Guido Cavalcanti
In un boschetto
In un boschetto trova’ pasturella
più che la stella – bella, al mi’ parere.
Cavelli avea biondetti e ricciutelli,
e gli occhi pien’ d’amor, cera rosata;
con sua verghetta pasturav’ agnelli;
[di]scalza, di rugiada era bagnata;
cantava come fosse ’namorata:
er’ adornata – di tutto piacere.
D’amor la saluta’ imantenente
e domandai s’avesse compagnia;
ed ella mi rispose dolzemente
che sola sola per lo bosco gia,
e disse: «Sacci, quando l’augel pia,
allor disïa – ’l me’ cor drudo avere».
Po’ che mi disse di sua condizione
e per lo bosco augelli audìo cantare,
fra me stesso diss’ i’: «Or è stagione
di questa pasturella gio’ pigliare».
Merzé le chiesi sol che di basciare
ed abracciar, – se le fosse ’n volere.
Per man mi prese, d’amorosa voglia,
e disse che donato m’avea ’l core;
menòmmi sott’ una freschetta foglia,
là dov’i’ vidi fior’ d’ogni colore;
e tanto vi sentìo gioia e dolzore,
che ’l die d’amore – mi parea vedere.
Boccaccio
Commedia delle ninfe fiorentine (Ninfale d’Ameto), V, 1-3
1. Ameto, poi che de’ cani gli fuggì la paura e l’angelica voce ebbe ricominciata la bella canzone, con timido passo a quelle si fece vicino; e poggiato in terra il noderoso bastone, sopra la sommità di quello compose ambo le mani, e sopra esse il barbuto mento fermato, come se quivi non fosse, fiso la cantante, alienato, mirava; la quale, poi che ebbe posta fine alle sue note, dopo lungo spazio, cotale in sé si mosse quale colui che da profondo sonno è a vigilia subito rivocato, il quale, gli occhi volgendo sonnolenti in giro, quasi appena conosce dove si sia; di che le compagne di Lia, vedutolo, a forza ritennero le vaghe risa agli occhi già venute per dimostrarsi. Egli appena, aiutandolo la forte mazza, in piè rimase, ma pur si sostenne; e poi che tutto fu del preso stordimento uscito, quivi, sanza niente parlare a quelle, si pose sopra l’erbe a sedere; e, rimirando la bella ninfa con l’altre sopra gli ornati prati sollazzevolmente giucante, la vede di quel colore nel viso lucente, del quale si dipigne l’Aurora, vegnente Febo col nuovo giorno, e i biondi capelli, con vezzose ciocche sparti sopra le candide spalle, ristretti da fronzuta ghirlanda di ghiandifera quercia discerneli; e rimirandola tutta con occhio continuo, tutta in sé la loda, e insieme con lei la voce, il modo, le note e le parole della udita canzone; e in sé con non falso pensiero reputa beato chi di sì bella giovane la grazia possiede; e in cotale pensiero dimorando, sé medesimo mira, quasi dubbio fra ‘l sì e ‘l no d’acquistarla; e alcuna volta, sé degno di quella estimando, in sé si rallegra; poi, con più sottile investigazione ricercandosi, danna larozzezza della sua forma con l’avuta letizia, e indegno si reputa della ninfa; ma dopo questo pensiero riforma il primo, e dopo il primo nel secondo ricade, ora dannando, ora sé lodando nella sua mente. E così in continui combattimenti s’accende del piacere di colei la quale mai più non aveva davanti veduta; e quanto che elli imagini il nuovo disio non dovere al disiderato fine arrecare, cotanto più di quello l’appetito s’affuoca.
