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Testi bucolici in lingua latina

by Mariapina Dragonetti

Antologia Palatina VII 535

ΜΕΛΕΑΓΡΟΥ
 Οὐκέθ’ ὁμοῦ χιμάροισιν ἔχειν βίον, οὐκέτι ναίειν
    ὁ τραγόπους ὀρέων Πὰν ἐθέλω κορυφάς.
τί γλυκύ μοι, τί ποθεινὸν ἐν οὔρεσιν; ὤλετο Δάφνις,
    Δάφνις, ὃς ἡμετέρῃ πῦρ ἔτεκε κραδίῃ.
ἄστυ τόδ’ οἰκήσω, θηρῶν δέ τις ἄλλος ἐπ’ ἄγρην
    στελλέσθωῥ τὰ πάροιθ’ οὐκέτι Πανὶ φίλα.

Di Meleagro

Non più io voglio, non più abitare sulle cime dei monti ta le caprette, o Pan dai piedi di capro. Che c’è di dolce, che c’è di desiderabile per me tra i monti? Muoia Dafni. Dafni, che ha appiccato il fuoco al nostro cuore. Abiterò qui in città, e qualcun altro si metta a caccia delle fiere. La mia vita di prima non era cara a Pan.

Virgilio

Ecloga VII, vv. 1-37

M. Forte sub arguta consederat ilice Daphnis,
compulerantque greges Corydon et Thyrsis in unum,
Thyrsis oves, Corydon distentas lacte capellas,
ambo florentes aetatibus, Arcades ambo,
et cantare pares et respondere parati.
huc mihi, dum teneras defendo a frigore myrtos,
vir gregis ipse caper deerraverat; atque ego Daphnim
aspicio. Ille ubi me contra videt, ‘ocius’ inquit
‘huc ades, o Meliboee; caper tibi salvos et haedi;
et siquid cessare potes, requiesce sub umbra.
alternis igitur contendere versibus ambo
coepere; alternos Musae meminisse volebant.
Hos Corydon, illos referebat in ordine Thyrsis.
C. Nymphae, noster amor, Libethrides, aut mihi carmen
quale meo Codro concedite (proxima Phoebi
versibus ille facit) aut, si non possumus omnes,
hic arguta sacra pendebit fistula pinu.
T. Pastores, edera crescentem ornate poetam,
Arcades, invidia rumpantur ut ilia Codro;
aut, si ultra placitum laudarit, baccare frontem
cingite, ne vati noceat mala lingua futuro.
C. Saetosi caput hoc apri tibi, Delia, parvos
et ramosa Micon vivacis cornua cervi.
Si proprium hoc fuerit, levi de marmore tota
puniceo stabis suras evincta coturno.
T. Sinum lactis et haec te liba, Priape, quodannis
expectare sat est: custos es pauperis horti.
Nunc te marmoreum pro tempore fecimus; at tu,
si fetura gregem suppleverit, aureus esto.

