L’affermarsi del motivo pastorale nella musica avviene attraverso due vie: il dramma pastorale e la sacre rappresentazioni dedicate al Natale.
Se l’importanza e la diffusione del dramma pastorale, divenuto genere letterario autonomo largamente apprezzato tra i letterati del secolo XVI, costituisce un punto di partenza per l’affermarsi della musica pastorale, circostanza ancora più notevole è il fatto che alla nascita dell’opera lirica contribuirono in maniera determinante alcune rappresentazioni di contenuto mitologico nelle quali erano presenti figure di pastori e ninfe. Nella fiorentina Camerata de’ Bardi, vero e proprio laboratorio che portò alla costituzione del melodramma come genere artistico, si rappresentavano, negli ultimi decenni del secolo XVI, “favole per musica da recitarsi cantando”: tra queste spiccano le “favole pastorali” Il Satiro e Disperazione di Fileno della Guidiccioni (musicate da Emilio de’ Cavalieri, che poi si trasferì a Roma e dette un impulso importante alla nascita dell’oratorio musicando la Rappresentazione di Anima e Corpo) e soprattutto la Dafne e l’Euridice di Ottavio Rinuccini (1562-1621): il libretto di quest’ultima fu musicato prima da Jacopo Peri (1600) e poi da Giulio Caccini (1600-1602). Nell’Euridice la vicenda mitologica di Orfeo, ripresa dalle Metamorfosi di Ovidio più che dalle Georgiche di Virgilio (poiché i gusti del tempo tendevano a far preferire il primo sul secondo) e filtrata attraverso la Favola di Orfeo del Poliziano, ma anche attraverso reminiscenze di Petrarca e di Tasso, è profondamente modificata rispetto alle narrazioni antiche, e si conclude con un finale lieto, in quanto la restituzione di Euridice non è accompagnata dal divieto di guardarla nel tragitto che dagli inferi riporta lei e Orfeo verso il mondo dei vivi. Pastori e ninfe hanno un ampio spazio nel libretto di Rinuccini, e del resto la commistione tra il tema pastorale e le vicende di Orfeo era già presente nel Poliziano. Già nella scena iniziale il tema bucolico fa irruzione nel canto corale di pastori e ninfe (“Al canto, al ballo, a l’ombre, al prato adorno, | A le bell’onde e liete | Tutti, o pastor, correte | Dolce cantando in sì beato giorno” vv. 85-88) e si ripresenta nella parte finale della rappresentazione, nella scena V (ove il pastore Aminta riferisce al coro di pastori e ninfe il felice esito del cammino di Orfeo agli Inferi) e VI (ballo finale con l’esaltazione di Orfeo). Come si vede p.es. nell’Euridice di Peri, la musica si propone di evocare la bellezza del locus amoenus con un andamento melodico gioioso (p.es. nel Ballo pastorale della prima scena ) e di rappresentare l’ambientazione pastorale con la scelta di una strumentazione adatta e di un canto solista disteso e semplice (p.es. l’ingresso di Tirsi nella scena II )
La presenza di pastori e ninfe, come elemento ormai obbligato, si trova nell’Orfeo di A. Striggio (Mantova, n. prima metà del XVI sec., m. tra il 1587 e il 1596), musicato da Claudio Monteverdi e rappresentato a Mantova nel 1607, un lavoro e una data che hanno un’importanza capitale nella storia dell’opera lirica. Nella versione elaborata dallo Striggio la conclusione era infelice (rispettando così la narrazione tradizionale), e nel quarto atto Euridice veniva definitivamente persa dal protagonista. Seguendo la traccia dell’Orfeo di Poliziano, il libretto prevedeva nel quinto atto la morte di Orfeo per opera delle baccanti: ma Monteverdi stesso interveniva (come era sua consuetudine) su questo finale doloroso, e poneva in scena un intervento di Apollo che, pur senza salvare il poeta, ne tesseva l’elogio e ne preparava l’apoteosi: il finale si concludeva così con un canto gioioso, in luogo del finale bacchico inizialmente previsto nel libretto ed eliminato quasi interamente dalla volontà del compositore. Non importa qui tanto sottolineare il carattere raffinato e innovativo di tante soluzioni di Monteverdi, il suo tentativo di creare delle strutture musicali precise e coerenti col volgersi dell’azione, la sua capacità di sottolineare con ardite soluzioni strumentali i diversi passaggi del dramma (ad esempio, il prevalere degli archi nei cori pastorali che chiudono i primi due atti e il prevalere degli ottoni nei cori infernali che chiudono il terzo e il quarto atto), la sua intenzione deliberata di segnalare la differenza tra l’arte di Orfeo e il canto degli altri personaggi, dando alle parti cantate dal protagonista una maggiore ricchezza musicale. Quello che a noi interessa rilevare è che nel libretto è presente in modo insistito sia il tema bucolico sia il carattere di ideale locus amoenus (secondo i canoni ben definiti fin dalle descrizioni classiche) del luogo ove si stanno per svolgere le nozze di Orfeo e Euridice, carattere continuamente rilevato dai personaggi (si veda p.es. nell’atto II “Mira ch’a sé n’alletta | L’ombra, Orfeo, di que’ faggi, | Or che infocati raggi | Febo dal ciel saetta. | Su quell’erbose sponde | Posiamci, e in vari modi | Ciascun sua voce snodi | Al mormorio de l’onde. | In questo prato adorno | Ogni selvaggio nume | Sovente ha per costume | Di far lieto soggiorno. | Qui Pan dio de’ pastori | S’udì talor dolente | Rimembrar dolcemente | Suoi sventurati amori”). E tuttavia questo non influisce più che tanto sulla musica, nella quale si stenterebbero a trovare veri e propri accenti di intonazione pastorale. Come già abbiamo visto per l’Euridice di Peri, la musica cerca di evocare un’atmosfera gioiosa, da locus amoenus, come nel balletto del primo atto (“Lasciate i monti”, in cui i pastori invitano le ninfe a unirsi loro “ai balli usati”) ; solo sporadicamente in qualche passaggio, come nella descrizione del II atto, vi troviamo elementi che si potrebbero definire propriamente pastorali, coi passaggi strumentali affidati ai legni (laddove il libretto evoca il dio Pan) .
Le riprese in musica del mito di Orfeo furono numerose lungo il corso di tutto il secolo XVII e XVIII, sia perché apparvero nuovi “libretti” riguardanti questa tematica sia perché, secondo l’uso dei tempi, diversi musicisti rimisero in musica libretti già utilizzati da precedenti compositori (si veda su questo tema il libro di G. Maggiulli, La lira di Orfeo dall’epillio al melodramma, Genova 1991), ma la sostanza non cambia più che tanto: la presenza sulla scena di pastori e ninfe non è di per sé incentivo allo sviluppo di una tradizionale musicale pastorale. Lo si può osservare esaminando uno dei più maturi prodotti di questa musica, l’Orfeo e Euridice di Gluck musicato su libretto di Raniero de’ Calzabigi (1774), che rappresenta uno dei più noti e felici esiti del tentativo di riforma del melodramma perseguito da Gluck: pastori e ninfe sono portati in scena, come vuole la tradizione, ma la loro presenza non incrina la severità del procedere drammatico e non dà spazio a vagheggiamenti di natura arcadica che porterebbero lontani dall’austera linea compositiva a cui il melodramma si ispira. Sia l’azione drammatica sia il numero dei personaggi è ridotto all’essenziale (lo si può facilmente vedere da un semplice confronto coi libretti precedenti), e manca tutto quel contorno di personaggi secondari che invece pullulano nelle precedenti versioni drammatiche del mito, da Poliziano in avanti. Il modo con cui il coro di pastori e ninfe viene utilizzato da Gluck può essere apprezzato fin dall’inizio dell’azione drammatica: la scena iniziale è ambientata in un boschetto di cipressi, attorno alla tomba di Euridice: i pastori e le ninfe effondono con accenti molto mesti il loro dolore (“Ah! se attorno a quest’urna funesta, | Euridice, ombra bella, t’aggiri, | odi i pianti, i lamenti, i sospiri | che dolenti si spargon per te”), mentre Orfeo si intercala più volte al loro canto l’invocazione “Euridice” . Peraltro anche il ballo e la gioiosa scena finale (“Trionfi Amore, e il mondo intero | serva all’impero della beltà”), pur avendo tutt’altro andamento musicale, rimangono fedeli a questa linea, senza nessun accenno d’imitazione pastorale . La fortuna e la diffusione del tema pastorale nella letteratura italiana porta con sé un’analoga diffusione di composizioni vocali il cui spunto è costituito da temi pastorali: numerosissime sono in tutto il corso del XVII secolo e più ancora con l’Arcadia i mottetti e le cantate per una o più voci, accompagnate o no da strumenti, che mettono in musica testi letterari nei quali si evoca il mondo dei pastori, e più di uno tra i grandi compositori dell’epoca appartennero all’Arcadia (p.es. Scarlatti, Corelli, Pasquini, ecc.). Ma queste composizioni riguardano più la storia e l’evoluzione della cantata barocca che non il costituirsi di una tradizione musicale pastorale.
Più interessanti, per lo sviluppo della musica pastorale, le sacre rappresentazioni di intonazione natalizia, che, seguendo la narrazione del Vangelo di Luca, introducevano i pastori ad adorare il Redentore neonato intonando canzoni e nenie. Alla diffusione di questa musica poterono contribuire anche le tradizioni popolari riguardanti il Natale, con rappresentazioni locali della Natività accompagnate da canti e musiche strumentali caratteristiche. Tradizioni di questo genere erano molto diffuse soprattutto nell’Italia Centrale: durante il periodo natalizio gruppi di suonatori vagavano nei villaggi e intonavano per le strade con cornamuse, flauti e altri strumenti a fiato melodie tradizionali natalizie.
Man mano che le cantate per voce solista prendono il posto delle composizioni corali, si accrescono le possibilità di imitare in modo più stretto questo genere tradizionale, e, accanto agli oratori e alle cantate profane, si affermano le cantate di argomento sacro che evocano o descrivono singoli momenti della vita di Gesù o di Maria (o di altri personaggi della tradizione cristiana). L’imitazione delle musiche natalizie si diffonde a partire dal sec. XVII, fino a costituire una tradizione ben consolidata. Tra i primi esempi di cantate natalizie citiamo, il Dialogo de’ pastori al Presepe di Nostro Signore di Giovanni Francesco Anerio (Roma, 1567-circa 1624), che contiene anche qualche tentativo di imitazione di melodie e di strumenti natalizi , la Pastorale del nascimento di Cristo di D. Bollius (1628), la Pastorale di Marc Antoine Charpentier (1643–1704), in cui è assunto come punto di prospettiva il racconto di un angelo , la Storia di Natale di Heinrich Schütz (1664) , la Cantata Pastorale per il Natale di Alessandro Scarlatti (1660-1725). Le possibilità espressive di questo nuovo genere sono ben rilevabili in queste ultime due composizioni. La Storia di Natale di Schütz (per la precisione Historia der freuden- und gnadenreichen Geburt Gottes und Marien Sohnes, Jesus Christi cioè “Storia della Nascita, gioiosa e piena di grazia, di Dio e figlio di Maria, Gesù Cristo“) è una versione drammatizzata e messa in musica del racconto evangelico (in tedesco) della Nascita, il che costituiva ai tempi una singolare novità: essa inizia con una breve introduzione strumentale, seguita dall’affermazione dell’assoluta fedeltà della rappresentazione al testo dei Vangeli e procede con diversi brani vocali e strumentali (per la precisione, nove recitativi e due intermezzi); il passaggio in cui si rievoca la presenza dei pastori contiene un più forte accenno di imitazione della musica pastorale ; il tutto si conclude con un gioioso canto di ringraziamento . Lo scarso interesse delle generazioni immediatamente successive per questa composizione è ben documentato dal fatto che una parte del testo (per la precisione le parti non recitative) andò perduta e fu ritrovata solamente nel 1909 in una manoscritto della Biblioteca di Uppsala. Quella di Scarlatti è una breve cantata per soprano, archi e basso continuo, con una breve introduzione orchestrale e un alternarsi di recitativi e di arie: si tratta di una musica in cui carattere elegiaco e tensione espressiva trovano un loro punto di equilibrio, come si può ben vedere dalle arie (cfr. p.es. l’aria “Dal bel seno d’una stella | spunta a noi l’eterno sole. | Da una pura verginella | nacque già l’eterna prole” ), ma vorremmo anche rilevare come la lettura del testo suggerisca come ormai ampiamente avvenuta la contaminazione tra l’evocazione pastorale di argomento natalizio e il tema bucolico di tradizione classica, come appare dal recitativo finale, in cui l’invocazione ai pastori (“Fortunati pastori!”) richiama in modo palese un passaggio delle Georgiche virgiliane, anche se la motivazione per cui i pastori possono dirsi fortunati è naturalmente diversa (“Fortunati pastori! | Giacché vi è dato in sorte | che il Signor della vita, | immortale, increato, | respiri tra di voi | l’aure primiere” .).
