’inverno, quanto la mela della prugna selvatica è più dolce, quanto la pecora più villosa della sua agnella, quanto una vergine preferibile a una donna che si sia maritata tre volte, quanto più veloce del vitello è il cerbiatto, quanto l’usignolo dalla voce arguta è più canoro di tutti gli uccelli, tanto mi rallegrasti apparendo: ed io fui come un viandante che corre sotto l’ombrosa quercia quando il sole brucia”). Talora abbiamo certa convenzionalità, che risente di modi abituali nell’alessandrinismo per descrivere l’amore: si veda l’id. XXVII (se è veramente di Teocrito), un contrasto tra la pastorella e Dafni: dopo il rifiuto iniziale, la donna si mostra sempre più propensa ad accettare le profferte di Dafne, e dopo essersi adeguatamente informata sui suoi averi e su ciò che è in grado di offrirle cede, apparentemente di malavoglia ma lieta in cuor suo, la sua verginità: qualche punto del dialogo riporta alla mente certi contrasti medioevali, come quello di Cielo d’Alcamo. Ma altre volte abbiamo spunti veramente di alta poesia, come nel XIII idillio, Ila, ove l’autore riprende un tema caro alla poesia alessandrina, che venne trattato anche da Apollonio Rodio nel prima libro delle Argonautiche: la vicenda del pastore rapito dalle ninfe e del dolore che prova Eracle vedendosi sottratto l’amante propone alcuni accenti che mostrano un modo non superficiale o banalmente patetico di affrontare il tema: e la possibilità di cadere nell’accentuazione sentimentale è abilmente evitata con la chiusa ironica del componimento: tutto preso dal suo dolore, Eracle perde la nave e deve recarsi nella Colchide a piedi, e lì incontra i compagni di viaggio che già lo ritenevano un disertore. Si passa con facilità dall’osceno al barocco: nel XXIII idillio, L’amante, un giovane s’impicca davanti alla casa dell’amato che non corrisponde al suo sentimento: questi, uscendo di casa, neppure degna di uno sguardo il suo cadavere; ma nel momento in cui si reca in piscina per i suoi quotidiani esercizi, una statua di Eros si stacca dal piedestallo e lo urta uccidendolo a compiendo così la vendetta per questo suo disprezzo dell’amore. Altre volte prevale una vena di sottile e gradevole ironia come nell’XI idillio, Il Ciclope, ove il personaggio mitico illustra a Galatea i suoi beni, cercando di vantare la condizione di agiatezza in cui si trova e di valorizzare il suo aspetto fisico, non del tutto spregevole nonostante l’unico occhio sovrastato da un sopracciglio villoso; o nel X idillio, I mietitori, in cui il poeta crea un contralto tra il lirismo appassionato di Buceo, che effonde con accenti intensi il suo recente amore, e il tono rude e spicciativo di Milone, che non ritiene utile e produttivo perdere tempo e fatica dietro queste cose.
I pastori teocritei, si è detto, non sono idealizzati: e uno di loro può esprimere il proprio rammarico perché l’innamorata lo evita per il suo odorare di capra; anche la descrizione dei luoghi è fatta per la maggior parte su ambienti reali, ed un elemento di ulteriore verosimiglianza è dato dall’ambientazione di molti componimenti in Sicilia ovvero (come nelle Talisie) in luoghi nei quali è stato. La descrizione delle donne è fatta con accenti realistici, non privi in certi casi di esagerazioni ironiche (si veda come il Ciclope descrive la sua amata Galatea: “più pettoruta di una vitella, più fresca dell’uva acerba”). Anche la morale e l’atteggiamento sono improntati a spontaneità: dal pastore che afferma non importargli nulla del giudizio negativo che altri dà della sua donna (troppo magra, troppo pallida, a sentire la gente) al consiglio che un altro pastore dà all’amico di non deprimersi troppo per le pene d’amore (domani andrà meglio; solo per i morti non c’è speranza). Può essere esemplare il XXI idillio I pescatori, in cui realismo (la descrizione iniziale della misera e faticosa vita di queste persone), contemplazione (la descrizione del sogno di ricchezza che uno dei due ha fatto) e ironia (nella battuta conclusiva ispirata a sano e spiccio buon senso) si mescolano in un insieme di piacevole lettura.
Il secondo tema è dato dal canto: la poesia che può risollevare l’animo abbattuto dalla sventura o dall’amore respinto. Il riferimento a questo tema, che trova non solo nell’ambiente alessandrino ma anche in tutta la tradizione precedente materiale a cui rifarsi, è molto ampio. Capaci di canto e poesia sono i pastori, e più di una volta il poeta ci fa assistere ai loro canti amebei (come nell’idillio IX I Cantori), conclusi spesso da un reciproco scambio di doni, o inquadrati in una competizione, che vede un vincitore e un vinto. L’idillio XV termina con un canto festoso e partecipato, di fronte al quale le due donne siracusane protagoniste dell’idillio rimangono rapite ed estatiche. Anche Polifemo afferma che il canto è l’unico rimedio per placare la sua passione senza speranza.
In Grecia, la poesia pastorale fu forse inventata da Teocrito e con Teocrito stesso si identifica sostanzialmente. Chi altri tentò questo genere non seppe elevarsi da un tono ripetitivo e piattamente scolastico. Poco rimane degli altri poeti bucolici, come Mosco e Bione; l’imitazione o traduzione leopardiana non è elemento sufficiente per documentarne l’autenticità poetica.
1. La prima caratteristica virgiliana è l’idealizzazione.
Nonostante la precisione dei termini con cui sono indicati piante, animali e attrezzi della vita pastorale, viene a mancare il realismo teocriteo e la concretezza con cui ogni aspetto della vita, e soprattutto l’amore, è presente al poeta greco. Si vedano ad esempio i passi seguenti: Theocr. XI 42-49 “Su, vieni da me e non possederai di meno: lascia infrangersi sulla riva il glauco mare. Più doleemente nella grotta presso di me trascorrerai la notte. Qui ci sono piante d’alloro, qui svettanti cipressi, un’edera seura, la vite dai dolci frutti, acqua fresca, che l’Etna boscoso mi manda dalla neve bianca, bevanda immortale. Chi preferirebbe a ciò avere il mare e le onde?” ~ ecl. IX, 36-43 “Vieni qui, Galatea. Che piacere c’è nelle onde? Qui la purpurea primavera, qui intorno ai fiumi la terra fa nascere fiori di vari colori, qui un candido pioppo sporge sulla grotta e flessibili viti intrecciano ombre: vieni qui; lascia che i flutti impazziti urtino le rive”.
L’imitazione virgiliana è esplicita: anche in Teocrito è Galatea la ragazza invitata (da Polifemo). Ma nel passo teocriteo la descrizione della natura finalizzata all’utilità pratica è incentrata sul soddisfacimento amoroso; in quello virgiliano troviamo piuttosto la contrapposizione di una bellezza naturale ad una bellezza naturale inferiore, e l’elemento erotico è solo sottinteso. L’amore, pur presente come elemento tradizionale del genere, è povero di descrizioni sia realistiche sia psicologiche (il linguaggio delle Bucoliche è carente proprio nel lessico dei sentimenti). Ciò che prevale nella poesia bucolica virgiliana, invece, e che appare come connotato fondamentale dell’opera, è l’individuazione di un locus amoenus, un luogo ideale per bellezze naturali e per tranquillità, in cui “vivere appartato” secondo i suggerimenti epicurei. Quale luogo è individuato dal poeta come amoenus? La collocazione geografica delle ecloghe è generalmente vaga: tre volte si tratta probabilmente della Valle Padana, cioè la campagna del poeta stesso (ecl. I, VII e IX), una volta la Sicilia, per la precisa imitazione teocritea (ecl. II, in cui Coridone è modellato su Polifemo). Ma il locus amoenus per eccellenza è l’Arcadia, terra del dio Pan, che, come sappiamo da un epigramma di Meleagro (AP VII 535), è dio dei pastori.
I riferimenti all’Arcadia come luogo di poeti cantori sono frequenti: basti pensare all’Arcades ambo della VII Ecloga (VII 4), in cui l’indicazione serve a sottolineare le qualità ideali dei due gareggianti, e supera l’incongruenza della collocazione geografica presso il Mincio. Soprattutto nella X ecloga l’Arcadia appare come locus amoenus: una regione remota e appartata, rifugio al dolore di Gallo abbandonato da Licoride e ricca di canti bucolici che permettono un’evasione dal reale. Altri brevi squarci paesaggistici sono di volta in volta idealizzati come loca amoena, felicemente scoperti da qualcuno che invita altri a soffermarvisi per trovare un riposo sereno: ecl. I 79-83 Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem | fronde super viridi: sunt nobis mitia poma, etc. (in cui l’idealizzazione è sottolineata dal rimpianto per l’impossibilità che l’invito sia accolto: poteras); II 28 segg.: O tantum libeat me cum tibi sordida rura | atque humilis habitare casas et figere cervos, etc. Anche qui l’invito è accompagnato dal rimpianto: o tantum libeat); VII 8 segg ‘ocius’ inquit | ‘huc ades, o Meliboee; caper tibi salvos et haedi; | et siquid cessare potes, requiesce sub umbra (in cui l’invito è accolto con difficoltà: quid facerem?).
Molte sono le cause ch e impediscono di accogliere l’huc ades, – la ricorrente espressione dell’invito: le dure necessità della vita, come l’esilio nella I ecloga o i mea seria della VII; l’incapacità personale di adesione, come l’insensibilità di Alessi per cui i rura sono non amoena, ma sordida; anche Gallo, dopo aver aderito al soggiorno in Arcadia, è ripreso dall’amor che omnia vincit e rinuncia alla pace.
Anche per chi trova rifugio nel locus amoenus la tranquillità è breve e sempre minacciata: dall’esilio che può sopraggiungere pure a chi era stato risparmiato: IX 7-13 (in cui la lieta descrizione della natura salvata dalla poesia di Menalca/Virgilio contrasta con l’amara constatazione che carmina tantum | nostra valent, Lycida, tela inter Martia, quantum | Chaonias dicunt aquila veniente columbas), dal venir della sera che impone i lavori usuali: VI 85-86 cogere donec oves stabulis numerumque referri | iussit et invito processit Vesper Olympo), dalla natura che cela insidie: X 75-77 (surgamus. solet esse gravis cantantibus umbra, etc.), soprattutto ecl. III 92 ss. frigidus, o pueri, fugite hinc, latet anguis in herba. | M. Parcite, oves, nimium procedere: non bene ripae | creditur … | D. Tityre, pascentes a flumine reice capellas…) tutte espressioni costruite all’inverso rispetto all’huc ades.