2. Egli, grosso e nuovo in queste cose, non sappiendo onde tal passione si movesse, né chi lo stimoli, mirando la ninfa, alli mai non sentiti amori apre la via e già conosce il suo disio dagli occhi di colei ricevere alcun conforto: per la qual cosa, più e più fiso mirandoli, credendosi forse porre fine a quello col riguardarla, più forte gli apparecchia principio e più l’alluma, e, non sappiendo come, bevendo con gli occhi il non conosciuto fuoco, s’accende tutto. E sì come la fiamma si suole nella superficie delle cose unte con sùbito movimento gittare e, quelle leccando, leccate fuggire e poi tornare, così Ameto, colei rimirando, s’affuoca; e come da lei gli occhi toglie, fugge la nuova fiamma, ma per lo sùbito più mirare, torna più fiera. Né prima di questo si prese il giovane guardia che amore inestinguibile nella calda mente prese etterne forze. Onde egli, in sé molte volte le parole della udita canzone ripensando, tutte le ‘ntende, ma solamente chi questo Amore si sia, non conosce; per che così fra sé quivi con voce tacita cominciò a parlare:
3. – O celestiali iddii, di tutti ho già, co’ satiri dimorando, la mirabile potenzia ascoltata e ciascuno in parte m’è noto; ma solamente questo Amore, per cui costei si diletta d’essere seguita e del quale ella cotanto canta, io nol conosco, né le sue vie vidi già mai; per che io voi e lui per li suoi medesimi meriti priego che mi si faccia conoscere, acciò che io sappia in che piacere a costei, gli occhi di cui hanno avuta forza di trarmi dalle mie ombre, di farmi dimenticare la mia preda, d’abandonare l’arco, le saette e i cani miei. Ella sola mi piace: io non so se questo si chiama Amore o se cotale effetto muove dalla colui deità, nome prendendo dal suo motore. S’egli è così, sopra ogni altra cosa m’è caro, e se così non è, ella pur piace. –
Ninfale fiesolano, str. 5-15
5. Prima che Fiesol fosse edificata
di mura o di steccati o di fortezza,
da molta poca gente era abitata:
e quella poca avea presa l’altezza
de’ circustanti monti, e abandonata
istava la pianura per l’asprezza
della molt’acqua ed ampioso lagume,
ch’a piè de’ monti faceva un gran fiume.
6. Era ‘n quel tempo la falsa credenza
degl’iddii rei, bugiardi e viziosi;
e sì cresciuta la mala semenza
era, ch’ognun credea che graziosi
fosson in ciel come nell’apparenza;
e lor sacrificavan con pomposi
onori e feste, e sopra tutti Giove
glorificavan qui sì come altrove.
7. Ancor regnava in que’ tempi un’iddea
la qual Diana si facea chiamare,
e molte donne in divozion l’avea;
e maggiormente quelle ch’osservare
volean verginità, e che spiacea
lor la lussuria e a lei si volean dare,
costei le riceveva con gran feste,
tenendole per boschi e per foreste.
8. Ed ancor molte glien’erano offerte
dalli lor padri e madri, che promesse
l’avean a lei per boti, e chi per certe
grazie o don che ricevuto avesse;
Diana tutte con le braccia aperte
le riceveva, pur ch’elle volesse
servar verginità e l’uom fuggire,
e vanità lasciar e lei servire.
9. Così per tutto ‘l mondo era adorata
questa vergine iddea; ma ritornando
ne poggi fiesolan, dove onorata
più ch’altrove era, lei glorificando,
vi vo’ contar della bella brigata
delle vergini sue, che, lassù stando,
tutte eran ninfe a quel tempo chiamate
e sempre gìan di dardi e d’archi armate.
10. Avea di queste vergini raccolte
gran quantità Diana, del paese,
per questi poggi, benché rade volte
dimorasse con lor molto palese,
sì come quella che n’aveva molte
a guardar per lo mondo dall’offese
dell’uom; ma pur, quando a Fiesol venìa,
in cotal modo e guisa ella apparia:
11. ell’era grande e schietta come quella
grandezza richiedea, e gli occhi e ‘l viso
lucevan più ch’una lucente stella,
e ben pareva fatta in paradiso,
con raggi intorno a sé gittando quella,
sì che non si potea mirar ben fiso;
e’ cape’ crespi e biondi, non com’oro,
ma d’un color che vie meglio sta loro.
12. E le più volte sparti li tenea
sopra ‘l divelto collo, e ‘l suo vestire
a guisa d’una cioppa il taglio avea;
d’un zendado era ch’a pena coprire,
sì sottil era, le carni potea:
tutta di bianco, sanz’altro partire
cinta nel mezzo, e talor un mantello
di porpora portava molto bello.