Accanto alla musica natalizia per voci si forma una tradizione di musiche natalizie strumentali, che intendono imitare le nenie che i pastori suonano nel periodo natalizio. Peculiari di questi brani erano il ritmo ternario (6/8, 9/8, 12/8), l’utilizzazione di strumenti caratteristici (cornamuse, pive, zampogne), il procedere per terze e la presenza di melodie sostenute da armonie molto larghe (limitate per lo più alla tonica o ala dominante) e costruite spesso con effetti di eco e giochi di simmetrie. Musica strumentale d’intonazione natalizia, al di fuori dunque dell’ambito delle sacre rappresentazioni e degli oratori, scrissero diversi autori del XVII e XVIII secolo: ricordiamo tra i molti i Pastorali Concerti al Presepe di F. Fiamengo (1637), il Concerto in forma di Pastorale per il S. Natale op. 8 n. 6 (Grave-Vivace, Largo, Vivace), pubblicato nel 1709, del veronese Giuseppe Torelli (1658-1709) , col suo alternarsi di parti riflessive e di melodie gioiose e col suo finale di scintillante musica italiana, il Concerto grosso fatto per la notte di Natale di Arcangelo Corelli (1653-1713), una composizione di ampio respiro che costituisce il n. 8 della sua raccolta di Concerti grossi op. 6 pubblicata nel 1712 e che è strutturata in cinque movimenti spesso caratterizzati da ricchezze di episodi e alternanze tra passaggi lenti e veloci (1. Vivace – Grave – Allegro, 2. Adagio – Allegro – Adagio, 3. Vivace, 4. Allegro, 5. Largo). Nell’ultimo movimento, intitolato appunto Pastorale, l’imitazione delle pive natalizie è evidente e suggestiva . Un allievo di Torelli, il pistoiese Francesco Manfredini (1684-1762), inizia con un brano intitolato Pastorale il suo Concerto grosso per il Santissimo Natale (in Do maggiore): è un brano dal movimento lento (Largo) e coi tratti consueti di questo genere ormai ricco di tradizione . L’esplicita indicazione di Pastorale si ha nel movimento conclusivo del Concerto grosso op. 1 n. 8 (pubblicato ad Amsterdam nel 1721) del compositore bergamasco Pietro Antonio Locatelli: (1695-1764) qui l’imitazione delle melodie tradizionali natalizie è assolutamente trasparente.
In molte altre composizioni strumentali di questo periodo (secc. XVII-XVIII), soprattutto per organo, il riferimento alla musica natalizia è evidente, anche se il titolo non contiene un esplicito riferimento al Natale. Notissimo il Capriccio Pastorale per organo di Gerolamo Frescobaldi, nel [Primo libro di] Toccate d’intavolatura di Cembalo et Organo partite da diversa aria e corrente (1637); la suggestione delle melodie natalizie si percepisce sia nella prima parte del brano, più riflessiva , sia nella festosa seconda parte . Una Piva per organo fu scritta dal già nominato Heinrich Schütz (1585-1672), come introduzione strumentale ai suoi Vesperi per il Natale . Brani intitolati Pastorale scrissero Zipoli, Pasquini e altri. Nel brano Introduzione e Pastorale di Bernardo Pasquini (morto a Roma nel 1710) è notevole il tono insieme solenne e gioioso ; nella Pastorale del toscano Domenico Zipoli (morto a Còrdoba, Argentina, nel 1726), si risente la stessa ispirazione del brano di Frescobaldi: un inizio più solenne e un finale più mosso, sempre riecheggianti melodie natalizie . Il tema pastorale, sia come riferimento ai pastori dell’Arcadia, sia come imitazione delle pive natalizie. è presente nella vasta e multiforme produzione del veneziano Baldassarre Galuppi (1706-1785). Tra le sue opere giovanili spiccano due favole pastorali (La fede nell’incostanza, 1722, e Dorinda, 1729, che fu il suo primo importante successo). Al di fuori della produzione operistica segnaliamo nell’ambito della sua produzione di musica sacra un’aria per soprano e strumenti intitolata Arietta pastorale (per la notte di Natale) e tra le composizioni strumentali una sonata per clavicembalo Pastorale, che inizia con un movimento molto calmo e leggero che ricorda il suono delle pive natalizie per proseguire poi con un andamento più vivace e sonoro .
Notevole è la Pastorella [Pastorale] per organo di J. S. Bach (BWV 590, circa 1710, ma pubblicata nel 1826), una composizione costituita da più brani, che si segnala per la compattezza ritmica (con prevalenza dei ritmi in 3/8 e, nella fuga finale, 6/8), la relativa semplicità del contrappunto, la sostanziale mancanza di pedale (solo il primo brano prevede l’utilizzazione del pedale, che comunque partecipa solamente con lunghissime note, con una soluzione consona più alla tradizione organistica italiana che a Bach): il tutto si conclude con una breve fuga a tre voci di fattura più complessa .
Musiche di questo genere possono trovarsi anche all’interno di composizioni più ampie. La seconda parte dell’Oratorio di Natale (Weihnachtstoratorium) di Bach (1734) inizia con un brano strumentale di carattere pastorale . Il Messiah di Händel (composto nel 1741, ma continuamente rielaborato e rivisto, fino alla morte del compositore, avvenuta nel 1750) contiene una breve Sinfonia pastorale (Pifa) intercalata tra il Coro che annunzia la nascita del bambino (“For unto us a Child is born”) e il recitativo “There were shepherds”: il carattere pastorale è sottolineato dal ritmo in 12/8 e dal movimento lento, oltre che dal carattere delle melodie. Nello stesso oratorio un altro brano di carattere pastorale (ritmo in 12/8, movimento lento, uso di corni) è il successivo duetto soprano-mezzosoprano “He shall feed His flock like a shepherd | and He shall gather the lambs with His arms” (“Nutrirà il Suo gregge come un pastore | e raggrupperà gli agnelli con le Sue braccia”) .
Se si esce dal repertorio organistico si trovano brani in cui si comincia a percepire un carattere per così dire profano. Tra le sonate per clavicembalo di Domenico Scarlatti quattro, vale a dire quelle catalogate come K 9, K 415, K 446, K 513, portano il titolo di Pastorale. Se osserviamo p.es. la K 9 (= L 413), noteremo che, benché formalmente vi si trovino tutte le caratteristiche della musica pastorale (ritmo in 6/8, procedimento per terze, armonie larghe), qui l’intonazione natalizia è assai meno evidente , e viene del tutto a mancare se si assume come punto di riferimento l’interpretazione, assai più veloce, e quasi vorticosa, di Wanda Landowska (il movimento prescritto è “Allegro”) . Anche nelle altre sonate l’atmosfera pastorale è appena percepibile, soprattutto per l’uso del ritmo in 6/8 o 12/8 e l’atmosfera un po’ rarefatta. Ancora più interessante il fatto che il catalogo delle sonate di Scarlatti contenga anche una sonata (K 8 = L 488) intitolata Bucolica: qui il richiamo natalizio manca del tutto, e siamo di fronte a un brano che semplicemente presenta un andamento dolce e delicato che evoca un’atmosfera serena .
L’emergere di una musica pastorale profana, accanto a quella di carattere sacro e legata alla Natività, si ha nel sec. XVIII. Non è estraneo a questo nuovo orientamento il diffondersi dell’idea che la musica strumentale possa imitare i suoni e i rumori della realtà, con la conseguente creazione, da parte di molti autori, di composizioni che anche nel titolo indicano la loro volontà di riprodurre i suoni della natura (canti di uccelli, tuoni e fulmini, p.es.) o i rumori prodotti dagli oggetti della vita quotidiana: ancora nelle sinfonie di Haydn si hanno titoli che alludono a questo carattere imitativo (Segnale di corno, L’orso, La Gallina, La Pendola, ecc.), anche se sovente il riflettersi della realtà nella musica è limitato a pochi passaggi che talvolta non hanno neppure particolare rilievo nell’insieme della composizione. L’introduzione di un motivo bucolico profano nella musica pastorale è accennata da una serie di brani che sono davvero noti, e quindi non hanno bisogno di ulteriore presentazione, quali sono Le Quattro Stagioni di A. Vivaldi (vale a dire i primi quattro concerti raccolti nei Concerti per violino Op. VIII, pubblicati ad Amsterdam attorno al 1725). I quattro concerti sono collegati a quattro sonetti scritti dallo stesso Vivaldi: il procedere della musica segue passo passo il testo letterario, e la volontà dell’imitazione è palesemente dichiarata anche nella partitura: p.es. nel secondo tempo (Largo) della Primavera, affidato ai violini, alle viole e al violino solista, quando la musica intende descrivere le parole “E quindi sul fiorito ameno prato | Al caro mormorio di fronde e piante | Dorme ‘l Caprar col fido can a lato”, la larga melodia del violino solista evoca “il capraro che dorme”, i due gruppi di violini imitano il “mormorio di fronde e piante”, mentre le viole (che suonano forte, a fronte del pianissimo degli altri strumenti: la partitura prescrive esattamente “sempre f, si deve suonare sempre molto forte e strappato”) ripetono a ogni battuta due note (do#-do# o sol#-sol#) che intendono descrivere “il cane che grida” . Il terzo tempo della Primavera descrive una danza pastorale (“Di pastoral zampogna al suon festante | Danzan ninfe e pastor nel tetto amato | Di primavera all’apparir brillante”). Il violino solista e i violini intonano un festoso motivo in ritmo di 12/8 (ripreso saltuariamente anche dalle viole), procedendo per terze, mentre i violoncelli e il continuo si limitano a lunghe note tenute . Il movimento iniziale dell’Estate comprende una varietà di episodi: se il motivo principale, col suo carattere un po’ slegato e volutamente privo di vigore, descrive la svogliatezza di uomini e animali sotto il sole ardente (“Sotto dura staggion dal sole accesa | Langue l’huom, langue ‘l gregge, ed arde il Pino”), il virtuosismo del violino solista imita le voci degli uccelli (il cucco, la tortora, il cardellino ), e poi la musica procede a evocare lo spirare dei venti, fino a che la contesa di zefiro e borea porta allo scoppio di una tempesta, e la musica descrive il temporale e poi il pianto del pastore spaventato: la descrizione prosegue nel secondo movimento e nel Presto finale. La musica segue in modo fedele il testo dei sonetti, ma non è mai condizionata da questo, ed anzi il valore musicale autonomo di questi brani, al di là del loro sforzarsi di riprodurre suoni o situazioni della natura, non può essere messo in discussione.
Di Vivaldi è anche un Concerto per flauto diritto (o violino), oboe (o violino), violino, fagotto e continuo, in Re maggiore, n. 95 del catalogo Ryom, denominato La Pastorella e un Concerto per il SS.mo Natale intitolato Il Riposo per violino, archi e continuo (RV 270) .
Nello scorcio di tempo che va tra la seconda metà del Settecento e l’inizio dell’Ottocento il motivo pastorale viene trattato da diversi musicisti. Se trascuriamo opere occasionali o minori (come il Minuetto pastorale di Muzio Clementi ), troviamo p.es. una Sinfonia Pastorella di Leopoldo Mozart (il padre di Wolfgang Amadeus: più che una sinfonia si tratta in realtà di un concerto in tre movimenti, composto nel 1755, per corno delle alpi e orchestra: il corno delle Alpi è uno strumento di dimensioni mastodontiche usato da secoli dai pastori delle Alpi per richiamare il bestiame: il suo uso come strumento solista è un unicum) . La Sinfonia n. 26 in do minore (G 519) di L. Boccherini (1743-1805), composta nel 1788, ha un secondo movimento intitolato Lentarello Pastorale: si tratta di un brano di grande intensità caratteriizato da un tema fortemente melodico (i quattro movimenti di cui la sinfonia si compone sono rispettivamente: Allegro vivo assai, Lentarello, Allegro (Minuetto), Allegro). Un altro brano dello stesso Boccherini che porta l’intitolazione Pastorale è il primo movimento del Quintetto per archi e chitarra n. 4 (G 448), col suo andamento cullante e il suo tono dimesso e accattivante : il quintetto è noto però soprattutto per il suo movimento finale, concluso da un celebre Fandango (i tre movimenti sono: Pastorale, Allegro maestoso, Grave assai – Fandango).
Quando si intende delineare lo sviluppo del motivo pastorale nella musica la Sinfonia Pastorale di Beethoven ha una posizione davvero centrale. La Sinfonia n. 6 op. 68 in fa maggiore fu composta nell’estate 1808 (anche se alcuni abbozzi di suoi temi si ritrovano in appunti risalenti fino al 1804), in quasi perfetta contemporaneità con la Quinta Sinfonia op. 67, ed entrambe furono presentate, insieme con altre composizioni di Beethoven, nel memorabile concerto del 22 dicembre 1808. Dunque Beethoven lavorò contemporaneamente alla composizione di due sinfonie dal carattere totalmente diverso, come sono appunto la Quinta e la Sesta. Tralasciando i particolari relativi alla biografia dell’autore e gli aneddoti variamente raccontati da amici e contemporanei, noteremo soltanto che Beethoven più volte attesta in vari documenti il suo profondo amore per la campagna e che una visione vagamente panteistica della natura, percorsa dalla potenza divina che in essa si rispecchia e traspare, costituisce un motivo non di rado affermato dal Romanticismo tedesco. È stato detto (anche più di quanto fosse necessario) che la musica “a programma” non costituiva una novità nell’ambiente viennese del primo Ottocento, e notò già indirettamente Schumann, recensendo una sinfonia di Spohr intitolata La consacrazione dei suoni ed eseguita per la prima volta nel 1835, che “Beethoven non ha nemmeno notato il pericolo corso con la Sinfonia pastorale” (il pericolo che la necessità di seguire un programma coartasse l’espressione musicale e rendesse meno autentico il prodotto musicale, originato più da una deliberata volontà esterna che da una convinta e schietta ispirazione, la preoccupazione insomma che si creasse una subordinazione della musica a un progetto esterno).
Meno generalmente noto è il fatto che anche un’altra composizione di Beethoven è nota col titolo Pastorale: si tratta della Sonata per pianoforte op. 28, pubblicata nel 1801, la cui intitolazione di Pastorale non è dovuta all’autore, e non appare molto perspicua. È stata notata la “semplicità agreste della linea melodica” o il “sapore georgico del primo tema” del primo tempo (Allegro) e molti critici osservano come vari passaggi della sonata sembrino più strumentali che pianistici, tanto che un famoso pianista notava la natura “quasi clarinetto” di alcune battute (scrive G. Scuderi, Beethoven. Le Sonate per pianoforte, Milano 1933, p. 173: “l’osservazione è interessante, perché denota come Beethoven sia riuscito a ricreare, in un semplice passaggio pianistico, il particolare colore georgico che, per analogia sensitiva, richiama il suono d’uno strumento di origine agreste”). Tuttavia, al di là di qualche breve passaggio, non sembra che questa sonata abbia un timbro particolarmente pastorale: sarebbe più interessante notare, se mai, che alcuni passaggi del tempo lento (Andante) si ritrovano quasi identici nel Larghetto della Seconda Sinfonia op. 36, nella quale nessuno ha proposto di vedere un timbro pastorale o agreste: poiché quest’ultima fu composta e pubblicata poco dopo la Sonata op. 28 si deve concludere che Beethoven per primo aveva percepito il carattere strumentale di certi passaggi della sonata!