Il locus e tempus amoenum stabile e definitivo è solo l’età dell’oro, presente nelle Bucoliche proprio nell’ecloga che più esplicitamente si sottrae al genere, cioè la IV paulo maiora canamus | non omnis arbusta iuvant humilesque myricae (vv. 1-2). La nuova età sperata e attesa è un ambito stabile di riconciliazione fra l’uomo e la natura, e quindi fra uomo e uomo: cesseranno le insidie (occidet et serpens, et fallax herba veneni | occidet, vv. 24-25), non vi sarà più bisogno di lavoro (ipsae lacte domum referent distenta capellae | ubera, v. 21-22, fra i molti esempi), né vi sarà più necessità di andarsene (omnis feret omnia tellus, v. 39). Il locus amoenus che lo scelus e la fraus dell’uomo hanno ridotto a pochi spazi e brevi momenti e destinato a pochi privilegiati, sarà tutta la terra e per sempre e per tutti.
2. La seconda caratteristica virgiliana è la commistione di personaggi fittizi, personaggi simbolici, personaggi storici, personaggi mitologici e divinità.
Anche senza voler seguire i critici che identificano in tutti i pastori personaggi reali e cercano in ogni accenno un riferimento storico, il legame con vicende e persone del tempo è sicuro e evidente.
Le dediche, da un lato, attualizzano quanto c’è di acronico nell’ecloga: d’altro canto un personaggio come Gallo nella VI ecloga è inserito nel tempo non-tempo che va dalle origini dell’universo alla storia già trasformata in mito e, in questa come nella X, s’incontra con pastori, figure leggendarie come Lino, dèi greci e italici in un rapporto alla pari. I riferimenti a Ottaviano e alle guerre civili nella I e IX ecloga portano nel presente e nel concreto: la trasfigurazione di Cesare come Dafni nella V (se così dobbiamo intendere) fa svanire ogni aspetto cronachistico. In questa fusione di elementi si stempera, a nostro parere, ogni polemica sulla IV ecloga: realtà e trasfigurazione, connotazioni infantili e partecipazione alla vita degli dèi, Asinio Gallo o Salonino o chiunque altro e puer delle antiche profezie sono commisti al di là di ogni distinzione logica e razionale, come nel complesso dell’opera.Nella letteratura dell’età imperiale la poesia bucolica prosegue in epigoni di valore generalmente scarso, il cui interesse è per noi legato esclusivamente alla fortuna del genere. Nell’età neroniana sono da situare due ecloghe anonime conservate in un manoscritto di Heidelberg (lat. 266, del X sec.) proveniente dal monastero di Einsielden e le sette ecloghe di Calpurnio Siculo: nella prima ecloga di Calpurnio in particolare il tema messianico dell’età dell’oro è ripreso dalla profezia di Fauno, che l’identifica col regno di Nerone. .
Nel secolo terzo abbiamo quattro ecloghe piuttosto banali attribuibili con certezza al poeta cartaginese Nemesiano, benché inserite nel corpus di Calpurnio.
In questa età motivi tipici della poesia bucolica teocritea o vergiliana si incontrano in componimenti greci o latini non appartenenti propriamente al genere bucolico. Facciamo tre esempi. il romanzo di Longo Sofista Gli amori pastorali di Dafni e Cloe riprende nella sua struttura in prosa i temi della vita a contatto con la natura, accentuando un aspetto in particolare, quello cioè dell’innocenza di una tale vita in contrasto con la corruzione della vita cittadina, tanto che Dafni e Cloe decideranno di restare legati alla loro esperienza di pastori anche dopo aver ritrovato le ricche famiglie d’origine; tema, quello del “buon selvaggio”, gravido di riprese future. Il poeta cristiano Prudenzio ha echi bucolici nelle sue poesie d’ispirazione biblica: si veda ad esempio la parabola della pecorella smarrita (Cathemerinon 8, 33-52), in cui Prudenzio accentua fortemente il contrasto fra una natura ostile in cui la pecora era incappata e il luogo felice (locus amoenus?) in cui è riportata dal pastore (vv. 42-48: strofe saffiche). Echi dell’huc ades e del rimpianto per l’invito mancato si ritrovano infine in una lettera di Basilio di Cesarea all’amico Gregorio di Nazianzo (ep. 14). “Rinunciando a malincuore alle speranze che avevo riposto in te, anzi più che alle speranze ai sogni, a dire il vero (perché giustamente si dice che le speranze sono i sogni dell’uomo sveglio) giunsi qui al Ponto, per cercarvi quella vita che si adatta all’anima mia. E qui Dio mi ha fatto scoprire il luogo secondo il mio cuore. Quello che tante volte ci siamo creati nella fantasia, nel gioco dell’immaginazione, ecco, l’ho dinnanzi: è divenuto vero.” La lettera prosegue con una descrizione della natura del luogo prescelto da Basilio per la sua vita contemplative; una natura bellissima, solitaria e felice: un locus amoenus cristiano.
Le riprese cristiane sono prevalentemente un segno della fortuna del genere bucolico, giacché i contenuti sono di tipo apologetico-encomiastico. Si pensi al De mortibus boum di Endelechio (un retore del IV sec., amico di Paolino da Nola), un idillio di 33 strofe asclepiadee in cui il protagonista (Bucolo) espone all’amico Egone la sua amarezza perché la mandria è stata colpita da un’epidemia: a questo punto entra Titiro, che spiega ai due come ha salvato i capi della sua mandria tracciando il segno della croce sulla fronte dei suoi animali: i due amici, convinti e colpiti dal miracolo, decidono alla fine di farsi cristiani; l’idillio, al di là del suo valore poetico (vi sono numerose reminiscenze, oltre che delle ecloghe virgiliane, anche del terzo libro delle Georgiche), ha un discreto interesse documentario, perché mostra la persistenza del paganesimo in ambiente rurale nel V secolo.
Una ripresa del tema bucolico si ha, in ambiente carolingio, con Alcuino da York (Northumbria 730-Tours 804), le cui ecloghe ispirate a Virgilio sono considerate il momento di transizione tra l’ecloga antica e l’ecloga dantesca. Nel Canto sul cuculo (Versus de cuculo) l’autore trasfigura sotto le vesti pastorali e con un’insistita metafora ornitologica le vicende di un suo allievo (Dodone) che, a quanto pare, ha abbondonato la vita monastica, per darsi a Bacco e alla vita mondana. Nel canto amebeo tra Menalca e Dafni (già nei nomi si percepisce il richiamo alla tradizione virgiliana) si rimpiange la dipartita del cuculo, che ha lasciato tristezza e freddo nel cuore dei suoi amici, ma si insinua la speranza che il cuculo possa ritornare, riportato dalla primavera che risveglia le creature dal sonno dell’indifferenza e del vizio: come anche in altri componimenti dello stesso Alcuino, il ritorno del cuculo è segno del ripresentarsi della primavera. Nonostante i continui richiami a Virgilio, il tema pastorale è rinnovato e l’ambientazione è profondamente diversa, perché il carme allude in continuazione ai valori della vita monastica e di una condotta di vita cristianemente temperante. Richiamo insistito di motivi virgiliani e pastorali, e ripresa del tema del cuculo, si ha anche nel Conflictus veris et hiemis, una tenzone tra le due stagioni, che intonano un canto amebeo in cui a ognuno dei contendenti sono assegnati tre versi. I due pastori giudici della gara (Dafni e Palemone) alla fine mettono a tacere l’inverno “dissipatore e vizioso” (v. 45) ed esprimono la loro speranza nel ritorno del cuculo, pastorum dulcis amicus.
Agli ultimi anni della vita di Dante, trascorsi a Ravenna ospite di Guido Novello da Polenta, risale un gruppo di quattro poesie latine, globalmente chiamate ecloghe o egloghe, ma in realtà diverse come forma e come autore: ne abbiamo anche il commento e l’interpretazione del Boccaccio. La prima porta il titolo Iohannes de Virgilio Alagherii. Carmen (o Joannes De Virgilio Danti Alagherii. Carmen) ed è un’epistola in esametri alla maniera oraziana, di contenuto cioè parenetico: un giovane poeta, Giovanni del Virgilio, padovano ma abitante a Bologna, esorta Dante a non sprecare la propria grandezza poetica componendo in volgare. E’ chiaro dai primi versi che il Del Virgilio conosce e apprezza la Commedia e ne ha lette le prime due cantiche, forse parte della terza ancora incompiuta, ma alla sua ammirazione per il disegno grandioso si accompagna il dispiacere che tali versi vadano nelle mani di gente ignobile: que tamen in triviis nunquam digesta coaxat / comicomus nebulo, “tuttavia li gracida nei trivii senza averli mai digeriti, un ridicolo briccone” (vv. 12-13). L’esortazione a passare all’uso del latino si concretizza in precise proposte: anzitutto tematiche da utilizzare per un poema epico, in particolare la vicenda di Arrigo VII, armiger Iovis (v.26), e varie battaglie terrestri o navali citate con ampiezza di perifrasi; poi la ricerca di una gloria che giunga ai confini del mondo, rappresentati geograficamente dalle colonne d’Ercole, dal Danubio e dall’isola egiziana di Faro e Cartagine; inoltre la possibilità, come esito di un canto dotto, di essere incoronato poeta a Bologna, dove il Del Virgilio userebbe la sua influenza; ma soprattutto l’uso del latino come lingua universale invece degli idiomata mille (v. 16), non solo più gradito ai dotti ma anche sorti communis utrique (v. 23), cioè accessibile a colti e incolti. E’ naturalmente chiaro che il modello indicato a Dante è Virgilio epico, di cui Giovanni si vanta di essere nel nome verna, “servo”, ma anche Stazio quem sequeris celo (v.18), cioè accompagni nell’ascesa dal Purgatorio al Paradiso, stando alla narrazione di Dante alla fine della seconda cantica.