13. Venticinque anni di tempo mostrava
sua giovinezza, sanz’aver niun manco;
nella sinistra man l’arco portava,
e ‘l turcasso pendea dal destro fianco,
pien di saette, le qua’ saettava
alle fiere selvagge, e talor anco
a qualunque uom che lei noiar volesse
e le sue ninfe gli uccidea con esse.
14. In cotal guisa a Fiesole venìa
Diana le sue ninfe a visitare,
e con bel modo, graziosa e pia,
assai sovente le facea adunare
intorno a fresche fonti, o all’ombria
di verdi fronde, al tempo ch’a scaldare
comincia il sol la state, com’è usanza;
e di verno al caldin faceano stanza.
15. E quivi l’amoniva tutte quante
nel ben perseverar verginitate;
alcuna volta ragionan d’alquante
cacce che fatte aveano molte fiate
su per que’ poggi, seguendo le piante
delle fiere selvagge, che pigliate
e morte assai n’avean, ordine dando
per girle ancor di nuovo seguitando.
J. Sannazzaro
Arcadia, Ecloga I
SELVAGGIO, ERGASTO
SELV. Ergasto mio, perché solingo e tacito
pensar ti veggio? Oimè, che mal si lassano
le pecorelle andare a lor ben placito!
Vedi quelle che ‘l rio varcando passano;
vedi quei duo monton che ‘nsieme correno
come in un tempo per urtar s’abassano.
Vedi c’al vincitor tutte soccorreno
e vannogli da tergo, e ‘l vitto scacciano
e con sembianti schivi ognor l’aborreno.
E sai ben tu che i lupi, ancor che tacciano,
fan le gran prede; e i can dormendo stannosi,
però che i lor pastor non vi s’impacciano.
Già per li boschi i vaghi ucelli fannosi
i dolci nidi, e d’alti monti cascano
le nevi, che pel sol tutte disfannosi.
E par che i fiori per le valli nascano,
et ogni ramo abbia le foglia tenere,
e i puri agnelli per l’erbette pascano.
L’arco ripiglia il fanciullin di Venere,
che di ferir non è mai stanco, o sazio
di far de le medolle arida cenere.
Progne ritorna a noi per tanto spazio
con la sorella sua dolce cecropia
a lamentarsi de l’antico strazio.
A dire il vero, oggi è tanta l’inopia
di pastor che cantando all’ombra seggiano,
che par che stiamo in Scitia o in Etiopia.
Or poi che o nulli o pochi ti pareggiano
a cantar versi sì leggiadri e frottole,
deh canta omai, che par che i tempi il cheggiano.
ERG. Selvaggio mio, per queste oscure grottole
Filomena né Progne vi si vedono,
ma meste strigi et importune nottole.
Primavera e suoi dì per me non riedono,
né truovo erbe o fioretti che mi gioveno,
ma solo pruni e stecchi che ‘l cor ledono.
Nubbi mai da quest’aria non si moveno,
e veggio, quando i dì son chiari e tepidi,
notti di verno, che tonando pioveno.
Perisca il mondo, e non pensar ch’io trepidi;
ma attendo sua ruina, e già considero
che ‘l cor s’adempia di pensier più lepidi.
Caggian baleni e tuon quanti ne videro
i fier giganti in Flegra, e poi sommergasi
la terra e ‘l ciel, ch’io già per me il desidero.
Come vuoi che ‘l prostrato mio cor ergasi
a poner cura in gregge umile e povero,
ch’io spero che fra’ lupi anzi dispergasi?
Non truovo tra gli affanni altro ricovero
che di sedermi solo appiè d’un acero,
d’un faggio, d’un abete o ver d’un sovero;
ché pensando a colei che ‘l cor m’ha lacero
divento un ghiaccio, e di null’altra curomi,
né sento il duol ond’io mi struggo e macero.
SELV. Per maraviglia più che un sasso induromi,
udendoti parlar sì malinconico,
e ‘n dimandarti alquanto rassicuromi.
Qual è colei c’ha ‘l petto tanto erronico,
che t’ha fatto cangiar volto e costume?
Dimel, che con altrui mai nol commonico.
ERG. Menando un giorno gli agni presso un fiume,
vidi un bel lume in mezzo di quell’onde,
che con due bionde trecce allor mi strinse,
e mi dipinse un volto in mezzo al core
che di colore avanza latte e rose;
poi si nascose in modo dentro all’alma,
che d’altra salma non mi aggrava il peso.