Tornando alla Sesta Sinfonia, una chiave di lettura importante ci è suggerita da Beethoven stesso, quando definiva questa sinfonia con le parole “più espressione di sentimento che pittura (mehr Ausdruck der Empfindung als Malerei)”: questa frase era collocata vicino al titolo della sinfonia nel programma del concerto inaugurale del 1808. Evidentemente Beethoven stesso percepiva la preoccupazione che un’attenzione eccessiva al programma fuorviasse gli ascoltatori e li allontanasse da una lettura corretta della sinfonia. Di fatto, al di là dei titoletti apposti ai cinque movimenti da cui la sinfonia è costituita, è evidente come l’amore per la natura, dichiarato dal compositore in diversi documenti, e la sua partecipazione attenta ai fenomeni naturali, sia stato interiorizzato e per così dire trasfigurato in un contesto in cui hanno rilievo solamente i valori musicali. Non deve infine essere sottovalutata la suggestione che può avere esercitato sul progetto creativo di Beethoven la lettura e lo studio di una composizione del musicista austriaco J. H. Knecht (1752-1817), che pubblicò nel 1784 una sinfonia intitolata Portrait de la Nature (Ritratto della natura), un’opera che Beethoven ebbe occasione di conoscere e di studiare e che aveva un programma simile a quello della Sinfonia Pastorale.
Il primo movimento, Allegro ma non troppo (2/4 = 66), reca come sottotitolo “Risvegliarsi di sensazioni gioiose all’arrivo in campagna (Erwachen heiterer Gefühle bei der Ankunft auf dem Lande)”. L’orchestra è costituita da 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni e gli archi: in sostanza l’organico tradizionale delle sinfonie beethoveniane, ma con la mancanza di trombe e timpani, quasi a sottolineare il carattere tranquillo e sereno, e la mancanza di tensioni drammatiche che domina tutto il brano. Il tutto inizia con un tema di quattro battute (“un semplice tema campestre di quattro battute che potrebbe essere espresso da una zampogna”, per usare la parole di M. Chop, Le Nove Sinfonie di Beethoven, Milano 1952, p. 138) enunciato dai violini (i secondi violini entrano alla batt. 3), mentre viole e violoncelli (i contrabbassi tacciono) si soffermano a lungo sulla quinta fa-do, per poi concludere sull’accordo di dominante. È inusuale che Beethoven inizi una sinfonia con l’enunciazione del tema principale, conclusa e ben individuata dal punto coronato: ma ancora più degno di nota è il fatto che immediatamente dopo l’enunciazione inizia una prolungata analisi del tema, che, nella sua brevità e apparente semplicità, si rivela come un nucleo da cui germinano una quantità di idee e di passaggi continuamente nuovi. Sappiamo che sviluppando un tema Beethoven ne esplora e ne approfondisce ogni potenzialità espressiva, con un procedimento in cui esuberanza e sintesi appaiono straordinariamente coniugate fra loro, ma lo sviluppo di questo prima tema acquisisce una dimensione veramente inconsueta. Il carattere del brano è sempre di grande serenità: subito dopo l’enunciazione il tema viene ripreso dagli oboi, poi dai clarinetti, e infine gioiosamente ribadito nel forte dall’intera orchestra . Ogni successiva elaborazione nasce sempre da una sezione del tema principale, e anche il secondo tema (enunciato dai primi violini, e poi ripreso più volte, nell’ordine dai secondi violini, dai violoncelli, dal clarinetto e via via dagli altri legni) non si presenta come in contrasto, bensì come completamento del primo tema . Il frequente procedere per terze è, come abbiamo già visto, caratteristico dello stile pastorale. Il carattere insistito e apparentemente ripetitivo di certi passaggi () sembra voler confermare il senso di piacevole abbandono a sentimenti di benessere, a metà tra il desiderio di farsi cullare dalla melodia e quello di raccontare distesamente il proprio senso di appagamento. Non mancano nello sviluppo passaggi di grande suggestione, e talvolta anche spiritosi (p.es. il dialogo tra violini e fagotto, batt. 187 ss.). Dopo la coda, introdotta da un passaggio del clarinetto che non è altro che l’ennesima variazione del primo tema (questa volta della sua terza battuta), il tempo si conclude con l’ultima ripetizione del tema stesso, ripreso in pianissimo dolce prima dai violini e poi dal flauto: l’ultima parte (una scaletta di crome che porta dal si bemolle al fa) viene prima ripresa da clarinetti e fagotti e poi, in un gioioso unisono forte, dai tutti i legni e dagli archi: segue una serie di larghi accordi in sforzando che sono un annuncio di giocondità e di letizia.
Il secondo tempo (Andante molto mosso, 3/8 = 50) s’intitola “Scena al ruscello (Szene am Bach)”. Mentre il primo tempo annunziava sensazioni di benessere e di letizia interiore, il secondo tempo, col suo ritmo più calmo, descrive piuttosto sentimenti di quiete che nascono da un’osservazione attenta e partecipe, e quasi dall’immedesimazione con la natura che ci circonda. Se l’armonia evoca lo stormire delle fronde e il fluire delle acque, e se il procedere del brano è continuamente percorso da trilli e abbellimenti che evocano il canto degli uccelli, la melodia fondamentale presenta caratteri di grande tranquillità, e si snoda in modo disteso, senza quei contrasti, quei silenzi, quelle lacerazioni che caratterizzano altre composizioni beethoveniane. Essa si condensa con naturalezza sgorgando da una semplicissima figura dei primi violini, che emerge su un movimento ondeggiante di violini secondi, viole e violoncelli (divisi in due gruppi), mentre i contrabbassi sottolineano l’armonia col pizzicato e i corni aggiungono la loro voce con lunghe note tenute . Il disegno musicale procede nitido, con la partecipazione dell’intera orchestra, fino a che verso la fine del tempo si ha come un fermarsi improvviso e si ode, nella realistica imitazione dei legni (precisamente il flauto per l’usignolo, l’oboe per la quaglia e il clarinetto per il cuculo), il canto degli uccelli . Si è molto discusso sulla presenza di questo passaggio di carattere imitativo: i contemporanei hanno raccontato aneddoti non sempre affidabili, e i critici successivi si sono chiesti se questo passaggio non implicasse una rinuncia alla possibilità di esprimere con la sola forza dell’evocazione musicale le voci della natura. Per la verità, si dovrebbe ricordare innanzitutto che questa sinfonia, nonostante la presenza di un titolo e di un programma (sia pure molto scarno), fa un uso assai scarso dell’imitazione vera e propria (che si presenta solo qui e nel temporale), e pertanto un passaggio di carattere imitativo non intacca certo i valori musicali del secondo tempo. Ma, al di là degli eccessi a cui si può essere andati incontro in discussioni che hanno sempre qualcosa di ozioso, questa imitazione, due volte ripetuta, dovrebbe essere calata nel suo contesto: nel resto del tempo le voci della natura sono evocate, ma filtrate attraverso un processo di interiorizzazione che pone l’accento non sulle voci medesime, bensì sull’io dell’autore, sui suoi sentimenti, sulle riflessioni che nascono dal profondo del pensiero e del cuore: ora per un momento il compositore esce da sé stesso e si concentra su alcune voci in particolare. Non si dovrebbe dimenticare che nei due brevi passaggi dedicati al canto degli uccelli tace tutto il resto dell’orchestra, che ha finora largamente contribuito alla descrizione del paesaggio: per un attimo l’autore sente soltanto queste voci, mentre tutto intorno si fa silenzio. Ma anche queste voci e questo silenzio passano attraverso la sua interiorità. Se anziché come un momento di imitazione, e quindi implicitamente di diminuzione dei valori musicali, queste battute fossero percepite come un momento di contemplazione, molti dei problemi e delle discussioni non avrebbero più ragione d’essere.
Il terzo tempo s’intitola “Allegra riunione di contadini (Lustiges Zusammensein der Landleute)”. Se nei primi due tempi la musica aveva voluto descrivere i sentimenti di letizia e di pace che l’ambiente naturale suscita, qui protagoniste sono le persone che abitano in questo ambiente sereno: dopo avere contemplato le bellezze della natura, l’autore scopre la presenza di un’umanità che vive in questo paesaggio. Pur filtrato attraverso i sussulti del romanticismo, e pervenuto probabilmente per vie diverse, l’ideale bucolico di provenienza classica del locus amoenus e dell’umanità semplice che vive felicemente in campagna aleggia nella Sinfona Pastorale. Nel comporre questa pagina Beethoven può essersi richiamato a rappresentazioni pittoriche di feste campestri, un motivo diffuso nell’arte europea del XVII-XVIII secolo. Dal punto di vista formale questo movimento è trattato con una notevolissima libertà, e non ha praticamente nulla in comune col tradizionale Minuetto o con lo Scherzo, di cui dovrebbe prendere il posto, se non il ritmo di 3/4 e l’andamento veloce (Allegro 3/4 = 108): esso ha un carattere chiaramente descrittivo (non più di riflessione come i primi due tempi), e non di rado la musica si abbandona a soluzioni impreviste nelle quali non manca un certo carattere umoristico. Il carattere lieto del movimento, già dichiarato nel titolo, è continuamente ribadito nel procedere del discorso musicale. Il motivo iniziale ha nella sua prima parte, enunciata dagli archi, un andamento vorticoso e saltellante, che contrasta (con le nette opposizioni staccato ~ legato e forte ~ piano dolce) con l’andamento più calmo e quasi elegiaco della seconda parte (archi e legni) . Il tema, con le sue opposizioni, viene ripetuto e rielaborato più volte, fino a che una decisa serie di accordi a piena orchestra (sf) prelude all’introduzione di qualcosa di diverso. Ci si prepara per una danza: una preparazione prolungata, con le terze dell’accompagnamento che passano da fagotti e corni agli archi, e infine l’oboe intona una delicata melodia, sbagliando però l’attacco, che risulta sfasato di un quarto rispetto al ritmo dettato dai violini con un’insistenza quasi monotona. Sono musicanti di villaggio questi che si preparano a sostenere la danza dei loro amici. Già Mozart aveva benevolmente canzonato l’imperizia di musicisti dilettanti nello Scherzo musicale “I musicanti di villaggio” (K 522 del 1787), ma questo passaggio di Beethoven presenta una concezione veramente originale, e la sottile ironia di cui è pervaso non può far dimenticare la bellezza dei motivi musicali che vi trovano posto. La scarsa perizia dei musicanti porta a incertezze e confusioni: mentre i fagotti prendono il posto degli archi, ma solo per poco (questi musicisti si stancano presto!), nel dettare il ritmo procedendo con la figura dell’accompagnamento, il clarinetto sostituisce l’oboe nell’enunciazione della melodia, ma, oltre a non correggere l’errore di ritmo iniziale, si esibisce in una specie di virtuosismo che in realtà è solo una caduta a precipizio . Infine è il corno a concludere l’enunciazione di questa melodia, ma alla fine il ritmo dell’accompagnamento si interrompe e viene richiesto in modo quasi imperioso un cambiamento di ritmo (sempre più stretto), che porta a una vorticosa danza austriaca (In tempo d’Allegro, 1/4 = 132), nella quale le trombe per la prima volta fanno sentire la loro voce . L’intero episodio viene poi ripetuto dall’inizio. Alla nuova ripresa (la terza) sembra che qualche novità sia nell’aria. L’Allegro è ribadito con qualche incertezza, e la sua conclusione è affannosa e quasi ansimante; si prosegue fino all’attacco delle terze d’accompagnamento, ma il ritmo è più veloce (Presto), e non c’è più tempo per un’altra danza. Si addensa un temporale, e bisogna correre in fretta nelle case, perché violoncelli e contrabbassi preannunciano un tuono lontano.
A differenza degli altri tempi, il quarto tempo, intitolato “Temporale (Gewitter, Sturm)” (Allegro, 2/4 = 80), ha un carattere puramente imitativo. Questo giustifica l’apparente anomalia di una sinfonia in cinque movimenti: il quarto non entra nel computo, proprio perché costituisce un momento di transizione. La musica evoca i tuoni lontani (nel tremolo di violoncelli e contrabbassi), le prime gocce di pioggia (le crome in staccato dei secondi violini), i richiami della gente (le figure dei primi violini) sempre più agitati (la ripresa è di un tono più alta), infine lo scroscio violento nel fortissimo dell’orchestra, col rombo profondo di violoncelli e contrabbassi, il tremolo degli altri archi coi primi violini su registri molto acuti, le lunghe note di legni e ottoni, ai quali si aggiunge ora il fragoroso intervento dei timpani . Tuoni e fulmini si susseguono uno dietro l’altro, mentre i violini col loro staccato insistono nel descrivere la sensazione di agitazione che prende tutti quanti. Non è ancora l’acme: con la batt. 82 fa il suo ingresso l’ottavino con la sua voce acutissima, e poi con la batt. 106 si uniscono al resto dell’orchestra due tromboni. Ma ben presto la furia degli elementi si placa. Tuoni e fulmini si fanno via via più lontani, e sul finire del tempo le lunghe note di archi e legni (dolce) indicano che il peggio e passato e si può tornare alla solita vita.