Dante accoglie la proposta di imitare Virgilio in latino, ma al posto del poema epico utilizza la poesia bucolica. Il secondo componimento della raccolta ha titolo Dantes Alagherii Iohanni de Virgilio. Ecloga I (o Dantes Alagherii Joanni De Virgilio Ecloga I): l’ecloga si presenta come il racconto di un dialogo fra due pastori, l’io narrante Titiro e l’amico inesperto di poesia Melibeo: il primo rappresenta Dante stesso e il secondo ser Dino Perini, fiorentino ma allora residente a Ravenna. Quest’ultimo è incuriosito dall’epistola di Mopso (Del Virgilio) e insiste perché Titiro gliene riveli il contenuto. Ma Titiro lo prende benevolmente in giro: Melibeo ignora i luoghi pittoreschi (simbolicamente posti in Arcadia) dove Mopso contemplatur ovans hominum superumque labores,“contempla con gioia le opere degli uomini e degli dèi”, e le trasforma in un canto che, come quello di Orfeo, attira animali domestici e selvaggi, muove fiume e fronde. Di fronte alle insistenze di Melibeo, Titiro gli svela il carme di Mopso e fa un grande elogio dell’amico, l’unico poeta nell’ambiente bolognese di legulei: dum satagunt alii causarum iura doceri “mentre gli altri si accontentano di imparare il diritto forense”. Tuttavia non intende soddisfarlo: appena terminerà il Paradiso, spera sì di ottenere l’alloro poetico, ma non a Bologna, città politicamente nemica (se, come interpreta Boccaccio, ignara deorum del v. 41 va inteso come “ostili agli imperatori”); il suo sogno è di ottenerlo a Firenze, se potrà ritornarvi. Rimane vago però l’intento, né la parola peana del v. 40 chiarisce se Dante intende infine aderire all’idea di un poema epico oppure spera di ottenere gloria con la Commedia quasi terminata. In ogni caso, giacché Melibeo gli rinfaccia il passare veloce del tempo, terrà buono Mopso con dieci vasi di latte: dieci ecloghe come le virgiliane? O i canti finali del Paradiso? Il racconto termina con la preparazione della povera cena per i due pastori.
Del Virgilio rimane piccato dalla risposta di Dante. Se questi intende comporre poesia bucolica latina, allora gli dimostrerà di essere in grado anche lui di imitare le ecloghe virgiliane: audiat in silvis et te cantare bubulcum “senta che anche tu canti come un bifolco nei boschi” (v. 30). Nasce così il terzo componimento, dal titolo Iohannes de Virgilio Danti Alagherii. Ecloga responsiva (o Joannes De Virgilio Danti Alagherii. Ecloga responsiva). In effetti l’ecloga è costruita su modelli virgiliani: già l’incipit Forte sub irriguos… riprende anche metricamente l’incipit dell’ecl. VII: Forte sub arguta…Nel prosieguo troviamo dalla stessa ecloga virgiliana il quid facerem? (cfr. v. 6 e v. 14 di Virgilio): qui però c’è una variatio di situazione: se in entrambe l’io narrante è solo perché i compagni sono assenti, in Virgilio la domanda riguarda il dubbio se abbandonare il lavoro per poter assistere alla gara di canto, invece qui il protagonista si annoia nella solitudine e passa il tempo tagliando le canne palustri. Mentre si trova “fra Savena e Reno” (cfr. Inferno, XVIII, 61), cioè nella zona di Bologna, ode il canto di Titiro dalla lontana Ravenna e decide quindi, depostis calamis maioribus, di afferrare tenues, cioè di passare ad un genere poetico più basso. Il carme vero e proprio inizia al verso 33 con Sic, divine senex, che richiama anche metricamente il Fortunate senex di ecl. I, 46. Mopso-Del Virgilio elogia Titiro-Dante considerandolo un secondo Virgilio, o Virgilio stesso, se si vuole credere all’idea di Pitagora sulla reincarnazione; lo commisera per l’esilio da Firenze, che spera non l’affligga troppo e possa alfine terminare. Ma nel frattempo gli rivolge l’invito tipico delle ecloghe virgiliane, quell’huc ades che costituisce in particolare il centro della seconda ecloga, imitata nella descrizione dei luoghi ameni dove si desidera che l’amico accetti di venire. L’huc ades ripetuto al v. 72 introduce la rassicurazione dell’assenza di pericolo, in risposta al timore di Titiro-Dante nei confronti di Bologna. Tipico dell’huc adestopos virgiliano della successione di affetti (presente sia nella seconda ecloga sia in VII, 61 segg.) termina polemicamente con la decisione di ripiegare su un altro affetto, Musone (il padovano Albertino Mussato, da poco incoronato poeta). E alla promessa dei dieci vasi di latte Mopso risponde intendendo mandare altrettanti vasi, forse anche in questo caso dieci ecloghe, benché consideri presuntuoso il contraccambio. Al termine del canto tornano i compagni e si fa sera. virgiliano è però anche il rifiuto dell’invito, le difficoltà soggettive o oggettive di accettarlo: come nell’ecloga virgiliana anche in questa l’impedimento è costituito da Iolla (cfr. II, 57: qui rappresenta Guido da Polenta), che può offrire un’ospitalità migliore. La ripresa del
Dantes Alagherii Iohanni de Virgilio. Ecloga II (Dantes Alagherii Joanni De Virgilio. Ecloga II) è il carme di Dante che chiude la raccolta. Inizia con un’indicazione temporale: il sole è uscito dalla costellazione dell’ariete e si trova in equilibrio nella sua orbita: siamo quindi a mezzogiorno di primavera. Titiro e l’amico Alfesibeo, anch’egli anziano, cercano rifugio dal caldo in un boschetto. Capiamo più avanti che l’ambientazione questa volta è in Sicilia, uno dei luoghi tipici della poesia bucolica dal tempo di Teocrito, per cui già in primavera la calura è forte. Titiro e Alfesibeo soggiornano in pianure pacifiche dell’isola, mentre Mopso si trova sotto l’Etna, dove vivono i mostruosi ciclopi. Alfesibeo, che raffigura il medico Fiducius de Milottis, amico di Dante e abitante anch’egli a Ravenna (ma originario di Certaldo, come nota Boccaccio), svolge un ampio discorso sulla natura, per cui ogni specie ha i suoi luoghi prediletti, e termina stupendosi della scelta innaturale di Mopso. Sopraggiunge di corsa il giovane ingenuo Melibeo, dal cui flauto esce l’ecloga responsiva di Mopso. Alfesibeo teme che Titiro accetti l’invito di Mopso e si rechi ad litus Aetneo pumice tectum (v. 54): con qualche riferimento virgiliano (ad es. ecl. IX, 19-20) immagina la tristezza delle ninfe e la solitudine dei luoghi se Titiro se ne andasse. Titiro lo rassicura: Mopso pensa che lui si trovi a Ravenna, non in Sicilia, e lo invita a recarvisi: tuttavia la parte dell’isola dove abita è ostile e pericolosa per la presenza di Polifemo, per cui nonostante l’affetto per l’amico non accetterà l’invito. L’intreccio fra luoghi simbolici e reali è complesso, con qualche riferimento poco chiaro (discusso ad esempio il Pachynus invidioso del v. 59), ma è evidente che Bologna presenta dei pericoli per Dante, intenzionato a rimanere al sicuro a Ravenna. Lo stesso Iolla (Guido da Polenta) ascolta il dialogo fra Titiro e Alfesibeo, lo ripete al poeta che a sua volta lo riferisce a Mopso con un curioso grecismo: nos tibi, Mopse, poimus (da poièo). Probabilmente Ravenna, che era stata esarcato bizantino, aveva conservato una rimanenza di greco.
I riferimenti alla Sicilia sono ricchi di allusioni virgiliane: Melibeo ridicolo nella corsa affannosa è paragonato a Sergesto, lo sfortunato partecipe alla gara navale del V libro dell’Eneide; sempre dall’Eneide (III, 613) è tratto l’episodio di Achemenide sfuggito al ciclope; la vicenda di Galatea, che risale all’idillio teocriteo Ciclope, era accennata nell’ecloga VII (v. 37 seg.) e ripresa nell’ecl. IX (v. 39 segg.), anche se questi testi si limitano all’amore infelice di Polifemo: qui invece è messa in rilievo la crudeltà del ciclope verso l’amante più fortunato, e di conseguenza l’impossibilità per Dante di salvarsi se si recasse dove Mopso l’invita. La fonte di questa parte del mito di Polifemo non è più Virgilio, ma forse Ovidio, Met. XIII, 870 segg., anche se in quel testo Aci è ucciso con un masso, da dove la ninfa fa sgorgare il fiume in cui trasforma l’amato, e non si parla quindi di “viscere sbranate” (v. 77 segg.), più consone al Polifemo omerico.
Il testo della corrispondenza fra Dante e Giovanni del Virgilio sul sito Liberliber
Nelle immagini: il frontespizio e l’inizio dell’ecloga di Dante nell’editio princeps (Firenze 1719)
Il tema bucolico nella letteratura italiana
Se il genere letterario bucolico nasce dalla “stretta correlazione fra determinati temi (ad esempio, la vita campestre, il locus amoenus, ecc.) e specifiche scelte formali (ad esempio, uso di una forma metrica come l’ecloga e di un certo registro linguistico medio)” (A. Marchesi, Dizionario di retorica e stilistica, Mondadori, Milano 1978, p. 113), non si può certo affermare che all’interno della letteratura italiana esista un vero e proprio genere bucolico e pastorale, a meno di non considerarlo tanto poco rigido nella sua codificazione interna da accogliere, accanto a mutazioni di forma, anche mutazioni di significato e di rapporti con la realtà esterna. Infatti, a prescindere dalla prima produzione espressamente bucolica di Dante, Petrarca e Boccaccio e dell’esperienza poetica dell’Arcadia nel ’700, il riferimento al mondo pastorale, le tematiche e i toni bucolici hanno preso corpo via via in forme differenti quali il romanzo e il dramma (1).
Dante [clicca qui per la finestra dedicata], Petrarca e Boccaccio composero, infatti, ecloghe secondo il modello virgiliano innestando nelle ambientazioni pastorali e nelle vicende dei personaggi riferimenti alla propria attività poetica (Dante nella I ecloga affronta il tema della scelta per il volgare nella Divina Commedia), alla vita privata (Petrarca esprime nei componimenti bucolici la medesima perplessità tra vita religiosa e desiderio di gloria mondana che si ritrova sia nel Canzoniere sia nelle opere latine) e alle vicende storiche contemporanee (Petrarca fa riferimento alle stragi della peste, al suo abbandono dei Colonna, alla morte di Roberto d’Angiò, alla vicenda di Cola di Rienzo, alla guerra anglo-francese). All’imitazione contenutistica del modello si accompagna una fedele riproduzione formale. Tuttavia Boccaccio nel Ninfale d’Ameto e nel Ninfale fiesolano inserisce gli ambienti boschivi, i pastori, le ninfe e le pene d’amore, proprie del genere pastorale, nella struttura del romanzo costituendo cosi il paradigma per lo sviluppo di tale genere nell’ambito della letteratura italiana.
Già nel XV secolo l’eredità di Boccaccio e il processo da lui compiuto nel Ninfale d’Ameto influenzano Iacopo Sannazzaro che, aderendo alla tendenza all’idillio e all’evasione propria dell’Umanesimo e al gusto pastorale particolarmente diffusosi nell’ambiente napoletano, inserisce le dodici ecloghe scritte in precedenza in una struttura di dodici prose che dà unità e coerenza narrativa ai singoli componimenti lirici, ma che fa scadere la forma dell’ecloga a puro ornamento e a genere sussidiario.