Così fui preso; onde ho tal giogo al collo,
ch’il pruovo e sollo più c’uom mai di carne,
tal che a pensarne è vinta ogni alta stima.
Io vidi prima l’uno e poi l’altro occhio;
fin al ginocchio alzata al parer mio
in mezzo al rio si stava al caldo cielo;
lavava un velo, in voce alta cantando.
Oimè, che quando ella mi vide, in fretta
la canzonetta sua spezzando tacque,
e mi dispiacque che per più mie’ affanni
si scinse i panni e tutta si coverse;
poi si sommerse ivi entro insino al cinto,
tal che per vinto io caddi in terra smorto.
E per conforto darmi, ella già corse,
e mi soccorse, sì piangendo a gridi,
c’a li suo’ stridi corsero i pastori
che eran di fuori intorno a le contrade,
e per pietade ritentàr mill’arti.
Ma i spirti sparti al fin mi ritornaro
e fen riparo a la dubbiosa vita.
Ella pentita, poi ch’io mi riscossi,
allor tornossi indietro, e ‘l cor più m’arse,
sol per mostrarse in un pietosa e fella.
La pastorella mia spietata e rigida,
che notte e giorno al mio soccorso chiamola,
e sta soperba e più che ghiaccio frigida,
ben sanno questi boschi quanto io amola;
sannolo fiumi, monti, fiere et omini,
c’ognor piangendo e sospirando bramola.
Sallo, quante fiate il dì la nomini,
il gregge mio, che già a tutt’ore ascoltami,
o ch’egli in selva pasca o in mandra romini.
Eco rimbomba, e spesso indietro voltami
le voci che sì dolci in aria sonano,
e nell’orecchie il bel nome risoltami.
Quest’alberi di lei sempre ragionano
e ne le scorze scritta la dimostrano
c’a pianger spesso et a cantar mi spronano.
Per lei li tori e gli arieti giostrano.
Arcadia, Ecloga V
ERGASTO
Alma beata e bella,
che da’ legami sciolta
nuda salisti nei superni chiostri,
ove con la tua stella
ti godi inseme accolta,
e lieta ivi, schernendo i pensier nostri,
quasi un bel sol ti mostri
tra li più chiari spirti,
e coi vestigii santi
calchi le stelle erranti;
e tra pure fontane e sacri mirti
pasci celesti greggi,
e i tuoi cari pastori indi correggi;
altri monti, altri piani,
altri boschetti e rivi
vedi nel cielo, e più novelli fiori;
altri Fauni e Silvani
per luoghi dolci estivi
seguir le Ninfe in più felici amori.
Tal fra soavi odori
dolce cantando all’ombra
tra Dafni e Melibeo
siede il nostro Androgeo,
e di rara dolcezza il cielo ingombra,
temprando gli elementi
col suon de novi inusitati accenti.
Quale la vite a l’olmo,
et agli armenti il toro,
e l’ondeggianti biade ai lieti campi,
tale la gloria e ‘l colmo
fostù del nostro coro.
Ahi cruda morte, e chi fia che ne scampi,
se con tue fiamme avampi
le più elevate cime?
Chi vedrà mai nel mondo
pastor tanto giocondo,
che cantando fra noi sì dolci rime
sparga il bosco di fronde
e di bei rami induca ombra su l’onde?
Pianser le sante Dive
la tua spietata morte;
i fiumi il sanno e le spelunche e i faggi;
pianser le verdi rive,
l’erbe pallide e smorte,
e ‘l sol più giorni non mostrò suoi raggi;
né gli animai selvaggi
usciro in alcun prato,
né greggi andàr per monti
né gustaro erbe o fonti,
tanto dolse a ciascun l’acerbo fato;
tal che al chiaro et al fosco
“Androgeo Androgeo” sonava il bosco.
Dunque fresche corone
a la tua sacra tomba
e voti di bifolci ognor vedrai;
tal che in ogni stagione,
quasi nova colomba,
per bocche de’ pastor volando andrai;
né verrà tempo mai
che ‘l tuo bel nome estingua,
mentre serpenti in dumi
saranno, e pesci in fiumi.