MELIBEO
Per caso Dafni si era seduto ai piedi di un leccio mormorante, e Coridone e Tirsi avevano radunato insieme le greggi, Tirsi le pecore, Coridone le caprette turgide di latte: entrambi nel fiore dell’eta, entrambi Arcadi, e pari nel cantare e pronti nel rispondere. Qui appunto, mentre io attendevo a proteggere dal freddo i tencri mirti, era arrivato smarrendo il cammino proprio il mio caprone, maschio del gregge; ed io scorgo Dafni. Quando egli a sua volta mi vede: “Presto” dice “vieni qui, o Meliheo; il tuo caprone è in salvo e così i capretti; riposa sotto l’ombra, se puoi indugiare un poco. Qui attraverso i prati giovenchi verranno spontaneamente a bere, qui il Mincio ha coperto le rive verdeggianti di tenere canne, e dalle querce sacre risuona il ronzio degli sciami”. Che fare? io non avevo né Alcippe né Filli per chiudere in casa gli agnelli svezzati, e la gara di Coridone con Tirsi era grande; infine al loro canto ho posposto i miei seri lavori. Con versi alterni cominciarono dunque entrambi a gareggiare; le Muse volevano che li ricordassero alterni. Questi versi ripeteva Coridone, quelli Tirsi subito dopo.
CORIDONE
Ninfe Libetridi, amore nostro, concedetemi un canto quale al mio Codro (egli compone in versi canti vicini a quelli di Febo), o, se non tutti ne siamo capaci qui la mia zampogna canora penderà dal sacro pino.
TIRSI
Pastori Arcadi, ornate di edera il nascente poeta, perché di invidia si rompano le viscere di Codro; o, se darà lodi oltre il lecito, cingetemi la fronte di baccare, perché la mala lingua non nuoccia al vate futuro.
CORIDONE
O Delia il piccolo Micone ti offre questa testa di setoloso cinghiale e le corna ramose di un cervo longevo. Se questo dono durerà, tu ti innalzerai tutta intera nel marmo levigato con i polpacci avvinti da un coturno purpureo.
TIRSI
Ti basti, o Priapo, attenderti ogni anno un boccale di latte e queste focacce; di un orto modesto sei custode. Per il momento ti abbiamo fatto di marrno; ma, se i parti completeranno il gregge, tu diventerai d’oro.

(trad. di M. Geymonat, da Virgilio, Bucoliche, ed. Garzanti, Milano, 1981)

Ecloga IX, vv. 12-43

L. Certe equidem audieram, qua se subducere colles
incipiunt molli que iugum demittere clivo,
usque ad aquam et veteres iam fracta cacumina fagos
omnia carminibus vestrum servasse Menalcan.
M. Audieras, et fama fuit; set carmina tantum
nostra valent, Lycida, tela inter Martia, quantum
Chaonias dicunt aquila veniente columbas.
quod nisi me quacumque novas incidere lites
ante sinistra cava monuisset ab ilice cornix,
nec tuus hic Moeris nec viveret ipse Menalcas.
L. Heu, cadit in quemquam tantum scelus? heu, tua nobis
paene simul te cum solacia rapta, Menalca?
quis caneret nymphas? quis humum florentibus herbis
spargeret aut viridi fontes induceret umbra?
vel quae sublegi tacitus tibi carmina nuper,
cum te ad delicias ferres Amaryllida nostras:
‘Tityre, dum redeo (brevis est via) pasce capellas,
et potum pastas age, Tityre, et inter agendum
occursare capro (cornu ferit ille) caveto’.
M. Immo haec, quae Varo necdum perfecta canebat:
‘Vare, tuum nomen, superet modo Mantua nobis,
Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae,
cantantes sublime ferent ad sidera cycni’.
L. Sic tua Cyreas fugiant examina taxos,
sic cytiso pastae distendant ubera vaccae,
incipe, si quid habes. Et me fecere poëtam
Pierides, sunt et mihi carmina, me quoque dicunt
vatem pastores; sed non ego credulus illis.
Nam neque adhuc Vario videor nec dicere Cinna
digna, sed argutos inter strepere anser olores.
M. Id quidem ago et tacitus, Lycida, me cum ipse voluto,
si valeam meminisse; nequest ignobile carmen.
‘huc ades, o Galatea! quis est nam ludus in undis?
hic ver purpureum, varios hic flumina circum
fundit humus flores, hic candida populus antro
imminet, en lentae texunt umbracula vites:
huc ades; insani feriant sine litora fluctus’.