Accanto all’influsso boccaccesco è presente anche l’influenza dei romanzi ellenistici di Achille Tazio e di Longo Sofista che, caratterizzati da vicende d’amore contrastate e costellate di peripezie, terminano costantemente con il lieto fine. Rispetto a tale caratteristica Sannazzaro opera un’innovazione rilevante e significativa facendo concludere la vicenda del protagonista, Sincero, con la morte dell’amata. Questo fatto, unitamente al ritorno sconsolato a Napoli (da cui il personaggio era partito alla ricerca di un luogo di sogno, di pace e di poesia nel quale lenire le pene d’amore), segnala la vanità dell’evasione e della fuga nell’Arcadia, indicata da tutta la letteratura precedente e seguente come il locus amoenus. Nonostante ciò Sannazzaro esalta la poesia pastorale e avverte di essere stato il primo “a risvegliar le addormentate selve e a mostrare a pastori di cantare le già dimenticate canzoni” perché ritiene che “le silvestre canzoni vergate ne li ruvidi cortecci del faggio dilettino non meno a chi le legge, che li colti versi scritti ne le rase carte degli indorati libri; e le incerate canne dei pastori porgano per le fiorite valli più piacevole suono, che li tersi e pregiati bossi de’ musici per le pompose camere non fanno”. Tuttavia a tale poetica della naturalezza e della semplicità si accosta nella produzione del Sannazzaro, così come in quelle precedenti e in quelle seguenti, la scelta per l’imitazione delle situazioni, delle immagini, della lingua e dello stile di Teocrito e di Virgilio. Il vagheggiamento dell’Arcadia come luogo dell’amore, della poesia e dell’evasione si accompagna al vagheggiamento delle forme classiche e della letterarietà.
Permangono così come elementi fondamentali sia la descrizione di una natura partecipe ai dolori e alle gioie umane e rifugio dalle avversità (cfr. I Ecloga, vv. 49 ss. “Non truovo tra gli affanni altro ricovero / che di sedermi solo appiè d’un acero”), sia il mito dell’età dell’oro in cui “non teman de’ lupi / gli agnelli mansueti; / ma torni il mondo a quelle usanze prime” (III Ecl. 30-33) e in cui “nacque l’alma beltade, / e le virtudi racquistaro albergo: / per questo il ecco mondo / conobbe castitade, / la qual tant’anni avea gittata a tergo” (ibid. 54-58). Ugualmente centrale resta il tema dell’amore che da un lato rende “quest’aspra amara vita dolce e cara” (ibid. 77-78) e dall’altro “di ferir non è mai stanco, o sazio / di far de le medolle arida cenere” (I Ecl. 20-21), ma che sempre e comunque è sentito come un “giogo al collo” (ibid. 68).
Accanto a questi caratteri comuni alla tradizione bucolica Sannazzaro riproduce nelle immagini e nei luoghi dell’Arcadia e nei pastori che la abitano la società umanistica con le sue aspirazioni di armonia, di pace e di vita ideale, gli ambienti dell’accademia pontiana, gli amici e poeti Cariteo e Pietro Summonte, la moglie morta di Pontano, nonché sé stesso nella figura del protagonista Sincero, nome che, come traduzione latina di Nazaro che in ebraica significa ‘sincero, incorrotto’, fu usato nell’accademia napoletana come soprannome per l’autore.
A conferma dell’utilizzo formale e strumentale dei toni e dei temi pastorali appare interessante e innovative l’allargamento di questi da una parte ad altri campi dell’attività umana, quale la pesca nelle Eclogae piscatoriae, e dall’altra ad argomenti cristiani come nel De partu Virginis in cui le scene della natività sono descritte con il frequente ricorso al testo virgiliano. Analogamente anche nell’Arcadia il paradiso cristiano è descritto da Ergasto come un luogo caratterizzato da “altri monti, altri piani, / altri boschetti e rivi / … e più novelli fiori” (V Ecl. 14-16). L’ambientazione pastorale in un’ampia struttura narrativa come quella dell’Arcadia di Sannazaro appare idonea ad accogliere il moltiplicarsi dei casi amorosi e delle vicende, da una parte, e i sentimenti della natura, dell’amore e della malinconia dall’altra, che tanto spazio avranno nel filone del romanzo italiano e straniero dei secoli successivi.
Nel 1482 veniva stampato a Firenze un volume, intitolato Bocoliche elegantissime, contenente una traduzione latina in terzine delle Bucoliche virgiliane e altri componimenti di argomento pastorale scritti da poeti e letterati contemporanei (Arsochi, Beniveni, Boninsegna). La stampa di questo libro sicuramente influenzò e ispirò Matteo Maria Boiardo, che tra il 1482 e il 1483 scrisse dieci componimenti esemplati (anche nel numero) sulle Ecloghe virgiliane e intitolati Pastorale. Si tratta di componimenti in terzine che si caratterizzano per un’accentuata utilizzazione dei riferimenti allegorici per l’attualizzazione dell’argomento pastorale, per cui accanto alle tematiche e ai nomi tradizionali vi sono riferimenti espliciti ai personaggi e alle vicende del tempo. Ad esempio nella decima ecloga Orfeo intona il panegirico di Alfonso di Calabria per le imprese compiute nella guerra combattuta da Modena contro Venezia.
In modo specifico nell’ambito della narrativa del XVI secolo l’influsso dell’evasione idillica e bucolica del Sannazaro si unisce con il filone più avventuroso e romanzesco rappresentato dal Libro del Peregrino del Caviceo (1508) e dall’Istoria di Phileto veronese del Corfino (1520-30), nel generale e costante riferimento all’intera produzione boccacesca. A conferma, inoltre, del particolare gusto cinquecentesco per il romanzo pastorale va ricordata la traduzione che nel 1537 Annibal Caro opera degli Amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista.
Nel 1500 tuttavia i motivi presenti nell’Arcadia del Sannazaro, quali il classicismo e la letterarietà, l’idealizzazione nell’ambiente pastorale del mondo cortigiano, vengono a proiettarsi in nuove forme ricche di possibilità di evoluzione. Inizialmente infatti assumono la veste di ecloghe dialogate con numerosi espedienti musicali, come nel Tirsi di Castiglione (rappresentata ad Urbino nel 1506), ne I due pellegrini di Tansillo (1526), nell’Egle di Giraldi Cinzio (1545) (2), e, secondariamente, di veri e propri drammi pastorali in cinque atti, con un numero ristretto di personaggi e nel pieno rispetto delle tre unità aristoteliche, la cui teorizzazione è formulata da Guarini, autore del Pastor Fido, ma il cui apice letterario è costituito dall’Aminta del Tasso.
Tale genere, caratterizzato dalla compresenza di elementi propri della tragedia (la nobiltà dei personaggi), della commedia (lo scioglimento felice delle vicende), della lirica petrarchesca (la purezza dello stile) non è avvertito dal Guarini, autore del Pastor fido, come estraneo ai generi codificati da Aristotele, ma come la necessaria adeguazione alla società contemporanea che desiderava sublimate in un mondo ideale e perfetto le proprie ambizioni di naturalità, di fuga dal mondo sociale e dalle convenzioni moralistiche. Il genere tragico con la sua funzione etica è soppiantato dall’azione catechetica della Chiesa e fine dell’arte non è più la moralizzazione e l’educazione, ma il diletto e il piacere dei sensi e dell’intelletto. A tale scopo la tragicommedia deve presentare lo stemperamento delle passioni in sentimenti languidi, in lamenti sussurrati e in una sensualità privata di ogni realismo o crudezza.
I caratteri del dramma pastorale, cosi teorizzati dal Guarini, si ritrovano nell’Aminta di Tasso, che attraverso numerosissime citazioni, testuali o lievemente modificate, di Virgilio, di Teocrito, di Boccaccio, di Poliziano, ed una capacità di libera e vibrante imitazione, rappresenta un’abile sintesi di letterarietà e di naturalezza nel lessico, nelle immagini, nella linearità e nella regolarità dello svolgimento narrativo. Tale naturalezza si pone come il riverbero letterario dell’ideale stato dell’uomo rappresentato nell’opera dall’Arcadia che appare via via come l’oggettivazione dell’età dell’oro, della bellezza, della giovinezza e dello stato beato della natura, in contrapposizione alla vita piena di preoccupazioni e di affanni. Centrale anche nell’Aminta è la tematica dell’amore che può portare il dolore e la sofferenza (Aminta vv. 350 ss. “il crudo amor di lacrime si pasce, | né se ne mostra mai satollo”), la gioia (ibid. 946 “ché sol amando uom sa che sia diletto”), ma che sempre si presenta come una forza naturale che ingloba tutto l’universo, che domina potentemente e inevitabilmente gli uomini che pur tentano di sottrarglisi (ibid. vv. 152 ss.; cfr. 726-733; 850).
Legata alla concezione edonistica che emerge da quanto detto è la tematica del carpe diem perché “’l sol si muore e poi rinasce: / a noi sua breve luce / se asconde, e il sonno eterna notte adduce” (ibid. 721-723; cfr. 892-925) e l’esaltazione della poesia, del consorzio del poeti e dell’ozio.
Permangono come ormai strettamente vincolati alle immagini pastorali sia la trasfigurazione in esse del mondo cortigiano legato agli Estensi e alla città di Ferrara (cfr. 1006 ss. “Ond’è ben giusto | che non gli scherzi di terreno amore, | ma canti gli avi del mio vivo e vero | non so s’io lui mi chiami Apollo o Giove, | ché ne l’opre e nel volto ambi somiglia; | gli avi più degni di Saturno o Celo: | agresto Musa a regal merto” [riferimento agli Estensi]; vv. 572-575 “Andrai ne la gran terra | ove gli astuti e scaltri cittadini | e i cortigian malvagi molte volte | prendonsi a gabbo…” [riferimento a Ferrara e alla sua corte]), sia il riferimento autobiografico per cui Tasso identifica sé stesso e la sua poesia nel pastore Tirsi (vv. 634-637 “ed in quel punto | sentii me dar di me stesso maggiore, | pien di nova virtù, pieno di nova | deitade, e cantai guerre ed eroi, | sdegnando pastoral ruvido carme [riferimento alla composizione de4lla Gerusalemme]”).
Anche nel XVII secolo il motivo pastorale persiste assumendo le forme della lirica nell’Adone e nella Sampogna del Marino, in cui mantiene immutate la letterarietà e la musicalità proprie del passato, della favola boschereccia complicata e languida di Donarelli, Stigliani, Frugoni, Chiabrera e delle rappresentazioni teatrali per la musica, quali l’Euridice, la Dafne, l’Arianna e il Narciso del Rinuccini. Pur conservando il carattere della trasposizione di sentimenti raffinati e cortigiani nella cornice pastorale e l’idealizzazione dei pastori in cui si devono ravvisare i contemporanei dell’autore, la ricchezza formale e la poetica della naturalezza, i drammi per la musica riducono il tema pastorale a elemento puramente esornativo e a preziosismo letterario, annullando la pregnanza allegorica precedente.