Né sol vivrai ne la mia stanca lingua,
ma per pastor diversi
in mille altre sampogne e mille versi.
Se spirto alcun d’amor vive fra voi,
querce frondose e folte,
fate ombra a le quiete ossa sepolte.
Matteo Boiardo
Ecloga X
Ne l’ultima parla lo auttore e canta Orfeo el panagirico de lo incomparabile Signor Duca de Calabria.
Sorge, Aretusa, e fonde ogni tua vena
ché l’alta fonte che è tra Cirra e Nisa
non bastarebe a tanta empresa apena.
Questa matera che mia mente avisa,
fuor de gli usati paschi è da cantare
cum meglior voce e versi de altra guisa.
Venite, belle Ninfe, ad ascoltare:
or non vi narrerò le pome de oro
che fér nel corso Ippomene avanzare;
né porò l’Orse tra le stelle in coro,
nì vi dirò di Crete il labirinto,
nì quel di Tebe o qual fo più lavoro;
o come fosse da Poluce vinto
Bebrida al cesto, o le Arpie spenachiate,
e ciò che ogni poeta ha già dipinto.
Dir non voglio io queste opere vulgate,
ma la virtute splendida de un duce
qual non ha pari in questa o in altra etate,
se quello inmenso affetto che me aduce
a narrar opra sì sublime e grave
me confonde gli ochi in tanta luce.
Quei che passarno cum la prima nave
eber cum sieco il bel figlio di Febo,
qual fo nel canto più che altri soave:
colui, dico io, che da il dolente Erebo
tornò sonando, e da le Bacce occiso
fo, sendo ancora giovene ed efebo.
Questo cum dolce voce e cum bel viso
piegava e’ scogli e facea stare il vento,
movea le piante a pianto e i saxi a riso,
passando per la spiaggia lento lento,
là dove le Sirene a dolci versi
faceano in zoglia altrui morir contento;
e ‘ naviganti tuti eran già persi
né si potean sé stessi contenire,
ma il volto e i remi al canto avian conversi.
Alor comenciò lui suo canto a ordire
cum tal dolcezza che ogni mente oblitera
e la Sirena taque per odire.
Rimena il plectro de oro in su la citera
e cum le corde acorda la sua voce,
e il mare e il monte intorno la reitera.
E cerco a lui vi avea delfini e fòce,
cèto né altro monstro al fondo resta,
ma ciascun trage al canto più veloce.
Tuti del mare avean sorta la testa
e ciaschedun più presso ascoltar vole
la cantilena, ch’a quel suon fo questa:
– Eo vedo ussir da lo occidente un Sole,
se Apollo a me, suo figlio, il ver predice,
che ascende ove questo altro scender sòle,
e fermarasse in su questa pendice
che ora vedeti avanti sì diserta,
ma fia più ch’altra nobile e felice.
Poi che sarà la Vergine scoperta
e ritrovata a quella sepoltura
da gente nova e da abitare incerta,
longo quel litto sorgeran le mura
di quella alma cità, qual di vageza
e de alta fama non avrà misura:
né ciò dico per possa o per vechieza,
per soperbi edifici o per bel sito,
o per sua gente a le virtute aveza,
ma perché il novo Sol de Spagna ussito,
poi che avrà lustregiato tuto il mondo,
fermarà la sua luce in questo lito.
Da le superne stelle al mar profondo
la terra sonerà del primo *Alfonso*,
e seconderà il nome nel secondo.
Né fia di Delfo oraculo o responso
la gloria di costui, ma tanto chiara
quanto di raggi ha Febo il capo intonso.
Natura generosa che rippara
in regal sangue alcun lignaggio antico,
in altra stirpe più non se rischiara;
nì Atalarico già nì Rodorico,
che a quest’inclita iesta son di sopra,
oguagliar se potrano a quel che io dico.
Vedeti che a sì grande e nobil opra,
quale è produtta per cotanti onori,
par che ogni stella il bel viso discopra;
vedeti il mondo ornato a rose e a fiori,
e il mar tornato di sapor di mèle,
spirar il vento de cinamo odori;
tigri e serpenti e ogni animal crudele
rari sarano, e se qualcun ne fia,
sarà senza veneno e senza fele.