Il quinto movimento s’intitola “Canto pastorale. Sentimenti gioiosi e grati dopo il temporale (Hirtengesang. Frohe, dankbare Gefühle nach dem Sturm)” ed è costituito da un lungo Allegretto (3/8 = 60). L’organico orchestrale è quello dei primi due tempi, con l’aggiunta di trombe e tromboni: l’annuncio della propria gratitudine al Signore abbisogna di voci più sonore di quelle utilizzate all’inizio, ove la dimensione era prevalentemente personale e intima. Preannunciato prima dal clarinetto e poi dal corno, il motivo intonato dai primi violini (col sostegno del pizzicato dei violoncelli e lo sfondo armonico di clarinetti, fagotti e viole, che sostano a lungo sull’accordo di tonica) è un canto di rara intensità, che esprime gioia contenuta e sentimenti di riconoscenza, dai quali non è assente il sentimento religioso . Troviamo nel brano i tratti già individuati come caratteristici dell’intonazione pastorale: il ritmo di 6/8, il procedere per terza, il carattere semplice e suggestivo dei temi, le larghe armonie. Il carattere di gioia contenuta e profonda viene ribadito nelle successive riprese del tema: sulla melodia intonata dai primi violini si raduna tutta l’orchestra, fino a che il tema è ripetuto in fortissimo da clarinetti, corni, viole, violoncelli, mentre i violini eseguono un tremolo su note acute e gli altri strumenti concorrono a rendere più largo e sonoro lo sfondo armonico. Dal primo tema scaturiscono una quantità di nuove figurazioni, con l’orchestra che ora intona melodie largamente cantate e ora insiste su trame sonore complesse, con serrati dialoghi tra i diversi gruppi di strumenti, cosicché spesso un motivo iniziato da una sezione dell’orchestra viene concluso da un’altra: accordi robusti e sonori lasciano il posto a fraseggi più delicati: al manifestarsi di gioia comunque priva di eccessi, mai sguaiata, si alternano momenti di più contenuta letizia e di più intima consapevolezza . I temi principali sono ripresi più volte, quasi che non si sia mai sazi di esprimere la propria soddisfazione e la propria gratitudine, e sottoposti, qui come nei primi due tempi, a un lavorìo di sviluppo che ne esplora ogni potenzialità. Alla fine di questa lunga e complessa tessitura sonora ritorna il primo tema, enunciato dal primo corno (pianissimo e con sordina), mentre i legni sostano sulla tonica e gli archi si passano, dall’alto verso il basso, un semplice fraseggio nato da una delle elaborazioni del tema. Due robusti accordi in fortissimo concludono il brano e la sinfonia.
Uno dei capisaldi del periodo musicale romantico, sia per i suoi valori musicali sia per il trattamento innovativo dell’orchestra, è costituito dalla Sinfonia fantastica di H. Berlioz. Scritta nel 1830, quando il compositore aveva appena 26 anni, essa era intitolata dapprima Episodi della vita di un artista, e si propone di descrivere i sogni di un fumatore d’oppio da poco reduce da una delusione amorosa. Il rapporto tra programma e musica è assai stretto, tanto che secondo lo stesso compositore affermava che “il piano del dramma strumentale, privato del soccorso della parola, deve essere esposto in anticipo. Il programma deve dunque essere considerato come il libretto di un’opera” e prescriveva che “la distribuzione del programma all’uditorio, nei concerti ove sia prevista questa sinfonia, è indispensabile per l’intelligenza completa del piano drammatico dell’opera”. Il terzo dei cinque tempi di cui si compone la sinfonia (1. Sogni, passioni; 2. Un ballo; 3. Scena nei campi; 4. Marcia al supplizio; 5. Sogno di una notte di sabba) descrive una scena campestre. Si tratta di un Adagio dal ritmo in 6/8 e dall’andamento molto calmo (1/8 = 84). L’artista si è ritirato in campagna per ritemprare il proprio animo dallo sconforto: la quiete del paesaggio (nuovamente si affaccia il motivo della campagna come luogo di semplicità primordiale in cui passioni e affanni si stemperano), la voce lontana di due pastori, lo stormire degli alberi suscitano in lui qualche vaga speranza che la sua amata possa tornare (v. programma). Il brano inizia con un dialogo tra due pastori, rappresentati rispettivamente dal corno inglese (che prende momentaneamente il posto del secondo oboe) e dal primo oboe, che dietro la scena intonano un motivo lamentoso, nel silenzio assoluto: solo dalla battuta 11 si ode il tremolo appena appena sussurrato delle viole (pianissimo ppp con sordina) . Nonostante il carattere melanconico e dolente del motivo (un canto amebeo!), la dolcezza della natura ottiene il suo effetto pacificatore, tanto che i violini primi e il primo flauto intonano all’unisono, sempre nel silenzio generale (interrotto solo dal pizzicato di violini secondi, viole e violoncelli), un motivo molto sereno e delicato tratto dal canto dei pastori, non privo però di qualche accento di tristezza e di tensione (col suo sforzando) . A violini primi e primo flauto si associano poi i violini secondi e il secondo flauto, creando un movimento di terze caratteristico della musica pastorale. Lo svolgimento prosegue con alternanze tra momenti di grande serenità (il fraseggiare tranquillo dei primi violini) e improvvisi sbalzi di umore e con accenti di grande tensione che emergono improvvisi, fino al raggiungimento di un culmine sonoro (fortissimo) di forte drammaticità (il tremolo très serré di violini e viole), che sbocca in una robusta affermazione di violoncelli, contrabbassi e fagotti. Su questa si sovrappone improvviso il pensiero della donna amata: il motivo che la identifica (una specie di Leitmotiv che si ripete da un movimento all’altro della sinfonia) è intonato dal primo flauto e dal primo oboe, mentre i clarinetti disegnano lo sfondo armonico. La reazione di violoncelli, contrabbassi e fagotti è violentissima (e sostenuta dal tremolo in crescendo degli altri archi) e ne segue un momento di grande agitazione, col ritmo che si fa più serrato (animez un peu) e coi timpani che intervengono per la prima volta. Poi le passioni si smorzano un po’ (diminuendo, piano, morendo), ma rimane sempre uno stato di angoscia più o meno latente: l’orchestra in parte riprende e sviluppa il motivo iniziale dei pastori (affidato spesso ai legni, in particolare ai clarinetti) e in parte si abbandona ad accenti di agitazione (lo staccato dei violini primi, col drammatico accompagnamento degli altri archi), e non mancano momenti in cui si tenta di trovare dentro di sé un maggiore equilibrio e ci si tenta di richiamare a un atteggiamento meno agitato, come quando i violini secondi tentano di riprendere, all’interno del contesto sonoro molto agitato degli archi, almeno frammenti del tema sereno emerso all’inizio. La musica prosegue con questi continui ondeggiamenti tra sensazioni opposte e contrastanti, in cui fasi di calma si succedono a momenti di pathos, fino a che, verso la fine del movimento, tutto sembra spegnersi, con l’intensità sonora dell’orchestra che diminuisce progressivamente e il ritmo che si fa ancora più calmo (un peu retenu). Riappare la movenza triste dell’inizio con un carattere ancora più marcatamente malinconico: il corno inglese fa udire di nuovo il motivo pastorale, ma non c’è più la risposta dell’oboe: al suo posto suoni di tuono lontano, rappresentati dall’a solo dei quattro timpani, che, come è prescritto espressamente, suonano con bacchette di spugna . Poi anche il canto dell’unico pastore rimasto si fa più fievole (pianissimo perdendo) fino a svanire del tutto, e anche l’ultimo accenno di tuono è lontanissimo (pianissimo ppp). È la solitudine completa: l’accordo finale di tonica (archi e secondo corno) definisce un panorama di grande desolazione interiore.
IV. Dall’Impressionismo a oggi
I brani del periodo successivo che in modo più o meno dichiarato si rifanno alla tradizione pastorale sono numerosissimi.
Ritroviamo, nella seconda parte del secolo, delle Pastorali per organo. Molto nota è la Pastorale Op. 19 (1866) di César Franck, ove si riprende la tradizione della musica natalizia: il brano si apre con una sezione solenne e di grande sonorità (Andantino) : alcuni accordi molto gravi portano a un passaggio molto più mosso , e infine viene ripresa, nella sezione finale, il tema introduttivo. Pastorali per organo scrisse anche Max Reger (il secondo dei 12 Stücke per organo op. 59, del 1901 e il terzo dei 12 Stücke op. 65, del 1902). Anche la tradizione della musica pastorale non religiosa sopravvive nella seconda metà del XIX secolo: una testimonianza fra le tante (forse innumerevoli) è il seguente passaggio per piano di F. Liszt, intitolato appunto Pastorale e contenuto nella prima raccolta degli Années de Pèlerinage: Suisse, pubblicata nel 1855 (anche se la composizione del brano è anteriore di una ventina d’anni) : la stessa raccolta contiene anche un brano intitolato Eclogue, in cui una melodia calma e serena contribuisce a creare un’atmosfera un po’ rarefatta e sognante .
Ma tra tutti va citato in modo particolare il Prélude à l’après-midi d’un faune di Cl. Debussy. Composto nel 1892 e presentato nel 1894 (ma l’orchestrazione fu ritoccata) in anni successivi (1908), si ispira, come dice esplicitamente il titolo, a una poesia di Stefano Mallarmé. Debussy è il maggior esponente dell’Impressionismo musicale: con una tecnica che ricorda un po’ quella dei pittori impressionisti, la musica sembra esprimersi più con macchie di colore che coi tratti di un disegno nitido e organicamente concepito. Apparentemente si ha la dissoluzione di ogni forma classica: tanto sul piano melodico quanto sul piano dell’armonia e della costruzione, più che secondo un piano prestabilito la musica sembra procedere a sbalzi, descrivendo le impressioni del momento più che seguendo un disegno organico. I contemporanei rimproverarono spesso a Debussy questo carattere apparentemente frammentario e quasi anarchico della sua musica: in realtà questa musica procede secondo schemi formali e costruttivi semplicemente diversi da quelli tradizionali, e a chi gli rimproverava che il Prélude à l’après-midi d’un faune non seguisse un disegno preciso, Debussy rispondeva che aveva composto questo brano secondo un’architettura che si fondava su travi portanti ben precise, solo che lui stesso le aveva nascoste fino a renderle invisibili. L’organico orchestrale è costituito da: 3 flauti (di cui il primo interviene spesso come solista), 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 arpe, cimbali (“cymbales antiques”) e archi; come si vede, un organico che, pur nella sua ampiezza, fa uso parco di ottoni e di percussioni, sottolineando con ciò il carattere elegiaco del brano. Lo spunto iniziale (e fondamentale) del brano è costituito da un passaggio di quattro battute enunciato dal primo flauto subito all’inizio: si tratta di un motivo altamente suggestivo, col suo cromatismo, con le sue variazioni ritmiche, col suo carattere ondeggiante sia nel disegno musicale sia nella sonorità .
Subito dopo l’esposizione inizia lo sviluppo, che vede inizialmente protagonisti legni, corni e arpa: si tratta di una musica che ha fin dall’inizio una gran suggestione, coi suoi richiami sonori, coi suoi silenzi, con le sue evocazioni . Anziché fare appello alle masse orchestrali, Debussy preferisce esplorare le potenzialità espressive delle varie sezioni dell’orchestra o dei singoli strumenti (anche all’interno degli archi i vari gruppi di strumenti sono spesso divisi e ad alcuni vengono affidati lunghi passaggi solistici), richiamandosi espressamente alle innovazioni e alle esperienze della tradizione francese (Berlioz) e ottenendo effetti di grande efficacia, con pennellate calde e carezzevoli alternate a passaggi esangui e carichi di sensualità . Il ritmo si fa ora più serrato ora più molle e calmo, e il tema iniziale viene più volte ripreso con variazioni sempre nuove, passando attraverso diversi strumenti, fino ad essere riproposto dall’oboe, con valori ritmici diversi e variato nella parte conclusiva, poco prima della fine . Le indicazioni via via proposte di retenu, très retenu, très lent et très retenu jusqu’à la fin dànno l’idea del carattere sempre più languido con cui il brano si avvia alla conclusione.
Composizioni che si richiamano alla tradizione pastorale si trovano anche nella musica del XX secolo.
Un brano interessante e gradevole è la Sinfonia pastorale op. 49 di Darius Milhaud (1892-1974): questa composizione costituisce la seconda delle tre “Sinfonie per piccola orchestra” del compositore. Nato in Francia (ad Aix-en Provence), ma trasferitosi ancora giovane negli Stati Uniti, D. Milhaud fu autore molto produttivo nell’ambito sia della musica sinfonica sia della musica da camera sia della musica lirica. Partecipe di correnti musicali che tentano un’espressione musicale meno vincolata alle regole dell’armonia classica, in molti suoi brani si percepisce anche un influsso della musica jazzistica statunitense. Scritta in giovane età nel 1918, la Sinfonia pastorale si compone di tre movimenti (Joyeux , Calme , Joyeux ): in modo particolare il secondo presenta un’atmosfera molto suggestiva e giustifica l’intitolazione di pastorale. Dello stesso Milhaud è anche la Fantasia Pastorale per pianoforte e orchestra (o due pianoforti) op. 188 , del 1938, dal tono elegiaco e sereno, e sei Pastorali per pianoforte.
Dal medesimo ambiente artistico da cui provenne Milhaud (Les Six) proviene anche Arthur Honegger. La sua Pastorale d’été è un breve poema sinfonico per archi, legni e corno scritto nel 1920. Rispetto alle suggestioni di Debussy, il brano segna un sostanziale ritorno a schemi di composizione tradizionali e classici: anche la costruzione armonica si avvicina agli schemi tradizionali ben più di quanto avvenisse nella fase dell’Impressionismo (anche se non mancano libertà: ad es. la cadenza conclusiva su un accordo anomalo). Sullo sfondo di un motivo grave e insistito, che si ripete per tutto il corso del brano, il corno espone una melodia molto calma e suggestiva . Con una serie di effetti orchestrali di rara intensità il compositore riesce a descrivere la calma e la serenità di un pomeriggio estivo .
Altra pagina di grande suggestione è la Pastorale. Canzone senza parole per violino e quartetto di fiati del compositore russo Igor Stravinskij (1882-1971) . Un passaggio intitolato “Pastorale” si trova anche nell’Histoire du soldat (1918) .