LICIDA
Eppure l’avevo sentito come cosa certa che dovce i colli cominciano a digradare e a piegare la cima in dolce pendio, fino all’acqua e ai vecchi faggi delle cime ormai spezzate, tutto con i suoi carmi aveva salvato il vostro Menalca.
MERI
L’avrai sentito e ne corse la voce; ma i nostri carmi, Licida, valgono tra le armi di Marte solo quanto, si dice, le caonie colombe all’arrivo delle aquile. Che se una cornacchia da un cavo leccio a sinistra non mi avesse prima ammonito a troncare in qualsiasi modo nuove liti, questo tuo Meri non vivrebbe più, né lo stesso Menalca.
LICIDA
Ahi, qualcuno può essere vittima di un delitto così terribile? ahi, per poco insieme con te non ci furono tolte anche le consolazioni che tu ci dai, Menalca! Chi canterebbe le Ninfe? chi cospargerebbe la terra di erbe fiorite o coprirebbe di verde ombra le fonti? o il canto che ti levai di soppiatto poco fa, mentre ti recavi dal nostro amore Amarilli: “Titiro, finché torno – la via è corta – pascola le caprette e, pasciutele, portale a bere, Titiro, e nel condurle bada a non andar contro al caprone: esso ferisce col corno”.
MERI
Piuttosto questi versi, che ancora incompiuti cantava a Varo: “Varo, il tuo nome i cigni col loro canto leveranno in alto alle stelle, purché ci resti Mantova, Mantova ahimè troppo vicina all’infelice Cremona!”
LICIDA
Possano i tuoi sciami evitare i tassi di Cirno’, possano le tue vacche pasciute di trifoglio colmare le poppe; dai inizio al canto, se hai qualcosa da cantare. Anche me resero poeta le Pieridi, anche io ho canzoni, me pure chiamano vate i pastori; ma io non credo a loro: ancora non mi sembra infatti di comporre cose degne di Vario né di Cinna, ma di strepitare come oca fra i cigni melodiosi.
MERI
È appunto ciò che faccio e in silenzio, Licida, rimugino fra me stesso, se mi riesce di ricordare; e non è un canto ignobile. “Vieni qui, o Galatea; che piacere c’è dunque fra le onde? qui è la splendente primavera, qui sulle rive dei flumi la terra sparge fiori variopinti, qui un candido pioppo sovrasta una grotta e le viti flessibili intessono ombrosi pergolati. Vieni qui; lascia che i flutti battano furiosi i lidi”.
(trad. di M. Geymonat, da Virgilio, Bucoliche, ed. Garzanti, Milano, 1981)

Calpurnio Siculo

Ecl. I, vv. 36-53

Vos o praecipue nemorum gaudete coloni,
vos populi gaudete mei: licet omne uagetur
securo custode pecus nocturna que pastor
claudere fraxinea nolit praesepia crate:
non tamen insidias praedator ovilibus ullas
afferet aut laxis abiget iumenta capistris.
Aurea secura cum pace renascitur aetas
et redit ad terras tandem squalore situque
alma Themis posito iuvenemque beata sequuntur
saecula, maternis causam qui vicit Iulis.
Dum populos deus ipse reget, dabit impia victas
post tergum Bellona manus spoliataque telis
in sua vesanos torquebit viscera morsus
et, modo quae toto civilia distulit orbe,
secum bella geret: nullos iam Roma Philippos
deflebit, nullos ducet captiva triumphos;
omnia Tartareo subigentur carcere bella

Voi soprattutto gioite, abitatori dei boschi, voi gioite, o miei popoli: tutto il bestiame erri pure senza preoccupazioni per il guardiano, e il pastore rifiuti di chiudere la notte le stalle con graticci di frassino: tuttavia il ladro non tenderà insidie agli ovili né porterà via i giumenti con flessibili cavezze. L’età dell’oro rinasce con pace sicura e ritorna alfine sulla terra l’alma Tomi, deposto lo sporco e il torpore, e secoli felici seguono il giovane, che vinse con l’aiuto dei materni Giulii. Mentre il dio stesso reggerà i popoli, l’empia Bellona incrocerà le mani vinte dietro la schiena e privata delle armi darà folli morsi alle sue viscere e farà contro sé stessa le guerre civili che appena prima aveva propagato in tutto il mondo. Roma non avrà più da piangere una nuova Filippi, non seguirà trionfi da prigioniera. Tutte le guerre saranno rinchiuse in un carcere infernale e immergeranno il capo nelle tenebre e temeranno la luce.

Prudenzio

Cathemerinon, 8, vv. 33 ss.