Solo nella prima metà del XVIII secolo la poesia pastorale subisce, accanto ad una nuova diffusione, anche una nuova significazione nell’ambito del movimento dell’Arcadia e in modo specifico nella corrente di G. B. Crescimbeni, il teorico che, a partire dalle esigenze di rinnovamento letterario dopo l’artificiosità barocca, individua nel rifacimento ai classici e in particolar modo al filone pastorale la possibilità di rappresentare l’innocenza, la semplicità, la grazia e la castità come mezzo di rigenerazione spirituale e intellettuale, oltre che di diletto e ricreazione estetica (Istoria delta vulgar poesia, 1697; Bellezza della vulgar poesia, 1730).
Tali esigenze estetiche trovano espressione letteraria nei sonetti petrarcheggianti e classicheggianti di Zappi e Manfredi, ma soprattutto nelle canzonette pastorali di Zolli che, grazie alla brevità, alle cadenze musicali, alla linearità e alla semplicità formale, esprimono in modo adeguato la tenuità dei sentimenti e lo stemperarsi delle passioni, in opposizione all’eroicità e alla tragicità precedenti. Tuttavia a fianco di prove arcadiche sincere e coscienti, quali quelle del Rolli, si annoverano numerose espressioni poetiche convenzionali e accademiche in cui i paesaggi, i personaggi, i gesti e le situazioni proprie del mondo e della lirica bucolica diventano forme stereotipate, vissute senza consonanza e partecipazione personali e i modelli, Anacreonte e Teocrito per la prima metà del secolo, Virgilio per la seconda metà, sono riprodotti in modo pedissequo. Interessante è anche l’estensione del motivo pastorale e dell’allegoria religiosa nelle opere del Bini.
Sostanzialmente si potrebbe arrivare a dire che nella letteratura italiana, a differenza di altre letterature europee, il tema pastorale cessa con l’Arcadia, dopo aver fornito modelli che ogni letteratura ha sviluppato con apporti originali. Tuttavia non sarebbe esatto. Il tema pastorale continua a dare spunti (immagini, parole-chiave, echi): questi, più che qualche ripresa accademica, rivelano vitalità, definitiva acquisizione, sicurezza di un legame fra autore e lettore a cui una parola può bastare per evocare un mondo poetico. La difficoltà sta nel distinguere questi spunti dai moltissimi topoi neoclassici di cui la nostra letteratura è sempre ricca, anche in epoche di polemica.
Partiamo, pertanto, dal dato certo. Leopardi chiama Idilli sei componimenti scritti fra il 1819 e il 1821 (L’infinito, Alla luna, Lo spavento notturno – pubblicato col titolo di Frammento –, La sera del dì di festa, Il sogno, La vita solitaria), a cui gran parte della critica successiva (ma contrario è, ad esempio, Fubini) darà il nome di Piccoli idilli, definendo invece Grandi idilli componimenti cui non sembra l’autore intendesse riservare tale denominazione (e un problema ancora a parte è quello della datazione e della denominazione del Passero solitario). Il termine idillio fu suggerito a Leopardi dalla lettura e traduzione del poeta bucolico greco Mosco, in particolare dell’opera spuria Epitafio di Bione, citata come esempio di celeste naturalezza nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: pertanto Leopardi dà a idillio il senso di poesia intima, di sentimenti, contrapposta a quella più eloquente delle canzoni, come scriverà egli stesso in un appunto: “Idillii esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”.
Un altro titolo significativo è quello della prima raccolta di Pascoli, Myricae. Il riferimento esplicito è al secondo verso della IV bucolica virgiliana, che nel sottotitolo è citato privo delle prime due parole (non omnis) e quindi capovolto come senso: arbusta iuvant humilesque myricae. Mentre, quindi, Virgilio intendeva nella IV bucolica alzare il tono e cantare “boschi degni di un console”, Pascoli si propone di conservare il tono dimesso del genere, basso come gli arbusti e le tamerici. Non c’è, in realtà, nella raccolta, alcun elemento che potremmo qualificare come pastorale, se non forse il patetismo dei tardi bucolici greci, che già aveva colpito Leopardi; la scelta sembra riferirsi fondamentalmente al registro poetico.
Ancora un titolo troviamo in Montale. Una delle poesie comprese in Ossi di seppia si chiama Egloga. Anche in essa il genere offre solo uno spunto: un’idea di natura come quiete e uniformità – minacciata da elementi esterni, quali il treno e lo sparo, e interni, come l’acquazzone e la canea. Quiete e uniformità, anche quando si ricompongono (tosto potrà rinascere l’idillio), sono comunque insoddisfacenti: la donna intravista e subito sparita non è una Baccante, la quiete è troppa, i pensieri sconnessi, i “vagabondari” infruttuosi. Lo spunto appare quindi sostanzialmente negativo, evocatore di un rapporto creativo uomo-natura non più possibile (3).
Un caso a parte è rappresentato da D’Annunzio. Il poeta identifica con Pan tutto un mondo concettuale che va ben oltre la semplice ripresa bucolica e che eccede, evidentemente, la nostra ricerca. Il testo fondamentale è L’annunzio, uno dei due componimenti che introducono le Laudi: in esplicita polemica sia con Plutarco (che nel De defectu oraculorum, 419 bd, aveva raccontato la rivelazione della morte di Pan) sia con gli interpreti cristiani di Plutarco, che avevano notato la coincidenza cronologica del racconto con la venuta di Cristo (ad esempio Eusebio di Cesarea, Praeparatio evangelica, 5, 17), il poeta canta l’annuncio che Pan è vivo e dà vita e senso alla natura e alle opere dell’uomo, compresa la sua stessa poesia. Ma già nelle opere giovanili troviamo motivi tratti dalla poesia pastorale: da Fantasia pagana scritta a sedici anni, all’Offerta votiva (una rustica offerta a Pan che riprende gli epigrammi dedicatori dell’Anthologia Palatina), al Peccato di maggio (che si apre con una citazione da Teocrito e comprende un’invocazione a Virgilio), il genere offre al poeta soprattutto modelli di vitalità sensuale, cui si aggiunge una dialettica innocenza ~ trasgressione totalmente assente negli originali. Anche la ripresa dei paragoni realistici tratti dalla natura si trasforma in qualcosa d’altro: una immedesimazione uomo/natura che il mondo antico non conosce (e rifiuterebbe): Piove su le tue ciglia nere | sì che par tu pianga | ma di piacere; non bianca | ma quasi fatta virente, | par da scorza tu esca. | E tutta la vita è in noi fresca | aulente, | il cuor nel petto è come pèsca | intatta, | tra le pàlpebre gli occhi | son come polle tra l’erbe, | i denti negli alvèoli | son come mandorle acerbe (La pioggia nel pineto, vv. 97 segg.).
Note
(1) Le pastourelles provenzali, a cui si rimanda, influirono anche sugli autori italiani: una delle ballate del Cavalcanti, In un boschetto trova’ pastorella (Rime 46) narra dell’incontro a lieto fine di un cavaliere e una pastorella; in una delle ballate di Sacchetti, O vaghe montanine pastorelle, troviamo un dialogo malinconico fra il vecchio poeta e delle giovani pastorelle.
(2) Quattordici egloghe ispirate sia a Virgilio sia a Teocrito e a Mosco e Bione compose anche Luigi Alamanni (1495-1556), introducendo motivi autobiografici come l’esilio da Firenze per motivi politici.
(3) Un altro autore del 900, Andrea Zanzotto (1921-2011), ha composto nove egloghe in cui ricorrono i suoi temi più tipici, il paesaggio e il compito del poeta.
Il tema bucolico nella poesia straniera rinascimentale
Nel Medioevo non c’è in Europa una vera e propria letteratura pastorale perché non c’è una idealizzazione della natura. Qualche riflesso della vita dei pastori si trova nelle pastourelles provenzali, contrasti amorosi fra un cavaliere poeta e una villanella rustica, o nelle affini pastorelas lusitano-galleghe o serranillas castigliane, che assunsero forme d’arte, al limite dell’età medioevale, con Inigo Santillana (1398-1458). Nel Rinascimento invece il tema pastorale diviene uno degli elementi dell’estetica classicista, per lo più attraverso la mediazione italiana, a volte direttamente legato all’imitazione di Virgilio o Teocrito.
In Spagna il maggior esponente fu Garcilaso de la Vega (1503-1536), allievo dell’umanista italiano Lucio Marineo Siculo insieme ad altri rappresentanti della cultura d’influsso italiano come Juan Boscán Almogáver, il traduttore del Cortegiano. Negli ultimi anni della sua breve vita Garcilaso de la Vega, ammiratore del Sannazzaro ma anche lettore di Virgilio e Petrarca, compose tre Eglogas in cui s’incontrano tematiche amorose (col nome di Galatea o Elisa canta Isabella Freyre, la donna amata morta intorno al 1530), e idealizzazioni di personaggi della corte spagnola. Nella prima si susseguono due monologhi amorosi, quello di Salicio che lamenta l’indifferenza di Galatea e quello di Nemoroso che piange la morte dell’amata Elisa. La seconda, di quasi duemila versi, contrappone la passione infelice di Albanio per Camilla, cacciatrice sua amica d’infanzia che rifiuta di mutare l’infantile amicizia in rapporto amoroso, con la saggezza di Salicio e la gioiosa esperienza di Nemoroso, che ha incontrato un grande maestro, identificato chiaramente in fra Severo Varini. La terza è un canto amebeo che richiama modelli virgiliani.
Fra Luis de León (1527-1591 ca), agostinano, professore a Salamanca, fu poeta e mistico. Tradusse dalla Bibbia (Cantar de los Cantares), Pindaro, Orazio, Virgilio e i poeti italiani. Tema fondamentale delle sue liriche è la ricerca della vita appartata nella campagna per comunicare con Dio.
In Portogallo scrivono ecloghe fra il ‘400 e il ‘500 Sa de Miranda (che viaggiò in Italia), Bernardim de Ribeiro e Cristobal Falcão. In Francia Remy Belleau (1528-77) poeta della Pléiade, amico di Ronsard che lo definisce “pittore della natura”, traduce Arato, compone Bergeries e Eglogues sacrées prises du Cantique des Cantiques: notiamo quindi come le fonti siano, oltre alla poesia classica della natura e alla poesia italiana, anche la Bibbia, in particolare il più poetico e fascinoso dei suoi testi, rivisitato nello stesso periodo anche da Luis de León.