L’affermarsi del motivo pastorale nella musica avviene attraverso due vie: il dramma pastorale e la sacre rappresentazioni dedicate al Natale.
Se l’importanza e la diffusione del dramma pastorale, divenuto genere letterario autonomo largamente apprezzato tra i letterati del secolo XVI, costituisce un punto di partenza per l’affermarsi della musica pastorale, circostanza ancora più notevole è il fatto che alla nascita dell’opera lirica contribuirono in maniera determinante alcune rappresentazioni di contenuto mitologico nelle quali erano presenti figure di pastori e ninfe. Nella fiorentina Camerata de’ Bardi, vero e proprio laboratorio che portò alla costituzione del melodramma come genere artistico, si rappresentavano, negli ultimi decenni del secolo XVI, “favole per musica da recitarsi cantando”: tra queste spiccano le “favole pastorali” Il Satiro e Disperazione di Fileno della Guidiccioni (musicate da Emilio de’ Cavalieri, che poi si trasferì a Roma e dette un impulso importante alla nascita dell’oratorio musicando la Rappresentazione di Anima e Corpo) e soprattutto la Dafne e l’Euridice di Ottavio Rinuccini (1562-1621): il libretto di quest’ultima fu musicato prima da Jacopo Peri (1600) e poi da Giulio Caccini (1600-1602). Nell’Euridice la vicenda mitologica di Orfeo, ripresa dalle Metamorfosi di Ovidio più che dalle Georgiche di Virgilio (poiché i gusti del tempo tendevano a far preferire il primo sul secondo) e filtrata attraverso la Favola di Orfeo del Poliziano, ma anche attraverso reminiscenze di Petrarca e di Tasso, è profondamente modificata rispetto alle narrazioni antiche, e si conclude con un finale lieto, in quanto la restituzione di Euridice non è accompagnata dal divieto di guardarla nel tragitto che dagli inferi riporta lei e Orfeo verso il mondo dei vivi. Pastori e ninfe hanno un ampio spazio nel libretto di Rinuccini, e del resto la commistione tra il tema pastorale e le vicende di Orfeo era già presente nel Poliziano. Già nella scena iniziale il tema bucolico fa irruzione nel canto corale di pastori e ninfe (“Al canto, al ballo, a l’ombre, al prato adorno, | A le bell’onde e liete | Tutti, o pastor, correte | Dolce cantando in sì beato giorno” vv. 85-88) e si ripresenta nella parte finale della rappresentazione, nella scena V (ove il pastore Aminta riferisce al coro di pastori e ninfe il felice esito del cammino di Orfeo agli Inferi) e VI (ballo finale con l’esaltazione di Orfeo). Come si vede p.es. nell’Euridice di Peri, la musica si propone di evocare la bellezza del locus amoenus con un andamento melodico gioioso (p.es. nel Ballo pastorale della prima scena ) e di rappresentare l’ambientazione pastorale con la scelta di una strumentazione adatta e di un canto solista disteso e semplice (p.es. l’ingresso di Tirsi nella scena II )
La presenza di pastori e ninfe, come elemento ormai obbligato, si trova nell’Orfeo di A. Striggio (Mantova, n. prima metà del XVI sec., m. tra il 1587 e il 1596), musicato da Claudio Monteverdi e rappresentato a Mantova nel 1607, un lavoro e una data che hanno un’importanza capitale nella storia dell’opera lirica. Nella versione elaborata dallo Striggio la conclusione era infelice (rispettando così la narrazione tradizionale), e nel quarto atto Euridice veniva definitivamente persa dal protagonista. Seguendo la traccia dell’Orfeo di Poliziano, il libretto prevedeva nel quinto atto la morte di Orfeo per opera delle baccanti: ma Monteverdi stesso interveniva (come era sua consuetudine) su questo finale doloroso, e poneva in scena un intervento di Apollo che, pur senza salvare il poeta, ne tesseva l’elogio e ne preparava l’apoteosi: il finale si concludeva così con un canto gioioso, in luogo del finale bacchico inizialmente previsto nel libretto ed eliminato quasi interamente dalla volontà del compositore. Non importa qui tanto sottolineare il carattere raffinato e innovativo di tante soluzioni di Monteverdi, il suo tentativo di creare delle strutture musicali precise e coerenti col volgersi dell’azione, la sua capacità di sottolineare con ardite soluzioni strumentali i diversi passaggi del dramma (ad esempio, il prevalere degli archi nei cori pastorali che chiudono i primi due atti e il prevalere degli ottoni nei cori infernali che chiudono il terzo e il quarto atto), la sua intenzione deliberata di segnalare la differenza tra l’arte di Orfeo e il canto degli altri personaggi, dando alle parti cantate dal protagonista una maggiore ricchezza musicale. Quello che a noi interessa rilevare è che nel libretto è presente in modo insistito sia il tema bucolico sia il carattere di ideale locus amoenus (secondo i canoni ben definiti fin dalle descrizioni classiche) del luogo ove si stanno per svolgere le nozze di Orfeo e Euridice, carattere continuamente rilevato dai personaggi (si veda p.es. nell’atto II “Mira ch’a sé n’alletta | L’ombra, Orfeo, di que’ faggi, | Or che infocati raggi | Febo dal ciel saetta. | Su quell’erbose sponde | Posiamci, e in vari modi | Ciascun sua voce snodi | Al mormorio de l’onde. | In questo prato adorno | Ogni selvaggio nume | Sovente ha per costume | Di far lieto soggiorno. | Qui Pan dio de’ pastori | S’udì talor dolente | Rimembrar dolcemente | Suoi sventurati amori”). E tuttavia questo non influisce più che tanto sulla musica, nella quale si stenterebbero a trovare veri e propri accenti di intonazione pastorale. Come già abbiamo visto per l’Euridice di Peri, la musica cerca di evocare un’atmosfera gioiosa, da locus amoenus, come nel balletto del primo atto (“Lasciate i monti”, in cui i pastori invitano le ninfe a unirsi loro “ai balli usati”) ; solo sporadicamente in qualche passaggio, come nella descrizione del II atto, vi troviamo elementi che si potrebbero definire propriamente pastorali, coi passaggi strumentali affidati ai legni (laddove il libretto evoca il dio Pan) .
Le riprese in musica del mito di Orfeo furono numerose lungo il corso di tutto il secolo XVII e XVIII, sia perché apparvero nuovi “libretti” riguardanti questa tematica sia perché, secondo l’uso dei tempi, diversi musicisti rimisero in musica libretti già utilizzati da precedenti compositori (si veda su questo tema il libro di G. Maggiulli, La lira di Orfeo dall’epillio al melodramma, Genova 1991), ma la sostanza non cambia più che tanto: la presenza sulla scena di pastori e ninfe non è di per sé incentivo allo sviluppo di una tradizionale musicale pastorale. Lo si può osservare esaminando uno dei più maturi prodotti di questa musica, l’Orfeo e Euridice di Gluck musicato su libretto di Raniero de’ Calzabigi (1774), che rappresenta uno dei più noti e felici esiti del tentativo di riforma del melodramma perseguito da Gluck: pastori e ninfe sono portati in scena, come vuole la tradizione, ma la loro presenza non incrina la severità del procedere drammatico e non dà spazio a vagheggiamenti di natura arcadica che porterebbero lontani dall’austera linea compositiva a cui il melodramma si ispira. Sia l’azione drammatica sia il numero dei personaggi è ridotto all’essenziale (lo si può facilmente vedere da un semplice confronto coi libretti precedenti), e manca tutto quel contorno di personaggi secondari che invece pullulano nelle precedenti versioni drammatiche del mito, da Poliziano in avanti. Il modo con cui il coro di pastori e ninfe viene utilizzato da Gluck può essere apprezzato fin dall’inizio dell’azione drammatica: la scena iniziale è ambientata in un boschetto di cipressi, attorno alla tomba di Euridice: i pastori e le ninfe effondono con accenti molto mesti il loro dolore (“Ah! se attorno a quest’urna funesta, | Euridice, ombra bella, t’aggiri, | odi i pianti, i lamenti, i sospiri | che dolenti si spargon per te”), mentre Orfeo si intercala più volte al loro canto l’invocazione “Euridice” . Peraltro anche il ballo e la gioiosa scena finale (“Trionfi Amore, e il mondo intero | serva all’impero della beltà”), pur avendo tutt’altro andamento musicale, rimangono fedeli a questa linea, senza nessun accenno d’imitazione pastorale . La fortuna e la diffusione del tema pastorale nella letteratura italiana porta con sé un’analoga diffusione di composizioni vocali il cui spunto è costituito da temi pastorali: numerosissime sono in tutto il corso del XVII secolo e più ancora con l’Arcadia i mottetti e le cantate per una o più voci, accompagnate o no da strumenti, che mettono in musica testi letterari nei quali si evoca il mondo dei pastori, e più di uno tra i grandi compositori dell’epoca appartennero all’Arcadia (p.es. Scarlatti, Corelli, Pasquini, ecc.). Ma queste composizioni riguardano più la storia e l’evoluzione della cantata barocca che non il costituirsi di una tradizione musicale pastorale.
Più interessanti, per lo sviluppo della musica pastorale, le sacre rappresentazioni di intonazione natalizia, che, seguendo la narrazione del Vangelo di Luca, introducevano i pastori ad adorare il Redentore neonato intonando canzoni e nenie. Alla diffusione di questa musica poterono contribuire anche le tradizioni popolari riguardanti il Natale, con rappresentazioni locali della Natività accompagnate da canti e musiche strumentali caratteristiche. Tradizioni di questo genere erano molto diffuse soprattutto nell’Italia Centrale: durante il periodo natalizio gruppi di suonatori vagavano nei villaggi e intonavano per le strade con cornamuse, flauti e altri strumenti a fiato melodie tradizionali natalizie.
Man mano che le cantate per voce solista prendono il posto delle composizioni corali, si accrescono le possibilità di imitare in modo più stretto questo genere tradizionale, e, accanto agli oratori e alle cantate profane, si affermano le cantate di argomento sacro che evocano o descrivono singoli momenti della vita di Gesù o di Maria (o di altri personaggi della tradizione cristiana). L’imitazione delle musiche natalizie si diffonde a partire dal sec. XVII, fino a costituire una tradizione ben consolidata. Tra i primi esempi di cantate natalizie citiamo, il Dialogo de’ pastori al Presepe di Nostro Signore di Giovanni Francesco Anerio (Roma, 1567-circa 1624), che contiene anche qualche tentativo di imitazione di melodie e di strumenti natalizi , la Pastorale del nascimento di Cristo di D. Bollius (1628), la Pastorale di Marc Antoine Charpentier (1643–1704), in cui è assunto come punto di prospettiva il racconto di un angelo , la Storia di Natale di Heinrich Schütz (1664) , la Cantata Pastorale per il Natale di Alessandro Scarlatti (1660-1725). Le possibilità espressive di questo nuovo genere sono ben rilevabili in queste ultime due composizioni. La Storia di Natale di Schütz (per la precisione Historia der freuden- und gnadenreichen Geburt Gottes und Marien Sohnes, Jesus Christi cioè “Storia della Nascita, gioiosa e piena di grazia, di Dio e figlio di Maria, Gesù Cristo“) è una versione drammatizzata e messa in musica del racconto evangelico (in tedesco) della Nascita, il che costituiva ai tempi una singolare novità: essa inizia con una breve introduzione strumentale, seguita dall’affermazione dell’assoluta fedeltà della rappresentazione al testo dei Vangeli e procede con diversi brani vocali e strumentali (per la precisione, nove recitativi e due intermezzi); il passaggio in cui si rievoca la presenza dei pastori contiene un più forte accenno di imitazione della musica pastorale ; il tutto si conclude con un gioioso canto di ringraziamento . Lo scarso interesse delle generazioni immediatamente successive per questa composizione è ben documentato dal fatto che una parte del testo (per la precisione le parti non recitative) andò perduta e fu ritrovata solamente nel 1909 in una manoscritto della Biblioteca di Uppsala. Quella di Scarlatti è una breve cantata per soprano, archi e basso continuo, con una breve introduzione orchestrale e un alternarsi di recitativi e di arie: si tratta di una musica in cui carattere elegiaco e tensione espressiva trovano un loro punto di equilibrio, come si può ben vedere dalle arie (cfr. p.es. l’aria “Dal bel seno d’una stella | spunta a noi l’eterno sole. | Da una pura verginella | nacque già l’eterna prole” ), ma vorremmo anche rilevare come la lettura del testo suggerisca come ormai ampiamente avvenuta la contaminazione tra l’evocazione pastorale di argomento natalizio e il tema bucolico di tradizione classica, come appare dal recitativo finale, in cui l’invocazione ai pastori (“Fortunati pastori!”) richiama in modo palese un passaggio delle Georgiche virgiliane, anche se la motivazione per cui i pastori possono dirsi fortunati è naturalmente diversa (“Fortunati pastori! | Giacché vi è dato in sorte | che il Signor della vita, | immortale, increato, | respiri tra di voi | l’aure primiere” .).