Ille ovem morbo residem gregique
perditam sano, male dissipantem
vellus adfixis vepribus per hirtae
devia silvae
La pecora, che è fermata dal male e perduta dal gregge sano, e sciupa malamente il vello strappato dai rovi per vie sconosciute del bosco spinoso,
inpiger pastor revocat lupisque
gestat exclusis umeros gravatus,
inde purgatam revehens aprico
reddit ovili.
lui, solerte pastore, la richiama, e, cacciati i lupi, la riporta caricandosi del suo peso le spalle, poi, risanatala, la rende al soleggiato ovile,
Reddit et pratis viridique campo,
vibrat inpexis ubi nulla lappis
spina nec germen sudibus perarmat
carduus horrens,
la rende ai prati e alla verde pianura, dove nessuna spina oscilla sulle lappole ispide, né il cardo irsuto arma di punte il suo germoglio,
sed frequens palmis nemus et reflexa
vernat herbarum coma, tum perennis
gurgitem vivis vitreum fluentis
laurus obumbrat.
ma il bosco è fitto di palme e la chioma piegata indietro della verzura rifiorisce, e l’alloro perenne ombreggia sulle vive correnti l’acqua cristallina

 Endelechio 

 De mortibus boum , vv. 1-24; 85-96

ÆG    Quidnam solivagus, Bucole, tristia
Demissis graviter luminibus gemis?
Cur  manant lacrimis largifluis genae?
    Fac, ut norit amans tui!

BUC    Ægon, quaeso, sinas alta silentia
Aegris me penitus condere sensibus.
Nam vulnus reserat, qui mala publicat,
    Claudit, qui tacitum premit.

ÆG    Contra est quam loqueris, recta nec autumas.     Nam divisa minus sarcina fit gravis,
Et quicquid tegitur, saevius incoquit.
    Prodest sermo doloribus.

BUC     Scis, Aegon, gregibus quam fuerim potens,
Ut totis pecudes fluminibus vagae
Complerent etiam concava vallium,
    Campos et iuga montium:

Nunc lapsae penitus spes et opes meae,
Et longus peperit quae labor omnibus
Vitae temporibus, perdita biduo.
        Cursus tam litus est malis!

ÆG     Haec iam dira lues serpere dicitur.
Pridem Pannonios, Illyrios quoque
Et Belgas graviter stravit et impio
    Cursu nos quoque nunc petit.
………………..
BUC     Quam multis foliis silva cadentibus
Nudatur gelidis tacta aquilonibus,
Quam densis fluitant velleribus nives,
Tam crebrae pecudum neces.
   
Nunc totum tegitur funeribus solum;
    Inflantur tumidis corpora ventribus,
Albent lividulis lumina nubibus,
    Tenso crura rigent pede.

Iam circum volitant agmina tristium
Dirarumque avium, iamque canum greges
    Insistunt laceris visceribus frui,
    Heu cur non etiam meis?
Egone: Perché, Bucolo, ti lamenti girando tutto solo con gli occhi pesantemente a terra? Perché le guance sono piene di lacrime fluenti?
Fallo sapere all’amico. 

Bucolo Egone, ti prego, lascia che un profondo silenzio io tenga riservato nei miei sentimenti afflitti. Chi rende pubbliche le disgrazie riapre le ferite, le chiude chi le rinserra tacitamente. 

Egone. Non è come dici e non pensi correttamente. Il peso condiviso diventa più leggero, e ciò che viene coperto s’infiama in modo piùcrudele. Il discorrere è utile ai dolori. 

Bucolo. Tu sai, Egone, quanto ero ricco di greggi, al punto che le mie mandrie vagando per tutti i fiumi riempivano anche gli angoli delle valli, i campi e i giochi delle montagne

Adesso tutte le mis speranze e le mie ricchezze sono crollate e ciò che una lunga fatica aveva prodotto in tutto il corso della vita, in due giorni sono andate perse. Hanno un corso così rapido le disgrazie!

Egone Si dicce da tempo.che questa peste tremenda stia circolando. Prima ha colpito la Pannonia, poi anche l’Illiria, e ha prostrato pesantemente i Belgi e ora col suo corso empio si dirige anche da noi.
…………….
Bucolo. Quanto la selva al cadere delle foglie toccata dal gelido Aquilone viene spogliata, di quanti densi fiocchi cadono le nevi, altrettanto frequenti sono le morti del bestiame. 