Come fia nato, a lui per compagnia,
sarà donato Amor cum gli ochi aperti
e Gentilezza e Ardire e Cortesia;
né sarano a sue guanze e’ pel scoperti
che de lui s’oderà non dico segno,
ma prove d’uom compiuto e fatti experti.
A la difesa del paterno regno,
quasi fanciullo, ov’è Troia minore
di cotal parte si mostrarà degno.
Non crescerà suo triunfal onore
com’altri a poco a poco, ma ad un ponto
darà per tuto subito fulgore.
La bellica prodezza ch’io ve conto
fia tuta sieco, e non sarà divelta
sinché fia al cielo in anima ragionto.
E come il Mauro ha l’asteciola inselta
e quel di Baleare ha la sua fronda,
il Scita l’arco e Amazone la pelta,
così parrà che ogn’arte a lui risponda,
non sol che s’usi ma pensar si possa,
per opra di bataglia in terra e in onda.
Talor giocando a scudo ed asta grossa
farà di sé tal mostra che ciascuno
se stupirà di sua destrezza e possa.
Coteste lodi che cantando aduno
non son la summa di virtute tanta,
ma qual in bella donna è l’ochio bruno;
e qual è fior vermiglio in verde pianta,
in monil d’oro il lucido carbone,
tal tra tutti altri sol costui si vanta.
Testimonio è Flaminia e il Rubicone:
là tra’ nemici passarà di volo,
prendendo il pasto a guisa di falcone.
Testimonio fia l’Arno e l’alto dolo
ch’a Puoggio Imperial Toscana sente:
là tanti segni abbaterà lui solo.
Non fia riparo all’animosa mente
inexpugnabil colle, e ogni altro loco
sempre di contrastarlo al fin si pente.
Ma d’ognor quel ch’è fatto a lui par poco,
e più richiede sua virtude accesa,
spirando ad alto sempre come foco.
Mirate Italia, che si sta difesa
sotto al suo scudo e senza altra vigilia,
senza altra guarda a sì stupenda impresa.
Dal mare Eusino a’ jogi di Panfilia,
e ciò ch’è tra l’Eufrate e tra il Danubbio
ne ven armato al Regno di Sicilia;
e se non rompe a sì gran tela il subbio
e sì gran tramma quel duca sicuro,
perduta è Italia e non ne faccio dubbio.
Ma che dico io? quei barbari non curo,
ché già di salto a l’alte terre in cima
e già d’Otrànto il veggio sopra al muro.
Sagite foco e folgore non stima,
né quella gente oribil e legera
tra la qual Marte sua sede ebbe in prima.
O gentil alma nobil ed altera
ch’a tua prodezza non trovi confino,
a maggior fatti drizza la bandiera.
Già il Mencio, lo Oglio, Pado, Ada e Tesino
a te fan riverenza, e il bel paese
qual chiude l’Alpe, il mare e l’Apenino.
Là farai l’opre grande e sì distese
che bisogno non è ch’io le ricorde,
quando in sé stesse fien chiare e palese. –
Cantava Orfeo cum voce e con le corde,
ma la sua nave non potea star quieta,
cum tal dolcezza quel canto la morde;
e tanto è di quel suon zogliosa e lieta
che verso il ciel adriciava la prora,
onde più longo il canto li divieta:
benché gran gesti restavan ancora,
ma non potendo, al lito periglioso
voltò la poppa e non fece dimora.
Ed io nel bosco ormai più star non oso,
poiché oscurito è per tutto d’intorno,
gionta è la notte e il tempo de riposo.
Ma se mia voce, com’io spero, adorno,
di questo duca l’abito regale
cum altri versi a dimostrar ritorno,
pur ch’al disio la possa spieghi l’ale.
Guarini
Pastor fido, vv. 1 ss.
AMARILLI
Care selve beate,
e voi solinghi e taciturni orrori,
di riposo e di pace alberghi veri;
oh, quanto volentieri
a rivedervi i’ torno! E se le stelle
m’avesser dato in sorte
di viver a me stessa e di far vita
conforme a le mie voglie,
i’ già co’ Campi Elisi,
fortunato giardin de’ semidèi,
la vostr’ombra gentil non cangerei.