Accanto alla musica natalizia per voci si forma una tradizione di musiche natalizie strumentali, che intendono imitare le nenie che i pastori suonano nel periodo natalizio. Peculiari di questi brani erano il ritmo ternario (6/8, 9/8, 12/8), l’utilizzazione di strumenti caratteristici (cornamuse, pive, zampogne), il procedere per terze e la presenza di melodie sostenute da armonie molto larghe (limitate per lo più alla tonica o ala dominante) e costruite spesso con effetti di eco e giochi di simmetrie. Musica strumentale d’intonazione natalizia, al di fuori dunque dell’ambito delle sacre rappresentazioni e degli oratori, scrissero diversi autori del XVII e XVIII secolo: ricordiamo tra i molti i Pastorali Concerti al Presepe di F. Fiamengo (1637), il Concerto in forma di Pastorale per il S. Natale op. 8 n. 6 (Grave-Vivace, Largo, Vivace), pubblicato nel 1709, del veronese Giuseppe Torelli (1658-1709) , col suo alternarsi di parti riflessive e di melodie gioiose e col suo finale di scintillante musica italiana, il Concerto grosso fatto per la notte di Natale di Arcangelo Corelli (1653-1713), una composizione di ampio respiro che costituisce il n. 8 della sua raccolta di Concerti grossi op. 6 pubblicata nel 1712 e che è strutturata in cinque movimenti spesso caratterizzati da ricchezze di episodi e alternanze tra passaggi lenti e veloci (1. Vivace – Grave – Allegro, 2. Adagio – Allegro – Adagio, 3. Vivace, 4. Allegro, 5. Largo). Nell’ultimo movimento, intitolato appunto Pastorale, l’imitazione delle pive natalizie è evidente e suggestiva . Un allievo di Torelli, il pistoiese Francesco Manfredini (1684-1762), inizia con un brano intitolato Pastorale il suo Concerto grosso per il Santissimo Natale (in Do maggiore): è un brano dal movimento lento (Largo) e coi tratti consueti di questo genere ormai ricco di tradizione . L’esplicita indicazione di Pastorale si ha nel movimento conclusivo del Concerto grosso op. 1 n. 8 (pubblicato ad Amsterdam nel 1721) del compositore bergamasco Pietro Antonio Locatelli: (1695-1764) qui l’imitazione delle melodie tradizionali natalizie è assolutamente trasparente.
In molte altre composizioni strumentali di questo periodo (secc. XVII-XVIII), soprattutto per organo, il riferimento alla musica natalizia è evidente, anche se il titolo non contiene un esplicito riferimento al Natale. Notissimo il Capriccio Pastorale per organo di Gerolamo Frescobaldi, nel [Primo libro di] Toccate d’intavolatura di Cembalo et Organo partite da diversa aria e corrente (1637); la suggestione delle melodie natalizie si percepisce sia nella prima parte del brano, più riflessiva , sia nella festosa seconda parte . Una Piva per organo fu scritta dal già nominato Heinrich Schütz (1585-1672), come introduzione strumentale ai suoi Vesperi per il Natale . Brani intitolati Pastorale scrissero Zipoli, Pasquini e altri. Nel brano Introduzione e Pastorale di Bernardo Pasquini (morto a Roma nel 1710) è notevole il tono insieme solenne e gioioso ; nella Pastorale del toscano Domenico Zipoli (morto a Còrdoba, Argentina, nel 1726), si risente la stessa ispirazione del brano di Frescobaldi: un inizio più solenne e un finale più mosso, sempre riecheggianti melodie natalizie . Il tema pastorale, sia come riferimento ai pastori dell’Arcadia, sia come imitazione delle pive natalizie. è presente nella vasta e multiforme produzione del veneziano Baldassarre Galuppi (1706-1785). Tra le sue opere giovanili spiccano due favole pastorali (La fede nell’incostanza, 1722, e Dorinda, 1729, che fu il suo primo importante successo). Al di fuori della produzione operistica segnaliamo nell’ambito della sua produzione di musica sacra un’aria per soprano e strumenti intitolata Arietta pastorale (per la notte di Natale) e tra le composizioni strumentali una sonata per clavicembalo Pastorale, che inizia con un movimento molto calmo e leggero che ricorda il suono delle pive natalizie per proseguire poi con un andamento più vivace e sonoro .
Notevole è la Pastorella [Pastorale] per organo di J. S. Bach (BWV 590, circa 1710, ma pubblicata nel 1826), una composizione costituita da più brani, che si segnala per la compattezza ritmica (con prevalenza dei ritmi in 3/8 e, nella fuga finale, 6/8), la relativa semplicità del contrappunto, la sostanziale mancanza di pedale (solo il primo brano prevede l’utilizzazione del pedale, che comunque partecipa solamente con lunghissime note, con una soluzione consona più alla tradizione organistica italiana che a Bach): il tutto si conclude con una breve fuga a tre voci di fattura più complessa .
Musiche di questo genere possono trovarsi anche all’interno di composizioni più ampie. La seconda parte dell’Oratorio di Natale (Weihnachtstoratorium) di Bach (1734) inizia con un brano strumentale di carattere pastorale . Il Messiah di Händel (composto nel 1741, ma continuamente rielaborato e rivisto, fino alla morte del compositore, avvenuta nel 1750) contiene una breve Sinfonia pastorale (Pifa) intercalata tra il Coro che annunzia la nascita del bambino (“For unto us a Child is born”) e il recitativo “There were shepherds”: il carattere pastorale è sottolineato dal ritmo in 12/8 e dal movimento lento, oltre che dal carattere delle melodie. Nello stesso oratorio un altro brano di carattere pastorale (ritmo in 12/8, movimento lento, uso di corni) è il successivo duetto soprano-mezzosoprano “He shall feed His flock like a shepherd | and He shall gather the lambs with His arms” (“Nutrirà il Suo gregge come un pastore | e raggrupperà gli agnelli con le Sue braccia”) .
Se si esce dal repertorio organistico si trovano brani in cui si comincia a percepire un carattere per così dire profano. Tra le sonate per clavicembalo di Domenico Scarlatti quattro, vale a dire quelle catalogate come K 9, K 415, K 446, K 513, portano il titolo di Pastorale. Se osserviamo p.es. la K 9 (= L 413), noteremo che, benché formalmente vi si trovino tutte le caratteristiche della musica pastorale (ritmo in 6/8, procedimento per terze, armonie larghe), qui l’intonazione natalizia è assai meno evidente , e viene del tutto a mancare se si assume come punto di riferimento l’interpretazione, assai più veloce, e quasi vorticosa, di Wanda Landowska (il movimento prescritto è “Allegro”) . Anche nelle altre sonate l’atmosfera pastorale è appena percepibile, soprattutto per l’uso del ritmo in 6/8 o 12/8 e l’atmosfera un po’ rarefatta. Ancora più interessante il fatto che il catalogo delle sonate di Scarlatti contenga anche una sonata (K 8 = L 488) intitolata Bucolica: qui il richiamo natalizio manca del tutto, e siamo di fronte a un brano che semplicemente presenta un andamento dolce e delicato che evoca un’atmosfera serena .
L’emergere di una musica pastorale profana, accanto a quella di carattere sacro e legata alla Natività, si ha nel sec. XVIII. Non è estraneo a questo nuovo orientamento il diffondersi dell’idea che la musica strumentale possa imitare i suoni e i rumori della realtà, con la conseguente creazione, da parte di molti autori, di composizioni che anche nel titolo indicano la loro volontà di riprodurre i suoni della natura (canti di uccelli, tuoni e fulmini, p.es.) o i rumori prodotti dagli oggetti della vita quotidiana: ancora nelle sinfonie di Haydn si hanno titoli che alludono a questo carattere imitativo (Segnale di corno, L’orso, La Gallina, La Pendola, ecc.), anche se sovente il riflettersi della realtà nella musica è limitato a pochi passaggi che talvolta non hanno neppure particolare rilievo nell’insieme della composizione. L’introduzione di un motivo bucolico profano nella musica pastorale è accennata da una serie di brani che sono davvero noti, e quindi non hanno bisogno di ulteriore presentazione, quali sono Le Quattro Stagioni di A. Vivaldi (vale a dire i primi quattro concerti raccolti nei Concerti per violino Op. VIII, pubblicati ad Amsterdam attorno al 1725). I quattro concerti sono collegati a quattro sonetti scritti dallo stesso Vivaldi: il procedere della musica segue passo passo il testo letterario, e la volontà dell’imitazione è palesemente dichiarata anche nella partitura: p.es. nel secondo tempo (Largo) della Primavera, affidato ai violini, alle viole e al violino solista, quando la musica intende descrivere le parole “E quindi sul fiorito ameno prato | Al caro mormorio di fronde e piante | Dorme ‘l Caprar col fido can a lato”, la larga melodia del violino solista evoca “il capraro che dorme”, i due gruppi di violini imitano il “mormorio di fronde e piante”, mentre le viole (che suonano forte, a fronte del pianissimo degli altri strumenti: la partitura prescrive esattamente “sempre f, si deve suonare sempre molto forte e strappato”) ripetono a ogni battuta due note (do#-do# o sol#-sol#) che intendono descrivere “il cane che grida” . Il terzo tempo della Primavera descrive una danza pastorale (“Di pastoral zampogna al suon festante | Danzan ninfe e pastor nel tetto amato | Di primavera all’apparir brillante”). Il violino solista e i violini intonano un festoso motivo in ritmo di 12/8 (ripreso saltuariamente anche dalle viole), procedendo per terze, mentre i violoncelli e il continuo si limitano a lunghe note tenute . Il movimento iniziale dell’Estate comprende una varietà di episodi: se il motivo principale, col suo carattere un po’ slegato e volutamente privo di vigore, descrive la svogliatezza di uomini e animali sotto il sole ardente (“Sotto dura staggion dal sole accesa | Langue l’huom, langue ‘l gregge, ed arde il Pino”), il virtuosismo del violino solista imita le voci degli uccelli (il cucco, la tortora, il cardellino ), e poi la musica procede a evocare lo spirare dei venti, fino a che la contesa di zefiro e borea porta allo scoppio di una tempesta, e la musica descrive il temporale e poi il pianto del pastore spaventato: la descrizione prosegue nel secondo movimento e nel Presto finale. La musica segue in modo fedele il testo dei sonetti, ma non è mai condizionata da questo, ed anzi il valore musicale autonomo di questi brani, al di là del loro sforzarsi di riprodurre suoni o situazioni della natura, non può essere messo in discussione.
Di Vivaldi è anche un Concerto per flauto diritto (o violino), oboe (o violino), violino, fagotto e continuo, in Re maggiore, n. 95 del catalogo Ryom, denominato La Pastorella e un Concerto per il SS.mo Natale intitolato Il Riposo per violino, archi e continuo (RV 270) .
Nello scorcio di tempo che va tra la seconda metà del Settecento e l’inizio dell’Ottocento il motivo pastorale viene trattato da diversi musicisti. Se trascuriamo opere occasionali o minori (come il Minuetto pastorale di Muzio Clementi ), troviamo p.es. una Sinfonia Pastorella di Leopoldo Mozart (il padre di Wolfgang Amadeus: più che una sinfonia si tratta in realtà di un concerto in tre movimenti, composto nel 1755, per corno delle alpi e orchestra: il corno delle Alpi è uno strumento di dimensioni mastodontiche usato da secoli dai pastori delle Alpi per richiamare il bestiame: il suo uso come strumento solista è un unicum) . La Sinfonia n. 26 in do minore (G 519) di L. Boccherini (1743-1805), composta nel 1788, ha un secondo movimento intitolato Lentarello Pastorale: si tratta di un brano di grande intensità caratteriizato da un tema fortemente melodico (i quattro movimenti di cui la sinfonia si compone sono rispettivamente: Allegro vivo assai, Lentarello, Allegro (Minuetto), Allegro). Un altro brano dello stesso Boccherini che porta l’intitolazione Pastorale è il primo movimento del Quintetto per archi e chitarra n. 4 (G 448), col suo andamento cullante e il suo tono dimesso e accattivante : il quintetto è noto però soprattutto per il suo movimento finale, concluso da un celebre Fandango (i tre movimenti sono: Pastorale, Allegro maestoso, Grave assai – Fandango).
Quando si intende delineare lo sviluppo del motivo pastorale nella musica la Sinfonia Pastorale di Beethoven ha una posizione davvero centrale. La Sinfonia n. 6 op. 68 in fa maggiore fu composta nell’estate 1808 (anche se alcuni abbozzi di suoi temi si ritrovano in appunti risalenti fino al 1804), in quasi perfetta contemporaneità con la Quinta Sinfonia op. 67, ed entrambe furono presentate, insieme con altre composizioni di Beethoven, nel memorabile concerto del 22 dicembre 1808. Dunque Beethoven lavorò contemporaneamente alla composizione di due sinfonie dal carattere totalmente diverso, come sono appunto la Quinta e la Sesta. Tralasciando i particolari relativi alla biografia dell’autore e gli aneddoti variamente raccontati da amici e contemporanei, noteremo soltanto che Beethoven più volte attesta in vari documenti il suo profondo amore per la campagna e che una visione vagamente panteistica della natura, percorsa dalla potenza divina che in essa si rispecchia e traspare, costituisce un motivo non di rado affermato dal Romanticismo tedesco. È stato detto (anche più di quanto fosse necessario) che la musica “a programma” non costituiva una novità nell’ambiente viennese del primo Ottocento, e notò già indirettamente Schumann, recensendo una sinfonia di Spohr intitolata La consacrazione dei suoni ed eseguita per la prima volta nel 1835, che “Beethoven non ha nemmeno notato il pericolo corso con la Sinfonia pastorale” (il pericolo che la necessità di seguire un programma coartasse l’espressione musicale e rendesse meno autentico il prodotto musicale, originato più da una deliberata volontà esterna che da una convinta e schietta ispirazione, la preoccupazione insomma che si creasse una subordinazione della musica a un progetto esterno).
Meno generalmente noto è il fatto che anche un’altra composizione di Beethoven è nota col titolo Pastorale: si tratta della Sonata per pianoforte op. 28, pubblicata nel 1801, la cui intitolazione di Pastorale non è dovuta all’autore, e non appare molto perspicua. È stata notata la “semplicità agreste della linea melodica” o il “sapore georgico del primo tema” del primo tempo (Allegro) e molti critici osservano come vari passaggi della sonata sembrino più strumentali che pianistici, tanto che un famoso pianista notava la natura “quasi clarinetto” di alcune battute (scrive G. Scuderi, Beethoven. Le Sonate per pianoforte, Milano 1933, p. 173: “l’osservazione è interessante, perché denota come Beethoven sia riuscito a ricreare, in un semplice passaggio pianistico, il particolare colore georgico che, per analogia sensitiva, richiama il suono d’uno strumento di origine agreste”). Tuttavia, al di là di qualche breve passaggio, non sembra che questa sonata abbia un timbro particolarmente pastorale: sarebbe più interessante notare, se mai, che alcuni passaggi del tempo lento (Andante) si ritrovano quasi identici nel Larghetto della Seconda Sinfonia op. 36, nella quale nessuno ha proposto di vedere un timbro pastorale o agreste: poiché quest’ultima fu composta e pubblicata poco dopo la Sonata op. 28 si deve concludere che Beethoven per primo aveva percepito il carattere strumentale di certi passaggi della sonata!