L’inglese Edmund Spenser compone nel 1579 lo Shepherd’s Calendar (Calendario del pastore), 12 ecloghe dedicate ai mesi dell’anno con contenuto amoroso, allegorico e morale/religioso. In particolare l’ecloga di ottobre è un canto amebeo sul valore della poesia interpretato in chiave platonica. Poemi pastorali di contenuto mitologico e amoroso scrive Michael Drayton nello stesso periodo.
Nel 1599 Mary Sidney contessa di Pembroke compone un canto amebeo in onore di Elisabetta I, A Dialogue betweene two shepheardes, pubblicato nel 1602. I protagonisti sono personaggi tratti dal Calendario di Spenser: Thenot nel November dichiara la sua insufficienza poetica, mentre Piers in May è un ministro protestante che sostiene il linguaggio semplice e sincero. Secondo la tecnica del canto amebeo il pastore che inizia (Thenot) canta tre versi di cui due rimati; il contendente si inserisce con una nuova terzina con due versi rimati e il terzo che deve rimare col terzo dell’avversario. Il tema è l’elogio di Astrea, dea della giustizia, che simboleggia la regina. Ma al reiterarsi degli elogi da parte di Thenot, Piers risponde con continue accuse di menzogna, di immoralità e di incapacità poetica. Thenot chiede di spiegargli come mai, se è my meaning true, my words should ly. E Piers utilizza la parola conceit nel doppio senso di ispirazione e presunzione: Astrea non può essere elogiata adeguatamente, per cui anche se il significato è ispirato, è presunzione voler essere all’altezza dell’oggetto del canto.
Anche Shakespeare risente dell’influenza del tema pastorale, non solo indirettamente (si veda più oltre il riferimento a As You Like It), ma anche esplicitamente nella commedia The Winter’s Tale rappresentata nel 1611. La figlia del re di Sicilia, Perdita, è stata esposta e allevata da un pastore in Boemia. Il momento cruciale delle peripezie di Perdita e del suo innamorato, il principe boemo Florizel, coincide con la festa della tosatura, a cui partecipano Florizel, che si è fatto passare per un pastore, e, travestiti per investigare su questo amore scandaloso, il re e il suo consigliere. La festa costituisce un vero e proprio inserto pastorale: le pastorelle Mopsa e Dorcas con linguaggio fortemente realistico si contendono le attenzioni del fratello adottivo di Perdita; gli elementi nella natura sono descritti con la precisione botanica di Virgilio; frequenti i paragoni agresti e i richiami mitologici. Sono previste anche due danze, una di pastori e pastorelle, l’altra di mandriani travestiti da Satiri. Che si tratti di una sorta di metateatro traspare dalle parole stesse di Perdita: “Mi sembra di venir recitando una parte quale ho veduto nelle pastorali per la Pentecoste” (atto IV, vv. 133-134).
In Polonia la poesia pastorale si rifà direttamente a Virgilio, più che dipendere dalla mediazione italiana. Lo studio di Virgilio era stato introdotto all’università di Cracovia dal protoumanista Grzegorz z Sanoka (Gregorio di Sanok), come racconta il suo biografo Filippo Buonaccorsi, suscitando un grandissimo interesse sia sul piano contenutistico (il mondo polacco fu colpito sempre dalla IV ecloga di Virgilio) sia come modello formale. La più antica poesia latina polacca, il Dialogus de Sbigneo Olesnicki, scritta nel 1461-63 in onore di un vescovo defunto, è ispirata alle ecloghe virgiliane. L’autore più importante di poesia pastorale in latino è Andreas Schoeneus (1552-1615), che scrisse tre ecloghe, Adonis, Daphnis e Palaemon: sotto i nomi classici dei pastori si celano vescovi e amici del poeta, e il Dafni la cui morte è cantata nella seconda ecloga raffigura il re polacco Batory. In polacco scrive invece Szymon Szymonovic (1558-1629), autore di 10 ecloghe (sielanki) d’imitazione classica (Virgilio e Teocrito) e altre dieci maggiormente realistiche, in cui la campagna descritta è quella polacca e ai motivi bucolici vanno sostituendosi motivi georgici. I suoi imitatori, Naborowski, Wieszczycki e Miaskowski, accentuano l’elemento folklorico polacco; dell’ultimo ricordiamo anche poesie religiose natalizie (Rotuly) in cui Apollo e le Muse fanno visita al Presepio e Calliope parafrasa la IV ecloga virgiliana applicandola a Cristo; l’autore è definito dalla Musa Pollio polski (Pollione polacco). Anche in Ungheria l’influsso della letteratura bucolica ha un’importanza rilevante per lo sviluppo della letteratura nazionale.
2. Prosa rinascimentale
Il romanzo pastorale del Sannazzaro costituisce il modello fondamentale per la prosa europea di genere bucolico, spesso costituita da un nucleo narrativo accompagnato da parti liriche. In Spagna Jorge Montemayor (1520-1561), di origine portoghese, imitatore, oltre che del Sannazzaro, dei poeti spagnoli Garcilaso e Ribeira, influenzato dal Petrarca e dalla poesia popolare, scrive Los siete libros de la Diana: narrazioni in prosa di amori di pastori e ninfe con inserti lirici, intorno ad una novella bucolica, Félix y Felismena, presa dal Bandello (II 36). L’opera ebbe un enorme successo e molte imitazioni e continuazioni; fu tradotta in latino e in diverse lingue d’Europa.
In Francia l’influenza del Montemayor fu sentita soprattutto da Honoré d’Urfé (1567-1625), autore, oltre che di liriche pastorali, del lungo romanzo Astrée. L’argomento è l’amore contrastato fra la capricciosa Astrea e il sognatore Celadon: il tema amoroso si unisce ad una idealizzazione della natura e a un sentimentalismo quasi preromantico. Molto apprezzato all’epoca da Madame de Sevigné e La Fontaine, avrà in seguito l’approvazione di Rousseau e un successo europeo, comprese traduzioni tedesche.
Nel 1579 il fratello di Mary Sidney, Philip, già autore di sonetti di derivazione petrarchesca, inizia la composizione del romanzo Arcadia. L’opera, che unisce motivi pastorali e i temi di amore e peripezie tipici del romanzo ellenistico, ebbe due diverse redazioni e fu pubblicata postuma, fondendo la seconda redazione incompleta con parti della prima, fra il 1590 e il 1593. Ebbe un grande successo nel mondo dei letterati inglesi, da Spenser a Shakespeare (che vi si ispirò per un episodio del Re Lear) a Richardson che ne utilizzò il nome di nuovo conio del personaggio Pamela.
Thomas Lodge (1558-1625 ca.) scrive Rosalynde, rielaborando una leggenda medioevale trasferita in ambiente bucolico. L’opera costituirà il modello della shakespeariana As you like it.
La poesia della natura è fortemente sentita sia negli autori influenzati dal fenomeno dell’Arcadia, sia dall’Illuminismo con l’idealizzazione dell’innocenza primigenia, sia dal Neoclassicismo sia dal primo Romanticismo.
Pastorale è la produzione giovanile di Alexander Pope (1688-1744): le sue Pastorals, iniziate a sedici anni e pubblicate nel 1709, ebbero un grande successo e rivelarono la sua già matura abilità di versificatore, nonostante la scarsa originalità; nello stesso periodo compose il Messia, ispirato alla IV ecloga di Virgilio. Probabilmente proprio il successo di pubblico di opere sostanzialmente di maniera provocarono la reazione negativa di Samuel Johson: nel suo racconto satirico The history of Rasselas prince of Abyssinia troviamo una rappresentazione parodistica della vita bucolica, uno dei generi di vita che i protagonisti, fuggiti da una sorta di prigione dorata in cui erano cresciuti, osservano per poter scegliere il genere migliore. E’ interessante rilevare come il tema bucolico sia già divenuto oggetto di parodia: va peraltro notato come tutti i generi di vita osservati risultano insoddisfacenti, in quanto l’opera, come il Candide di Voltaire nello stesso periodo, ha un’impostazione fortemente pessimistica.
William Jones, noto soprattutto come linguista per essere stato uno dei pionieri degli studi indoeuropeistici, compose uno scherzoso poemetto a rime baciate dedicato al gioco degli scacchi, intitolato Caissa or The game of Chess. Sono invocate le Muse, definite sportive maids, e la dea Venere perché assistano il canto. L’ambientazione è un locus amoenus (Near yon cool stream, whose living waters play, / And rise translucent in the solar ray; / Beneath the covert of a fragrant bower, / Where spring’s nymphs reclin’d in calm retreat, / And envying blossoms crouded round their seat), I personaggi hanno nomi pastorali, Agatis, Thyrsis, Sylvia, Daphnis: due in particolare, Delia e Sirena, si sfidano in una gara. L’innamorato Daphnis prepara la scacchiera e con movenze epiche (Say, muse! (for Jove has nought from thee conceal’d)) sono spiegati i vari pezzi e i loro movimenti. Poi Daphnis racconta il mito eziologico: una driade, Caissa, respinge l’amore di Marte; una gentile naiade suggerisce a Marte di regalarle un nuovo gioco ispirato alla guerra e lo manda dal figlio di Venere, fratello di Amore, By gods nam’d Euphron, and by mortals Sport. Il dio inventa il gioco, gli dà il nome della driade (Whence Albion’s sons, who most its praise confess,/ Approv’d the play, and nam’d it thoughtful Chess.) e lo consegna a Marte che lo porta travestito da fauno all’amata. Affascinata dal dono la driade accetta finalmente l’amore del dio. Finito il racconto, Delia e Sirena iniziano la partita, che si prolunga con toni epici, similitudini e riferimenti virgiliani (Hail, happy youths! their glories not unsung / Shall live eternal on the poet’s tongue) e termina con l’aiuto di Daphnis (1)
Nell’ambito degli scrittori di lingua tedesca nasce il Bund di Gottinga, un circolo di poeti che predica la semplicità e il sentimento della natura. A questi fa riferimento lo zurighese Salomon Gessner (1730-1788), lettore di Virgilio e, in traduzione, di Teocrito e Longo Sofista. Oltre a un poemetto Dafni, ispirato al romanzo di Longo, a due drammi pastorali e al poema Morte di Abele (notiamo nuovamente l’influenza biblica sulla letteratura pastorale, accanto a quella classica), Gessner è particolarmente famoso per 50 Idilli in prosa. Nella prefazione afferma di imitare Teocrito, che considera il migliore del genere bucolico; ma la sua concezione della poesia pastorale è assai lontana dal realismo teocriteo, risente piuttosto della idealizzazione della vita campestre tipica delle Georgiche, del tema virgiliano dell’età dell’oro e del moralismo di Longo. Del resto non ha evidentemente idea della civiltà ellenistica: “Teocrito ha avuto la difficile arte di mettere nei suoi versi quella simpatica negligenza che ha dovuto caratterizzare la prima infanzia della poesia… Bisogna convenire che la semplicità dei costumi un po’ meno corrotti del secolo in cui visse, e il pregio in cui era tenuta l’agricoltura, facilitarono molto l’arte di lui”. Il tema dell’amore è comunque sempre presente, un amore lieto e corrisposto, tanto da capovolgere nella conclusione i modelli (Milone; così pure il canto amebeo (Lica e Milone, Damone e Fillide) e il gusto per la descrizione, in cui si risolve, curiosamente, anche l’imitazione della VI ecloga (La brocca rotta); ma accanto a questi temi troviamo il rispetto per i vecchi (Mirtillo, Titiro e Menalca) e la cortesia premiata (Aminta, quasi una fiaba).