Ché, se ben dritto miro,
questi beni mortali
altro non son che mali.
Meno ha chi più n’abonda,
e posseduto è più che non possede:
ricchezze no, ma lacci
de l’altrui libertate.
Che val ne’ più verdi anni
titolo di bellezza
o fama d’onestate,
e ‘n mortal sangue nobiltà celeste;
tante grazie del cielo e de la terra:
qui larghi e lieti campi,
e là felici piagge,
fecondi paschi e più fecondo armento,
se ‘n tanti beni il cor non è contento?
Felice pastorella,
cui cinge a pena il fianco
povera sì, ma schietta
e candida gonnella,
ricca sol di se stessa
e de le grazie di natura adorna;
che ‘n dolce povertade
né povertà conosce né i disagi
de le ricchezze sente;
ma tutto quel possede,
per cui desio d’aver non la tormenta,
nuda sì, ma contenta!
Co’ doni di natura
i doni di natura anco nudrìca;
col latte il latte avviva;
e col dolce de l’api
condisce il mèl de le natie dolcezze.
Quel fonte ond’ella beve,
quel solo anco la bagna e la consiglia;
paga lei, pago il mondo.
Per lei di nembi il ciel s’oscura indarno
e di grandine s’arma,
ché la sua povertà nulla paventa:
nuda sì, ma contenta.
Sola una dolce e d’ogn’affanno sgombra
cura le sta nel core:
pasce le verdi erbette
la greggia a lei commessa, ed ella pasce
de’ suo’ begli occhi il pastorello amante,
non qual le destinâro
o gli uomini o le stelle,
ma qual le diede Amore.
T. Tasso
Aminta, At. I., vv. 152 e ss.
TIRSI Periglioso è cercar quel che trovato
trastulla sì, ma più tormenta assai
non ritrovato. Allor vedrassi amante
Tirsi mai più, ch’Amor nel seggio suo
non avrà più né pianti né sospiri.
A bastanza ho già pianto e sospirato.
Faccia altri la sua parte. DAFNE Ma non hai
già goduto a bastanza. TIRSI Né desio
goder, se così caro egli si compra.
DAFNE Sarà forza l’amar, se non fia voglia.
TIRSI Ma non si può sforzar chi sta lontano.
DAFNE Ma chi lung’è d’Amor? TIRSI Chi teme e fugge.
DAFNE E che giova fuggir da lui, c’ha l’ali?
TIRSI Amor nascente ha corte l’ali: a pena
può su tenerle, e non le spiega a volo.
DAFNE Pur non s’accorge l’uom quand’egli nasce;
e, quando uom se n’accorge, è grande, e vola.
TIRSI Non, s’altra volta nascer non l’ha visto.
DAFNE Vedrem, Tirsi, s’avrai la fuga e gli occhi
come tu dici. Io ti protesto, poi
che fai del corridore e del cerviero,
che, quando ti vedrò chieder aita,
non moverei, per aiutarti, un passo,
un dito, un detto, una palpebra sola.
TIRSI Crudel, daratti il cor vedermi morto?
Se vuoi pur ch’ami, ama tu me: facciamo
l’amor d’accordo. DAFNE Tu mi scherni, e forse
non merti amante così fatta: ahi quanti
n’inganna il viso colorito e liscio!
TIRSI Non burlo io, no; ma tu con tal protesto
non accetti il mio amor, pur come è l’uso
di tutte quante; ma, se non mi vuoi,
viverò senza amor. DAFNE Contento vivi
Giambattista Felice Zappi
Un cestellin di paglie
Un cestellin di paglie un dì tessea
Tirsi, cantando appiè d’un verde alloro;
dentro vi chiuse un bacio e poi dicea:
Vanne in voto a colei per cui mi moro.
Piacque l’opra ad Amor. Dentro al lavoro
vezzi alla madre tolti anch’ei chiudea,
e in un le punte di quei dardi d’oro,
che scelti sol per le bell’alme avea.
Quando l’aprì la semplice Nigella,
il bacio del pastor corse non tardo
a prender loco in sulla fronte bella.
Ogni vezzo si sparse al viso ond’ardo;
verso il ciglio volaron le quadrella:
e son quelle ch’ognor vibra col dardo.