Tornando alla Sesta Sinfonia, una chiave di lettura importante ci è suggerita da Beethoven stesso, quando definiva questa sinfonia con le parole “più espressione di sentimento che pittura (mehr Ausdruck der Empfindung als Malerei)”: questa frase era collocata vicino al titolo della sinfonia nel programma del concerto inaugurale del 1808. Evidentemente Beethoven stesso percepiva la preoccupazione che un’attenzione eccessiva al programma fuorviasse gli ascoltatori e li allontanasse da una lettura corretta della sinfonia. Di fatto, al di là dei titoletti apposti ai cinque movimenti da cui la sinfonia è costituita, è evidente come l’amore per la natura, dichiarato dal compositore in diversi documenti, e la sua partecipazione attenta ai fenomeni naturali, sia stato interiorizzato e per così dire trasfigurato in un contesto in cui hanno rilievo solamente i valori musicali. Non deve infine essere sottovalutata la suggestione che può avere esercitato sul progetto creativo di Beethoven la lettura e lo studio di una composizione del musicista austriaco J. H. Knecht (1752-1817), che pubblicò nel 1784 una sinfonia intitolata Portrait de la Nature (Ritratto della natura), un’opera che Beethoven ebbe occasione di conoscere e di studiare e che aveva un programma simile a quello della Sinfonia Pastorale.
Il primo movimento, Allegro ma non troppo (2/4 = 66), reca come sottotitolo “Risvegliarsi di sensazioni gioiose all’arrivo in campagna (Erwachen heiterer Gefühle bei der Ankunft auf dem Lande)”. L’orchestra è costituita da 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni e gli archi: in sostanza l’organico tradizionale delle sinfonie beethoveniane, ma con la mancanza di trombe e timpani, quasi a sottolineare il carattere tranquillo e sereno, e la mancanza di tensioni drammatiche che domina tutto il brano. Il tutto inizia con un tema di quattro battute (“un semplice tema campestre di quattro battute che potrebbe essere espresso da una zampogna”, per usare la parole di M. Chop, Le Nove Sinfonie di Beethoven, Milano 1952, p. 138) enunciato dai violini (i secondi violini entrano alla batt. 3), mentre viole e violoncelli (i contrabbassi tacciono) si soffermano a lungo sulla quinta fa-do, per poi concludere sull’accordo di dominante. È inusuale che Beethoven inizi una sinfonia con l’enunciazione del tema principale, conclusa e ben individuata dal punto coronato: ma ancora più degno di nota è il fatto che immediatamente dopo l’enunciazione inizia una prolungata analisi del tema, che, nella sua brevità e apparente semplicità, si rivela come un nucleo da cui germinano una quantità di idee e di passaggi continuamente nuovi. Sappiamo che sviluppando un tema Beethoven ne esplora e ne approfondisce ogni potenzialità espressiva, con un procedimento in cui esuberanza e sintesi appaiono straordinariamente coniugate fra loro, ma lo sviluppo di questo prima tema acquisisce una dimensione veramente inconsueta. Il carattere del brano è sempre di grande serenità: subito dopo l’enunciazione il tema viene ripreso dagli oboi, poi dai clarinetti, e infine gioiosamente ribadito nel forte dall’intera orchestra . Ogni successiva elaborazione nasce sempre da una sezione del tema principale, e anche il secondo tema (enunciato dai primi violini, e poi ripreso più volte, nell’ordine dai secondi violini, dai violoncelli, dal clarinetto e via via dagli altri legni) non si presenta come in contrasto, bensì come completamento del primo tema . Il frequente procedere per terze è, come abbiamo già visto, caratteristico dello stile pastorale. Il carattere insistito e apparentemente ripetitivo di certi passaggi () sembra voler confermare il senso di piacevole abbandono a sentimenti di benessere, a metà tra il desiderio di farsi cullare dalla melodia e quello di raccontare distesamente il proprio senso di appagamento. Non mancano nello sviluppo passaggi di grande suggestione, e talvolta anche spiritosi (p.es. il dialogo tra violini e fagotto, batt. 187 ss.). Dopo la coda, introdotta da un passaggio del clarinetto che non è altro che l’ennesima variazione del primo tema (questa volta della sua terza battuta), il tempo si conclude con l’ultima ripetizione del tema stesso, ripreso in pianissimo dolce prima dai violini e poi dal flauto: l’ultima parte (una scaletta di crome che porta dal si bemolle al fa) viene prima ripresa da clarinetti e fagotti e poi, in un gioioso unisono forte, dai tutti i legni e dagli archi: segue una serie di larghi accordi in sforzando che sono un annuncio di giocondità e di letizia.
Il secondo tempo (Andante molto mosso, 3/8 = 50) s’intitola “Scena al ruscello (Szene am Bach)”. Mentre il primo tempo annunziava sensazioni di benessere e di letizia interiore, il secondo tempo, col suo ritmo più calmo, descrive piuttosto sentimenti di quiete che nascono da un’osservazione attenta e partecipe, e quasi dall’immedesimazione con la natura che ci circonda. Se l’armonia evoca lo stormire delle fronde e il fluire delle acque, e se il procedere del brano è continuamente percorso da trilli e abbellimenti che evocano il canto degli uccelli, la melodia fondamentale presenta caratteri di grande tranquillità, e si snoda in modo disteso, senza quei contrasti, quei silenzi, quelle lacerazioni che caratterizzano altre composizioni beethoveniane. Essa si condensa con naturalezza sgorgando da una semplicissima figura dei primi violini, che emerge su un movimento ondeggiante di violini secondi, viole e violoncelli (divisi in due gruppi), mentre i contrabbassi sottolineano l’armonia col pizzicato e i corni aggiungono la loro voce con lunghe note tenute . Il disegno musicale procede nitido, con la partecipazione dell’intera orchestra, fino a che verso la fine del tempo si ha come un fermarsi improvviso e si ode, nella realistica imitazione dei legni (precisamente il flauto per l’usignolo, l’oboe per la quaglia e il clarinetto per il cuculo), il canto degli uccelli . Si è molto discusso sulla presenza di questo passaggio di carattere imitativo: i contemporanei hanno raccontato aneddoti non sempre affidabili, e i critici successivi si sono chiesti se questo passaggio non implicasse una rinuncia alla possibilità di esprimere con la sola forza dell’evocazione musicale le voci della natura. Per la verità, si dovrebbe ricordare innanzitutto che questa sinfonia, nonostante la presenza di un titolo e di un programma (sia pure molto scarno), fa un uso assai scarso dell’imitazione vera e propria (che si presenta solo qui e nel temporale), e pertanto un passaggio di carattere imitativo non intacca certo i valori musicali del secondo tempo. Ma, al di là degli eccessi a cui si può essere andati incontro in discussioni che hanno sempre qualcosa di ozioso, questa imitazione, due volte ripetuta, dovrebbe essere calata nel suo contesto: nel resto del tempo le voci della natura sono evocate, ma filtrate attraverso un processo di interiorizzazione che pone l’accento non sulle voci medesime, bensì sull’io dell’autore, sui suoi sentimenti, sulle riflessioni che nascono dal profondo del pensiero e del cuore: ora per un momento il compositore esce da sé stesso e si concentra su alcune voci in particolare. Non si dovrebbe dimenticare che nei due brevi passaggi dedicati al canto degli uccelli tace tutto il resto dell’orchestra, che ha finora largamente contribuito alla descrizione del paesaggio: per un attimo l’autore sente soltanto queste voci, mentre tutto intorno si fa silenzio. Ma anche queste voci e questo silenzio passano attraverso la sua interiorità. Se anziché come un momento di imitazione, e quindi implicitamente di diminuzione dei valori musicali, queste battute fossero percepite come un momento di contemplazione, molti dei problemi e delle discussioni non avrebbero più ragione d’essere.
Il terzo tempo s’intitola “Allegra riunione di contadini (Lustiges Zusammensein der Landleute)”. Se nei primi due tempi la musica aveva voluto descrivere i sentimenti di letizia e di pace che l’ambiente naturale suscita, qui protagoniste sono le persone che abitano in questo ambiente sereno: dopo avere contemplato le bellezze della natura, l’autore scopre la presenza di un’umanità che vive in questo paesaggio. Pur filtrato attraverso i sussulti del romanticismo, e pervenuto probabilmente per vie diverse, l’ideale bucolico di provenienza classica del locus amoenus e dell’umanità semplice che vive felicemente in campagna aleggia nella Sinfona Pastorale. Nel comporre questa pagina Beethoven può essersi richiamato a rappresentazioni pittoriche di feste campestri, un motivo diffuso nell’arte europea del XVII-XVIII secolo. Dal punto di vista formale questo movimento è trattato con una notevolissima libertà, e non ha praticamente nulla in comune col tradizionale Minuetto o con lo Scherzo, di cui dovrebbe prendere il posto, se non il ritmo di 3/4 e l’andamento veloce (Allegro 3/4 = 108): esso ha un carattere chiaramente descrittivo (non più di riflessione come i primi due tempi), e non di rado la musica si abbandona a soluzioni impreviste nelle quali non manca un certo carattere umoristico. Il carattere lieto del movimento, già dichiarato nel titolo, è continuamente ribadito nel procedere del discorso musicale. Il motivo iniziale ha nella sua prima parte, enunciata dagli archi, un andamento vorticoso e saltellante, che contrasta (con le nette opposizioni staccato ~ legato e forte ~ piano dolce) con l’andamento più calmo e quasi elegiaco della seconda parte (archi e legni) . Il tema, con le sue opposizioni, viene ripetuto e rielaborato più volte, fino a che una decisa serie di accordi a piena orchestra (sf) prelude all’introduzione di qualcosa di diverso. Ci si prepara per una danza: una preparazione prolungata, con le terze dell’accompagnamento che passano da fagotti e corni agli archi, e infine l’oboe intona una delicata melodia, sbagliando però l’attacco, che risulta sfasato di un quarto rispetto al ritmo dettato dai violini con un’insistenza quasi monotona. Sono musicanti di villaggio questi che si preparano a sostenere la danza dei loro amici. Già Mozart aveva benevolmente canzonato l’imperizia di musicisti dilettanti nello Scherzo musicale “I musicanti di villaggio” (K 522 del 1787), ma questo passaggio di Beethoven presenta una concezione veramente originale, e la sottile ironia di cui è pervaso non può far dimenticare la bellezza dei motivi musicali che vi trovano posto. La scarsa perizia dei musicanti porta a incertezze e confusioni: mentre i fagotti prendono il posto degli archi, ma solo per poco (questi musicisti si stancano presto!), nel dettare il ritmo procedendo con la figura dell’accompagnamento, il clarinetto sostituisce l’oboe nell’enunciazione della melodia, ma, oltre a non correggere l’errore di ritmo iniziale, si esibisce in una specie di virtuosismo che in realtà è solo una caduta a precipizio . Infine è il corno a concludere l’enunciazione di questa melodia, ma alla fine il ritmo dell’accompagnamento si interrompe e viene richiesto in modo quasi imperioso un cambiamento di ritmo (sempre più stretto), che porta a una vorticosa danza austriaca (In tempo d’Allegro, 1/4 = 132), nella quale le trombe per la prima volta fanno sentire la loro voce . L’intero episodio viene poi ripetuto dall’inizio. Alla nuova ripresa (la terza) sembra che qualche novità sia nell’aria. L’Allegro è ribadito con qualche incertezza, e la sua conclusione è affannosa e quasi ansimante; si prosegue fino all’attacco delle terze d’accompagnamento, ma il ritmo è più veloce (Presto), e non c’è più tempo per un’altra danza. Si addensa un temporale, e bisogna correre in fretta nelle case, perché violoncelli e contrabbassi preannunciano un tuono lontano.
A differenza degli altri tempi, il quarto tempo, intitolato “Temporale (Gewitter, Sturm)” (Allegro, 2/4 = 80), ha un carattere puramente imitativo. Questo giustifica l’apparente anomalia di una sinfonia in cinque movimenti: il quarto non entra nel computo, proprio perché costituisce un momento di transizione. La musica evoca i tuoni lontani (nel tremolo di violoncelli e contrabbassi), le prime gocce di pioggia (le crome in staccato dei secondi violini), i richiami della gente (le figure dei primi violini) sempre più agitati (la ripresa è di un tono più alta), infine lo scroscio violento nel fortissimo dell’orchestra, col rombo profondo di violoncelli e contrabbassi, il tremolo degli altri archi coi primi violini su registri molto acuti, le lunghe note di legni e ottoni, ai quali si aggiunge ora il fragoroso intervento dei timpani . Tuoni e fulmini si susseguono uno dietro l’altro, mentre i violini col loro staccato insistono nel descrivere la sensazione di agitazione che prende tutti quanti. Non è ancora l’acme: con la batt. 82 fa il suo ingresso l’ottavino con la sua voce acutissima, e poi con la batt. 106 si uniscono al resto dell’orchestra due tromboni. Ma ben presto la furia degli elementi si placa. Tuoni e fulmini si fanno via via più lontani, e sul finire del tempo le lunghe note di archi e legni (dolce) indicano che il peggio e passato e si può tornare alla solita vita.