Adesso tutto il terreno è coperto di corpi morti. I corpi si gonfiano col ventre tumido, gli occhi diventano bianchi di velature livide, le zampe
s’irrigidiscono col piede proteso. 

Già tutt’intorno svolazzano stormi di tristi e crudeli uccelli e già branchi di cani premono per trarre godimento dalle viscere straziate.
Ahimè, perché non anche dellemie?

Alcuinus Eboracensis

Versus de cuculo, vv. 11-24

D. Omne genus hominum cuculum conplangat ubique,
Perditus est, cuculus, heu, perit ecce meus.
M. Non pereat cuculus, veniet sub tempore veris,
Et nobis veniens carmina laeta ciet.
D. Quis scit, si veniat; timeo, est summersus in undis, V
vorticibus raptus atque necatus aquis.
M. Heu mihi, si cuculum Bachus dimersit in undis,
Qui rapiet iuvenes vortice pestifero.
D. Si vivat, redeat, nidosque recurrat ad almos,
Nec corvus cuculum dissecet ungue fero.
M. Heu quis te, cuculus, nido rapit ecce paterno?
Heu rapuit, rapuit, nescio si venias.
D. Carmina si curas, cuculus, citus ecce venito,
Ecce venito, precor, ecce venito citus.


D. Tutta la stirpe umana ovunque compiange il cuculo: è perduto, ohimè, ecco il mio cuculo è morto.
M. Che possa non morire il cuculo: verrà alla stagione della primavera, e venendo ci canterà carmi gioiosi.
D. Chi sa se verrà? è sommerso, io temo, nelle onde, rapito dai gorghi e ucciso dalle acque.
M. Ahimè se Bacco ha affogato il cuculo nelle onde, lui che rapisce i giovinetti in vortici pestilenziali.
D. Se è vivo, possa tornare, e rientri di corsa nei nidi che lo nutrono, e che il corvo non strazi con l’unghia feroce il cuculo
M. Ahimè, chi, o cuculo, ti rapisce, ecco, dal nido paterno? Oh sì, ti ha rapito, ti ha rapito, e non so se tornerai.
D. Se ti sta a cuore la poesia, o cuculo, vieni, su, veloce, su vieni, te ne prego, su, vieni veloce.

Conflictus veris et hiemis, vv. 1-15

Conveniunt subito cuncti de montibus alti
pastores pecudum vernali luce sub umbra
arborea, pariter laetas celebrare Camenas.
Adfuit et iuvenis Daphnis seniorque Palaemon:
Ver quoque florigero succinctus stemmate venit,
Frigida venit Hiems, rigidis hirsuta capillis.
His certamen erat cuculi de carmine grande.
Ver prior adlusit ternos modulamine versus:

VER
Opto meus veniat cuculus, carissimus ales.
Omnibus iste solet fieri gratissimus hospes
In tectis modulans rutilo bona carmina rostro”.

HlEMS
Tum glacialis Hiems respondit voce severa:
“Non veniat cuculus, nigris sed dormiat antris.
Iste famem secum semper portare suescit”.

Si radunano tutti dagli alti monti i pastori di armenti all’ombra degli alberi nel chiarore primaverile, per celebrare insieme le Muse. Era presente anche il giovane Dafni e il più anziano Palemone. Venne anche la Primavera cinta di una corona, venne il freddo Inverno, irsuto coi suoi ispidi capelli. Questi iniziarono una tenzone grande sul cuculo. Primavera per prima iniziò a poetare modulando tre versi.

Pr.: Desidero che torni il mio cuculo, carissimo volatile. A tutti questo suole essere l’ospite più gradito modulando col suo rosso becco belle canzoni sui tetti.

Inv.: Allora Inverno ghiacciato rispose con voce severa: “Che non torni il cuculo, ma dorma negli antri bui. Lui porta sempre con sé la fame”.