F. Sacchetti
O vaghe montanine pasturelle
“O vaghe montanine pasturelle,
d’onde venite sì leg[g]iadre e belle?
Qual è ’l paese dove nate sète,
che sì bel frutto più che gli altri aduce?
Creature d’Amor vo’ mi parete,
tanto la vostra vista addorna luce!
Né oro né argento in voi riluce,
e, mal vestite, parete angiolelle.”
“No’ stiamo in alpe, presso ad un boschetto;
povera capannetta è ’l nostro sito;
col padre e con la madre in picciol letto
torniam la sera dal prato fiorito,
dove natura ci ha sempre nodrito,
guardando il dì le nostre peccorelle.”
“Assa’ si dé’ doler vostra bellezza,
quando tra monti e valli la mostrate;
ché non è terra di sì grande altezza,
dove non foste degne ed onorate.
Deh, ditemi se voi vi contentate
di star ne’ boschi così poverelle?”
“Più si contenta ciascuna di noi
andar drieto a le mandre a la pastura,
che non farebbe qual fosse di voi
d’andar a feste dentro a vostre mura.
Richezza non cerchiam, né più ventura,
che balli e canti e fiori e ghirlandelle.”
Ballata, s’i’ fosse come già fui,
diventerei pastore e montanino;
e prima ch’io il dicesse altrui,
serei al loco di costor vicino,
et or direi “Biondella!” ed or “Martino!”,
seguendo sempre dove andasson elle.
Eugenio Montale
Egloga
Perdersi nel bigio ondoso
dei miei ulivi era buono
nel tempo andato – loquaci
di riottanti uccelli
e di cantanti rivi.
Come affondavi il tallone
nel suolo screpolato,
tra le lamelle d’argento
dell’esili foglie. Sconnessi
nascevano in mente i pensieri
nell’aria di troppa quiete.
Ora è finito il cerulo marezzo.
si getta il pino domestico
a romper la grigiura;
brucia una toppa di cielo
in alto, un ragnatelo
si squarcia al passo: si svincola
d’attorno un’ora fallita.
E’ uscito un rombo di treno,
non lunge, ingrossa. Uno sparo
si schiaccia nell’etra vetrino.
Strepita un volo come un acquazzone,
venta e vanisce bruciata
una bracciata di amara
tua scorza. istante: discosta
esplode furibonda una canea.
Tosto potrà rinascere l’idillio.
S’è ricomposta la fase che pende
dal cielo, riescono bende
leggere fuori…;
il fitto dei fagiuoli
n’è scancellato e involto.
Non serve più rapid’ale,
né giova proposito baldo;
non durano che le solenni cicale
in questi saturnali del caldo.
Va e viene un istante in un folto
una parvenza di donna.
E’ disparsa, non era una Baccante.
Sul tardi corneggia la luna.
Ritornavamo dai nostri
vagabondaggi infruttuosi.
Non si leggeva più in faccia
al mondo la traccia
della frenesia durata
il pomeriggio. Turbati
discendevamo tra i vepri.
Nei miei paesi a quell’ora
cominciano a fischiare le lepri.
(da Ossi di seppia, in Tutte le poesie, ed. Mondadori)
G. D’Annunzio
da L’annunzio, strofe 12/13
E dal culmine dei cieli alle radici del Mare
balenò, risonò la parola solare:
“Il gran Pan non è morto!”.
Tremarono le mie vene, i miei capelli, e le selve,
le messi, le acque, le rupi, i fuochi, i fiori, le belve.
“Il gran Pan non è morto!”
Tutte le creature tremarono come una sola
foglia, come una sola goccia, come una sola
favilla, sotto il lampo e il tuono della parola.
“Il gran Pan non è morto!”.
E il terrore sacro si propagò ai confini
dell’Universo. Ma gli uomini non tremarono, chini
sotto le consuete onte.
Tutte le creature udirono la voce
vivente; ma non gli uomini cui l’ombra d’una croce
umiliò la fronte.
Ed io, che l’udii solo, stetti con le tremanti
creature muto. E il dio mi disse:”O tu che canti,
io son l’Eterna Fonte.
Canta le mie laudi eterne”.
(dalla Premessa alle Laudi)