Il quinto movimento s’intitola “Canto pastorale. Sentimenti gioiosi e grati dopo il temporale (Hirtengesang. Frohe, dankbare Gefühle nach dem Sturm)” ed è costituito da un lungo Allegretto (3/8 = 60). L’organico orchestrale è quello dei primi due tempi, con l’aggiunta di trombe e tromboni: l’annuncio della propria gratitudine al Signore abbisogna di voci più sonore di quelle utilizzate all’inizio, ove la dimensione era prevalentemente personale e intima. Preannunciato prima dal clarinetto e poi dal corno, il motivo intonato dai primi violini (col sostegno del pizzicato dei violoncelli e lo sfondo armonico di clarinetti, fagotti e viole, che sostano a lungo sull’accordo di tonica) è un canto di rara intensità, che esprime gioia contenuta e sentimenti di riconoscenza, dai quali non è assente il sentimento religioso . Troviamo nel brano i tratti già individuati come caratteristici dell’intonazione pastorale: il ritmo di 6/8, il procedere per terza, il carattere semplice e suggestivo dei temi, le larghe armonie. Il carattere di gioia contenuta e profonda viene ribadito nelle successive riprese del tema: sulla melodia intonata dai primi violini si raduna tutta l’orchestra, fino a che il tema è ripetuto in fortissimo da clarinetti, corni, viole, violoncelli, mentre i violini eseguono un tremolo su note acute e gli altri strumenti concorrono a rendere più largo e sonoro lo sfondo armonico. Dal primo tema scaturiscono una quantità di nuove figurazioni, con l’orchestra che ora intona melodie largamente cantate e ora insiste su trame sonore complesse, con serrati dialoghi tra i diversi gruppi di strumenti, cosicché spesso un motivo iniziato da una sezione dell’orchestra viene concluso da un’altra: accordi robusti e sonori lasciano il posto a fraseggi più delicati: al manifestarsi di gioia comunque priva di eccessi, mai sguaiata, si alternano momenti di più contenuta letizia e di più intima consapevolezza . I temi principali sono ripresi più volte, quasi che non si sia mai sazi di esprimere la propria soddisfazione e la propria gratitudine, e sottoposti, qui come nei primi due tempi, a un lavorìo di sviluppo che ne esplora ogni potenzialità. Alla fine di questa lunga e complessa tessitura sonora ritorna il primo tema, enunciato dal primo corno (pianissimo e con sordina), mentre i legni sostano sulla tonica e gli archi si passano, dall’alto verso il basso, un semplice fraseggio nato da una delle elaborazioni del tema. Due robusti accordi in fortissimo concludono il brano e la sinfonia.
Uno dei capisaldi del periodo musicale romantico, sia per i suoi valori musicali sia per il trattamento innovativo dell’orchestra, è costituito dalla Sinfonia fantastica di H. Berlioz. Scritta nel 1830, quando il compositore aveva appena 26 anni, essa era intitolata dapprima Episodi della vita di un artista, e si propone di descrivere i sogni di un fumatore d’oppio da poco reduce da una delusione amorosa. Il rapporto tra programma e musica è assai stretto, tanto che secondo lo stesso compositore affermava che “il piano del dramma strumentale, privato del soccorso della parola, deve essere esposto in anticipo. Il programma deve dunque essere considerato come il libretto di un’opera” e prescriveva che “la distribuzione del programma all’uditorio, nei concerti ove sia prevista questa sinfonia, è indispensabile per l’intelligenza completa del piano drammatico dell’opera”. Il terzo dei cinque tempi di cui si compone la sinfonia (1. Sogni, passioni; 2. Un ballo; 3. Scena nei campi; 4. Marcia al supplizio; 5. Sogno di una notte di sabba) descrive una scena campestre. Si tratta di un Adagio dal ritmo in 6/8 e dall’andamento molto calmo (1/8 = 84). L’artista si è ritirato in campagna per ritemprare il proprio animo dallo sconforto: la quiete del paesaggio (nuovamente si affaccia il motivo della campagna come luogo di semplicità primordiale in cui passioni e affanni si stemperano), la voce lontana di due pastori, lo stormire degli alberi suscitano in lui qualche vaga speranza che la sua amata possa tornare (v. programma). Il brano inizia con un dialogo tra due pastori, rappresentati rispettivamente dal corno inglese (che prende momentaneamente il posto del secondo oboe) e dal primo oboe, che dietro la scena intonano un motivo lamentoso, nel silenzio assoluto: solo dalla battuta 11 si ode il tremolo appena appena sussurrato delle viole (pianissimo ppp con sordina) . Nonostante il carattere melanconico e dolente del motivo (un canto amebeo!), la dolcezza della natura ottiene il suo effetto pacificatore, tanto che i violini primi e il primo flauto intonano all’unisono, sempre nel silenzio generale (interrotto solo dal pizzicato di violini secondi, viole e violoncelli), un motivo molto sereno e delicato tratto dal canto dei pastori, non privo però di qualche accento di tristezza e di tensione (col suo sforzando) . A violini primi e primo flauto si associano poi i violini secondi e il secondo flauto, creando un movimento di terze caratteristico della musica pastorale. Lo svolgimento prosegue con alternanze tra momenti di grande serenità (il fraseggiare tranquillo dei primi violini) e improvvisi sbalzi di umore e con accenti di grande tensione che emergono improvvisi, fino al raggiungimento di un culmine sonoro (fortissimo) di forte drammaticità (il tremolo très serré di violini e viole), che sbocca in una robusta affermazione di violoncelli, contrabbassi e fagotti. Su questa si sovrappone improvviso il pensiero della donna amata: il motivo che la identifica (una specie di Leitmotiv che si ripete da un movimento all’altro della sinfonia) è intonato dal primo flauto e dal primo oboe, mentre i clarinetti disegnano lo sfondo armonico. La reazione di violoncelli, contrabbassi e fagotti è violentissima (e sostenuta dal tremolo in crescendo degli altri archi) e ne segue un momento di grande agitazione, col ritmo che si fa più serrato (animez un peu) e coi timpani che intervengono per la prima volta. Poi le passioni si smorzano un po’ (diminuendo, piano, morendo), ma rimane sempre uno stato di angoscia più o meno latente: l’orchestra in parte riprende e sviluppa il motivo iniziale dei pastori (affidato spesso ai legni, in particolare ai clarinetti) e in parte si abbandona ad accenti di agitazione (lo staccato dei violini primi, col drammatico accompagnamento degli altri archi), e non mancano momenti in cui si tenta di trovare dentro di sé un maggiore equilibrio e ci si tenta di richiamare a un atteggiamento meno agitato, come quando i violini secondi tentano di riprendere, all’interno del contesto sonoro molto agitato degli archi, almeno frammenti del tema sereno emerso all’inizio. La musica prosegue con questi continui ondeggiamenti tra sensazioni opposte e contrastanti, in cui fasi di calma si succedono a momenti di pathos, fino a che, verso la fine del movimento, tutto sembra spegnersi, con l’intensità sonora dell’orchestra che diminuisce progressivamente e il ritmo che si fa ancora più calmo (un peu retenu). Riappare la movenza triste dell’inizio con un carattere ancora più marcatamente malinconico: il corno inglese fa udire di nuovo il motivo pastorale, ma non c’è più la risposta dell’oboe: al suo posto suoni di tuono lontano, rappresentati dall’a solo dei quattro timpani, che, come è prescritto espressamente, suonano con bacchette di spugna . Poi anche il canto dell’unico pastore rimasto si fa più fievole (pianissimo perdendo) fino a svanire del tutto, e anche l’ultimo accenno di tuono è lontanissimo (pianissimo ppp). È la solitudine completa: l’accordo finale di tonica (archi e secondo corno) definisce un panorama di grande desolazione interiore.
IV. Dall’Impressionismo a oggi
I brani del periodo successivo che in modo più o meno dichiarato si rifanno alla tradizione pastorale sono numerosissimi.
Ritroviamo, nella seconda parte del secolo, delle Pastorali per organo. Molto nota è la Pastorale Op. 19 (1866) di César Franck, ove si riprende la tradizione della musica natalizia: il brano si apre con una sezione solenne e di grande sonorità (Andantino) : alcuni accordi molto gravi portano a un passaggio molto più mosso , e infine viene ripresa, nella sezione finale, il tema introduttivo. Pastorali per organo scrisse anche Max Reger (il secondo dei 12 Stücke per organo op. 59, del 1901 e il terzo dei 12 Stücke op. 65, del 1902). Anche la tradizione della musica pastorale non religiosa sopravvive nella seconda metà del XIX secolo: una testimonianza fra le tante (forse innumerevoli) è il seguente passaggio per piano di F. Liszt, intitolato appunto Pastorale e contenuto nella prima raccolta degli Années de Pèlerinage: Suisse, pubblicata nel 1855 (anche se la composizione del brano è anteriore di una ventina d’anni) : la stessa raccolta contiene anche un brano intitolato Eclogue, in cui una melodia calma e serena contribuisce a creare un’atmosfera un po’ rarefatta e sognante .
Ma tra tutti va citato in modo particolare il Prélude à l’après-midi d’un faune di Cl. Debussy. Composto nel 1892 e presentato nel 1894 (ma l’orchestrazione fu ritoccata) in anni successivi (1908), si ispira, come dice esplicitamente il titolo, a una poesia di Stefano Mallarmé. Debussy è il maggior esponente dell’Impressionismo musicale: con una tecnica che ricorda un po’ quella dei pittori impressionisti, la musica sembra esprimersi più con macchie di colore che coi tratti di un disegno nitido e organicamente concepito. Apparentemente si ha la dissoluzione di ogni forma classica: tanto sul piano melodico quanto sul piano dell’armonia e della costruzione, più che secondo un piano prestabilito la musica sembra procedere a sbalzi, descrivendo le impressioni del momento più che seguendo un disegno organico. I contemporanei rimproverarono spesso a Debussy questo carattere apparentemente frammentario e quasi anarchico della sua musica: in realtà questa musica procede secondo schemi formali e costruttivi semplicemente diversi da quelli tradizionali, e a chi gli rimproverava che il Prélude à l’après-midi d’un faune non seguisse un disegno preciso, Debussy rispondeva che aveva composto questo brano secondo un’architettura che si fondava su travi portanti ben precise, solo che lui stesso le aveva nascoste fino a renderle invisibili. L’organico orchestrale è costituito da: 3 flauti (di cui il primo interviene spesso come solista), 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 arpe, cimbali (“cymbales antiques”) e archi; come si vede, un organico che, pur nella sua ampiezza, fa uso parco di ottoni e di percussioni, sottolineando con ciò il carattere elegiaco del brano. Lo spunto iniziale (e fondamentale) del brano è costituito da un passaggio di quattro battute enunciato dal primo flauto subito all’inizio: si tratta di un motivo altamente suggestivo, col suo cromatismo, con le sue variazioni ritmiche, col suo carattere ondeggiante sia nel disegno musicale sia nella sonorità .
Subito dopo l’esposizione inizia lo sviluppo, che vede inizialmente protagonisti legni, corni e arpa: si tratta di una musica che ha fin dall’inizio una gran suggestione, coi suoi richiami sonori, coi suoi silenzi, con le sue evocazioni . Anziché fare appello alle masse orchestrali, Debussy preferisce esplorare le potenzialità espressive delle varie sezioni dell’orchestra o dei singoli strumenti (anche all’interno degli archi i vari gruppi di strumenti sono spesso divisi e ad alcuni vengono affidati lunghi passaggi solistici), richiamandosi espressamente alle innovazioni e alle esperienze della tradizione francese (Berlioz) e ottenendo effetti di grande efficacia, con pennellate calde e carezzevoli alternate a passaggi esangui e carichi di sensualità . Il ritmo si fa ora più serrato ora più molle e calmo, e il tema iniziale viene più volte ripreso con variazioni sempre nuove, passando attraverso diversi strumenti, fino ad essere riproposto dall’oboe, con valori ritmici diversi e variato nella parte conclusiva, poco prima della fine . Le indicazioni via via proposte di retenu, très retenu, très lent et très retenu jusqu’à la fin dànno l’idea del carattere sempre più languido con cui il brano si avvia alla conclusione.
Composizioni che si richiamano alla tradizione pastorale si trovano anche nella musica del XX secolo.
Un brano interessante e gradevole è la Sinfonia pastorale op. 49 di Darius Milhaud (1892-1974): questa composizione costituisce la seconda delle tre “Sinfonie per piccola orchestra” del compositore. Nato in Francia (ad Aix-en Provence), ma trasferitosi ancora giovane negli Stati Uniti, D. Milhaud fu autore molto produttivo nell’ambito sia della musica sinfonica sia della musica da camera sia della musica lirica. Partecipe di correnti musicali che tentano un’espressione musicale meno vincolata alle regole dell’armonia classica, in molti suoi brani si percepisce anche un influsso della musica jazzistica statunitense. Scritta in giovane età nel 1918, la Sinfonia pastorale si compone di tre movimenti (Joyeux , Calme , Joyeux ): in modo particolare il secondo presenta un’atmosfera molto suggestiva e giustifica l’intitolazione di pastorale. Dello stesso Milhaud è anche la Fantasia Pastorale per pianoforte e orchestra (o due pianoforti) op. 188 , del 1938, dal tono elegiaco e sereno, e sei Pastorali per pianoforte.
Dal medesimo ambiente artistico da cui provenne Milhaud (Les Six) proviene anche Arthur Honegger. La sua Pastorale d’été è un breve poema sinfonico per archi, legni e corno scritto nel 1920. Rispetto alle suggestioni di Debussy, il brano segna un sostanziale ritorno a schemi di composizione tradizionali e classici: anche la costruzione armonica si avvicina agli schemi tradizionali ben più di quanto avvenisse nella fase dell’Impressionismo (anche se non mancano libertà: ad es. la cadenza conclusiva su un accordo anomalo). Sullo sfondo di un motivo grave e insistito, che si ripete per tutto il corso del brano, il corno espone una melodia molto calma e suggestiva . Con una serie di effetti orchestrali di rara intensità il compositore riesce a descrivere la calma e la serenità di un pomeriggio estivo .
Altra pagina di grande suggestione è la Pastorale. Canzone senza parole per violino e quartetto di fiati del compositore russo Igor Stravinskij (1882-1971) . Un passaggio intitolato “Pastorale” si trova anche nell’Histoire du soldat (1918) .