Al Bund di Gottinga si riferisce anche Johann Heinrich Voss (1751-1826), filologo, traduttore di Omero (la sua traduzione dell’Odissea resta la fondamentale versione tedesca) e di poeti latini. Compone 20 Idilli in esametri di cui due in dialetto. In essi evoca figure, luoghi, scene popolari della campagna tedesca, ricercando un linguaggio realistico e rifiutando il sentimentalismo romantico. Tre idilli costituiscono insieme una sorta di poemetto, Luise, che descrive il matrimonio campestre di una ragazza figlia di un parroco di villaggio.
L’opera ispirò a Goethe il poemetto classicheggiante Hermann und Dorothea.
In Francia Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814), amico di Rousseau e D’Alembert, si fa divulgatore delle utopie naturistico-umanitarie, del mito di una innocenza areligiosa corrotta della civiltà e dalla società. Il suo romanzo Paul et Virginie, concepito come un Idillio in prosa, risente dell’esotismo avventuroso alla Defoe (i protagonisti sono naufraghi come Robinson), ma soprattutto del moralismo del romanzo di Longo Sofista (forse anche del Cacciatore di Dione Crisostomo?). La fine tragica (Virginie, costretta a tornare alla civiltà, muore e Paul resta solo) porta alle estreme conseguenze il contrasto città/campagna già presente nel modello.
In prosa sono anche i romanzi di George Sand, pseudonimo maschile di Amandine-Aurore-Lucie Dupin (1804-1876), ambientati nella campagna vista come luogo di innocenza e pace. Nella prefazione de La petite Fadette, scritta nel 1848, esprime la sua concezione del compito dello scrittore, che deve diffondere pace con le sue opere senza predicare, ma semplicemente raccontando la natura e gli affetti.
L’influenza del Gessner e dell’idillio sentimentale francese si fece sentire anche nella poesia polacca della natura. Ma nel setteottocento l’elemento dominante della letteratura polacca è l’amore per la propria patria: per questo è ancora Virgilio, soprattutto con le ecloghe I, IX e IV, a fare fondamentalmente da modello. L’autore più rilevante è il romantico Zygmunt Krasinski (1812-1859), che scrive il poema Przedswit (La prealba) dandogli come motto i versi virgiliani Ultima Cumaei venit iam carminis aetas: | magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. In esso afferma la sua fiducia nella rinascita della Polonia, a cui è affidata una missione salvifica nella storia.
NOTE
Benché il poemetto sia quasi sconosciuto, il nome Caissa come dea e protettrice degli scacchisti è molto diffuso fra i cultori degli scacchi, sia come intitolazione di club e siti web sia in slogan e frasi proverbiali. L’idea di un poema sugli scacchi appartiene in realtà ad un umanista cremonese del ‘500, Girolamo Vida, che compose un poemetto scherzoso in esametri latini, Scacchia ludus. Anche qui troviamo un racconto eziologico: durante la festa per le nozze di Oceano e Terra, lo sposo presenta la scacchiera e descrive il gioco con tutte le regole. Giove proibisce agli dèi di parteggiare (Juppiter omnipotens solio rex fatus ab alto, omnes abstinuisse jubet mortalibus armis: atque minis, ne quem foveant, perterret acerbis) e sceglie Apollo e Mercurio come contendenti. Dopo un’epica gara, non sempre corretta, vince Mercurio. Recatosi poi sulle rive del fiume Serio (uno dei fiumi della provincia di Cremona), il dio viola la ninfa Scacchiade e per farsi perdonare le dona il gioco, che risulta quindi di origine italiana.
Evoluzione della letteratura pastorale a fine secolo XIX
Il romanzo pastorale in prosa di George Sand ha molti epigoni nel secondo ottocento francese, ma il messaggio etico ed estetico della scrittrice viene presto abbandonato. Ricordiamo Ferdinand Fabre (1827-1898) che colloca nelle native Cevenne personaggi ora tratti da Teocrito e Longo, ora più realisticamente dai ricordi della propria infanzia (Julien Savignac, Le chevrier), creando un bizzarro linguaggio arcaizzante; e Léon Cladel (1835-1892) che a Parigi sogna una vita di campagna nostalgicamente ricreata, ed elabora una commistione di pastorale ed epopea (Ompdrailles, Bouscassié). Il tramonto del genere, dovuto al progresso industriale e tecnico, è sancito da Theuriet in un passo de La vie rustique: “Quando, al cadere della notte, passeggio per la campagna e, nell’oscurità crescente, vedo fiammeggiare le ciminiere delle fabbriche e sento, sotto le ruote delle locomotive che fuggono, rosse e ansimanti nelle tenebre, il suolo tremare, mi sembra che un sospiro profondo sorga dalla terra e una voce melanconica mormori intorno a me: la vita rustica è finita” (la traduzione è ripresa da AA. VV., Storia della letteratura francese, Garzanti 1985).
Spetta a Stéphane Mallarmé (1842-1899) la rivisitazione della letteratura pastorale. Il progetto iniziale di una breve opera teatrale, secondo il gusto allora diffuso delle performances per un solo attore, viene abbandonato quando la prima stesura dell’opera, Monologue d’un Faune, dotata anche di didascalie per la scena, viene giudicata non adatta al pubblico; una seconda stesura, Improvisation d’un Faune, venne rifiutata dall’autore; l’opera definitiva, Après-midi d’un Faune esce nel 1876, dopo più di dieci anni di rimaneggiamenti, in un’edizione illustrata da Manet, con cui l’autore condivide il gusto impressionistico. Così H. P. Lund spiega il Faune: “Il fauno, incapace di stabilire relazioni ideali con le ninfe amate, costretto a dividere la donna tra erotismo e misticismo (come sempre, del resto, in Mallarmé), si rifugia nell’Arte; suonando il flauto, ricompone il ricordo confuso dell’incontro con le donne, e attraverso quest’Arte giunge a “leggere” la natura come un testo che comprende al suo interno ninfe-segni.” (stessa fonte già citata). Da notare (più di quanto la critica faccia abitualmente) il fatto che la tradizione pastorale teocritea è ancora presente nell’atmosfera di sogno dell’ecloga: l’ambientazione è siciliana (O bordssiciliens d’un calme marecage… Etna!), il gusto della natura ha echi da locus amoenus, e la certezza di poter avere altre donne al posto delle due ninfe richiama alla lontana il Ciclope teocriteo.
Novecento e oltre
Il nuovo secolo si apre con il romanzo dello scrittore francese André Gide La symphonie pastorale (1919). Ha la forma del diario: un pastore protestante ha raccolto un’orfanella cieca contro la volontà della moglie e se ne è preso cura, insegnandole soprattutto la bellezza della realtà esterna a lei preclusa. Il momento fondamentale di questa educazione è l’ascolto della sesta sinfonia di Beethoven, che avvicina la ragazza alla natura e le permette di godere della campagna in cui si reca col suo accompagnatore e di cui immagina vividamente ogni aspetto bello: un locus amoenus invisibile ma ricco di suoni e profumi. Nel mondo di pura bellezza della natura anche l’amore che sorge fra i due sembra innocente: e l’uomo, che vede nel Nuovo Testamento un messaggio d’amore di Cristo e rifiuta l’idea di peccato come un’aggiunta di S.Paolo enfatizzata dai cattolici, accetta la positività di questo amore.
Quando la ragazza in seguito ad un’operazione recupera la vista e allo stesso tempo si converte al cattolicesimo, la sua visione idilliaca entra in crisi: la realtà comprende la bruttezza (il volto dell’anziano amante è diverso da quello immaginato da lei, che si scopre innamorata del figlio), il dolore arrecato agli altri e il peccato. Tenta quindi il suicidio e muore in seguito alle conseguenze del suo gesto. Il romanzo è considerato per lo più come l’espressione del contrasto fra il protestantesimo in cui Gide era cresciuto e il cattolicesimo della famiglia materna, ma rivela soprattutto la nostalgia di un mondo pagano idealizzato e perduto.
Dal romanzo è stato tratto nel 1946 un film, con la regia di Jean Delannoy: la parte della protagonista fu recitata dall’attrice francese Michèle Morgan, che per questa interpretazione ottenne al Festival dio Cannes di quell’anno il premio per la migliore interpretazione femminile.
Nel 1935 esce Hirtennovelle (tr. it. Novella pastorale) di Ernst Wiechert (1887-1950). L’autore, figlio di un guardaboschi e legato al tema della natura nella maggior parte delle sue opere in poesia e prosa, racconta la breve vita di Michele, che da piccolo ha assistito alla morte del padre travolto da un albero e ne ha vegliato e protetto a lungo il cadavere. Il paese si prende cura dell’orfano e gli affida dapprima le oche poi, con una cerimonia quasi solenne, l’intero gregge ed armento della comunità. Michele esegue il suo incarico con ogni cura, superando anche la delusione di vedersi abbandonato dai compagni di giochi ed avventure ormai presi da un’adolescenza di studi e vita mondana. Gli restano amici il compagno più fragile e l’anziano maestro che, ormai pensionato, condivide con lui la passione per la natura. L’incontro con una ragazza sconvolge il giovane ignaro del male, che ne esce però in modo positivo. Quando i prodromi della guerra portano i primi invasori, Michele resta indietro nella fuga per salvare un agnellino e viene ucciso.
La semplice vicenda è continuamente percorsa da temi biblici: il ragazzo che difende con la fionda il gregge da un rivale è paragonato a Davide, il binomio re/pastore è più volte ripreso, mentre il discorso funebre pronunciato dal vecchio maestro richiama l’immagine del Buon Pastore: Era caduto per l’agnello del povero di cui sta scritto nella Bibbia…a nessun pastore di questo mondo poteva toccare sorte maggiore che quella di morire per il più povero capo del proprio gregge. Se la natura in tutte le sue manifestazioni è innocente, e lo spirito pagano (come quello che anima la ragazza tentatrice) non è né buono né cattivo in sé, Dio però chiede di trasformarlo in un più alto spirito per i tempi a venire, come spiega il maestro al ragazzo turbato.
Miklós Radnóti è un poeta ungherese dalla vita breve e drammatica: nato a Budapest nel 1909, ebreo convertito al cattolicesimo, ma ugualmente deportato in diversi campi di concentramento, fu infine ucciso nel 1944 ad Abda, sul confine con l’Austria, dai suoi stessi compatrioti. Appassionato studioso (anche traduttore) di grandi poeti, soprattutto francesi come Villon, Ronsard, Verlaine, e spagnoli come García Lorca, considera compito della poesia quello dell’antico Orfeo [1]: attrarre la natura, far piangere le ninfe, trascinare il lettore con sé, anche nell’aldilà. Fra le sue opere [2] troviamo cinque egloghe scritte in ordine sparso, prima, seconda, quarta, settima e ottava, e la poesia Vola la Primavera – preludio alle egloghe (1942), in cui il tradizionale rifiorire della primavera è visto come inutile, non corrisposto:
Vola la primavera, sciolti i capelli, ma l’angelo dell’antica
libertà più non vola con lei, dorme nel fondo, giace
congelato nel fango giallo, inerte fra inerti radici,
non vede più luce laggiù, né l’esercito di piccole foglie verdi
arricciate sopra i polloni, inutilmente. Niente lo sveglia.
(tr. P. Varvesi).
La numerazione sparsa delle cinque egloghe sembrerebbe un riferimento alle corrispondenti bucoliche virgiliane, ma il rapporto non è sempre chiaro: in tutte il tema di fondo è il compito del poeta. La prima ha come didascalia i versi 505/6 del primo libro delle Georgiche, in cui Virgilio lamenta il sovvertimento portato dalle guerre civili:
quippe ubi fas versum atque nefas: tot bella per orbem,
tam multae scelerum facies.
In un dialogo fra un pastore e il poeta si contrappone l’arrivo della primavera alla guerra che uccide anche i poeti come Lorca o al mondo che ha portato al suicidio il poeta Jószef. Il pastore si chiede quale sia ancora il posto di un poeta, se ha ancora ascolto:
Poeta:
Comunque scrivo, e vivo in mezzo al mondo malato come vive
lì quel tronco; sa che sarà sradicato, ha già la croce bianca che
segnala domani al tagliaboschi dove estirpare – e
in attesa butta nuove gemme.
Gli ultimi versi sono un chiaro richiamo all’ecloga virgiliana: l’invidia per la quiete, il sopravvenire della sera:
Poeta:
Beato te, qui c’è quiete; qui è raro il lupo,
e spesso dimentichi che il gregge non è tuo
perché è mesi che il padrone non ti fa visita.
Ti benedica il cielo, la vecchia sera mi cadrà addosso prima che arrivi a casa,
la farfalla del crepuscolo già svolazza frullando l’argento delle ali.
La quarta è un dialogo fra il poeta e una Voce, che ripercorrono la vita dalla nascita fino a quel momento. Il poeta sogna un cambiamento:
e rinascere di nuovo in un mondo nuovo,
quando acceca con vapori d’oro
la luce del sole che sorge a nuove albe.
Ma l’esile desiderio di palingenesi (non vi è a caso la parola arany, “oro”, che richiama l’età aurea virgiliana) è subito sommerso dal presagio di un mutamento in peggio, una morte che sta maturando: glielo conferma la Voce, esortandolo però a continuare il suo compito: e che tu scriva sul cielo, se tutto è spezzato!
Nelle altre tre il legame con i testi latini non è, si diceva, chiaro. La seconda è una dialogo fra il poeta e un aviatore, che ama volare ma è costretto ora solo a distruggere; al poeta chiede di essergli testimone:
anch’io ho vissuto da essere umano, io che ora distruggo soltanto,
tra cielo e terra senza patria. Ma, ahimè, chi lo capisce…
Scrivi di me?
Il poeta accetta il compito: Se vivo. E se ci sarà ancora per chi.
La settima e l’ottava furono composte nel Lager e fanno parte dei testi trovati sul cadavere di Radnóti quando venne esumato. La settima è dedicata alla moglie Fanni, cui racconta la vita nel Lager, in un mondo cosmopolita di comuni attese e timori. In esso il poeta si ostina a scrivere:
Dimmi, laggiù c’è una casa dove ancora qualcuno intende l’esametro?
Senza strumenti, riga dopo riga, tastando,
scrivo i miei versi nella penombra così come vivo, cieco
come un bruco che striscia le sue dieci dita sulla carta.
Nell’ottava il poeta dialoga con un profeta d’Israele, che si richiama alla grande tradizione veterotestamentaria e invita il poeta a unirsi a lui:
L’ira apparenta poeti e profeti, è nutrimento per il popolo,
è bevanda! Potrebbe viverne chi vuole finché arriva
il paese promesso da quel giovane allievo rabbino,
che ha obbedito alla Legge e alle nostre parole.
Vieni con me ad annunciare che si sta avvicinando l’ora,
già sta per nascere il paese. Mi chiedo: qual è lo scopo
del Signore? Guarda, è quello il paese. Mettiamoci in cammino, vieni,
uniamo il popolo, porta tua moglie e comincia a tagliare i bastoni.
Il bastone è un buon compagno per l’errante, guarda,
dammi quello, che sia il mio, perché lo preferisco se è nodoso.
Seamus Heaney, nato in Irlanda nel 1939 e residente a Dublino, poeta in lingua inglese, ha avuto nel 1995 il premio Nobel per la letteratura. Nel 2011 l’Accademia Nazionale Virgiliana gli ha conferito il Premio Internazionale Virgilio, con una motivazione in cui fra l’altro si legge: Tra gli auctores antichi e moderni che sostanziano l’opera di Seamus Heaney, grande poeta doctus, Virgilio emerge per la sua viva e costante presenza non solo nelle forme consuete della allusione, della citazione, anche della traduzione, ma perfino con la concreta evocazione dell’antico poeta in figura di maestro: con lui, nella memorabile Bann Valley Eclogue, il discepolo irlandese si mette direttamente in dialogo[3]. Il poeta spiegò nel discorso di accettazione del premio il suo rapporto con Virgilio, dai ricordi scolastici, la lettura dell’episodio di Eurialo e Niso, alla traduzione della nona ecloga, in particolare l’amara frase di Menalca sul ruolo del poeta in una società in guerra (carmina tantum / nostra valent, Lycida, tela inter Martia, quantum / Chaonias dicunt aquila veniente columbas, vv. 11-13), alle dodici poesie di Route 110 riferite a episodi del sesto libro dell’Eneide, all’interesse per le Georgiche tradotte dall’amico poeta Peter Fallon.
Della Bann Valley Eclogue, ispirata alla quarta ecloga e composta per celebrare il nuovo millennio, esistono due redazioni, una del 1999 e una rivista e pubblicata nel 2001[4]. La prima, più ampia (undici strofe), è un dialogo fra il Poeta, che si identifica con giovani studiosi ancora alle prime armi, e Virgilio, il maestro, dal passato di giovane poeta cacciato dai campi paterni. Virgilio invita a trovare posto nel nuovo canto per le parole-chiave della sua ecloga, carmen, ordo, nascitur, saeculum, gens, ferrea, aetas, scelus, Lucina: il Poeta ripete il nome della dea e la parola saeculum quasi come una lezione linguistica, segno di una discepolanza che il ricordo della giovinezza del maestro trasforma in un più forte legame. Nella sesta strofa Virgilio preannuncia una grande purificazione dalla colpa comune (le lotte civili in Irlanda) legate alla nascita attesa di una bimba, la nipotina del poeta:
When the waters break
Bann’s stream will overflow, the old markings
will avail no more to keep east bank from west.
The valley will be washed like the new baby.
Le ultime strofe riecheggiano in gran parte l’ecloga virgiliana, fino alla richiesta alla bimba di sorridere alla madre e al mondo, quasi divenendo la Musa invocata nel primo verso:
We know, little one, you have to start with a cry
but smile soon too, a big one for your mother.
Unsmiling life has had it in for people
for far too long. But now you have it in you
not to be wrong-footed but to first-foot us
and, muse of the valley, give us a song worth singing.
La redazione del 2001, quella definitiva, è molto più breve e in parte modificata. Le strofe sono solo sette, la seconda termina già con l’annuncio della palingenesi legata alla nascita della bambina ed è seguita dall’originaria sesta, con l’abolizione quindi del più stretto rapporto di discepolanza e somiglianza esperienziale fra il Poeta e Virgilio; nella parte terminale è abolita l’ultima strofa, quella riportata più sopra. Bernardi Perini ritiene che il poeta latino, dopo l’esaltazione della profezia, tema il pianto del nascituro quasi non confermasse la sua speranza: l’irlandese, invece, che in questa ultima strofa aveva condiviso l’atroce dubbio di Virgilio, col passare di qualche anno vede consolidata nei fatti la fine della lotta fratricida, e cancella ogni traccia di un’angoscia ormai superata.
Lo scrittore americano Philip Roth (1933-2018) scrive nel 1997 il romanzo American Pastoral, incentrato sulla figura di Seymour Levov, detto Swede per l’inusuale biondo dei capelli: all’interno della comunità ebraica di Newark Swede emerge per i suoi successi sportivi, costituendo una sorta di modello e di riscatto per tutto un popolo dalla vita difficile. Ma la storia di Swede, che percorre buona parte del ‘900 ed è coinvolta in diverse vicende del secolo (Vietnam, Watergate, proteste giovanili) finisce per smentire il sogno positivo che sembrava rappresentare.
Il titolo indica un approccio idilliaco e quindi falso alla realtà: più che riferirsi al rapporto con la natura, è legato ad una visione edenica destinata a fallire, come dimostrano i titoli delle tre parti: Paradise remembered, The Fall, Paradise lost.
Dal romanzo è stato tratto nel 2016 un film, con la regia di Ewan McGregor, che interpreta anche la parte del protagonista. (Clicca qui per il trailer ufficiale).
[1] Nella prefazione dell’antologia di poeti da lui curata, Sulle tracce di Orfeo.
[2] La più recente raccolta in italiano col testo a fronte è quella curata da Edith Bruck, Mi capirebbero le scimmie, Donzelli editore, Roma 2009. Dove non altrimenti indicato la traduzione è della curatrice.
[3] Mantova, 15 ottobre 2011. La citazione, come ogni altro riferimento, è tratta da Seamus Heaney, Virgilio nella Bann Valley, a cura di G. Bernardi Perini e C. Prezzavento, Tre Lune Edizioni, Mantova 2013.
[4] Le due redazioni sono state tradotte e analizzate da Bernardi Perini, op. cit., pagg. 39-67.