E’ la domanda fondamentale che tutti i cultori e gli insegnanti di materie classiche dovrebbero porsi.
Proponiamo qualche tentativo di risposta, positiva e negativa, alla domanda fondamentale da parte di autori noti o significativi degli ultimi secoli, nonché una serie di documenti su questa tematica prodotti da associazioni professionali o altri enti interessati al problema.
TESTIMONIANZE
Alessandro Tassoni
Il pensatore e scrittore Alessandro Tassoni (1565-1635) diede una risposta polemicamente negativa e ritiene inutile perdita di tempo lo studio dei classici.
Che dunque i fanciulli, che hanno da viver politicamente, e non s’hanno da impiegare in operazioni servili, imparino di leggere e scrivere nella lingua loro, il tengo per necessario. Ma le lettere di che noi trattiamo, sono, come da principio si disse, le dottrine e quelle che con vano nome si chiamano scienze. Dissi con vano nome, perché quelle, che alcune sette di filosofi hanno chiamate scienze, non sono che mere opinioni da diversi diversamente intese, e con ragioni probabili ed apparenti in cento modi difese, come i libri d’Anasidemo Egeo e di Sesto Empirico mostrano. Che se il senso, che palpa egli stesso gli oggetti, s’inganna, che certezza vogliam noi dare a’ pensieri dell’intelletto, che opera per terza mano; e si serve delle chimere, che gli porta innanzi la fantasia, che mezzo le toglie in presto dal senso, e mezzo le si sogna da sé?
Questa sorte di lettere adunque io non istimo necessario in alcuna maniera, che i giovinetti l’imparino; non vedendo che utile possa risultare ad una repubblica, che la gioventù stia consumando tutto il fior dell’età nell’ozio nelle scuole, imparando e disputando cose sofistiche e vane. Ideo ego adolescentulos existimo in scholis stultissimos fieri (disse Petronio Arbitro) quia nihil ex iis quae in uso habemus aut audiunt, aut vident. O di Seneca, deBrev. vitae: Graecorum iste morbus fuit, quaerere quem numerum remigum Ulisses habuisset; prior scripta esset Ilias an Odyssea; praeterea an eiusdem esset auctoris. Che s’ha egli da fare della retorica, o della poesia? Che della logica, fisica e metafisica, e d’altri simili perdimenti di tempo? Che importa egli il saper queste cose? Forse quei, che le sanno, sono migliori cittadini, o più ricchi, o più forti, o più sani, o più prudenti degli altri? Certo no; anzi quei corpi e quegli animi, ch’esercitandosi come faceva la gioventù di Sparta e di Roma, sarebbono stati robusti e valorosi per difesa della repubblica, sedendosi all’ombra in una vita molle ed effemminata, s’inlanguidiscono e snervano: Continuo otio in foeminas degenerantes; come disse Agatarchide de’ sabei. E quegl’ingegni che, applicandogli al governo civile, sarebbono riusciti prudenti, folleggiano intorno a cose leggieri e consumano il patrimonio nell’ozio, riportando alle case loro più vizi che dottrina; non avvertendo i padri, che Ulisse non fu mai chiamato prudente, perch’egli fosse letterato. E sovviemmi di Tacito, là dove parlando degli studi e costumi Greci introdotti in Roma sotto Nerone, disse: Patrios mores funditus everti per accitam lasciviam, ut quod usquam corrumpi et corrumpere queat in urbe visatur; degeneretque studiis externis iuventus gymnasia et otia et turpes amores exercendo. Licinio e Valente e Valentiniano imperadori, Eraclide lizio e Filenide melitense chiamavano le dottrine e le lettere peste e veleno delle republiche. Però a gran ragione Paolo secondo papa (come il Platina nella vita di lui riferisce) esortava i romani che non lasciassero occupare i figliuoli e consumar la gioventù loro in così fatti perdimenti di tempo, de’ quali Marziale, esclamando la sua fortuna, disse: At me literulas stulti docuere parentes.
Il poeta e letterato fiorentino Anton Maria Salvini (Firenze, 1653-1729), molto noto e apprezzato dai suoi contemporanei, in Italia e all’estero (fu ammesso come membro nella Royal Society di Londra, presieduta a quell’epoca da Isaac Newton), impegnò buona parte della sua esistenza a un’appassionata opera di difesa e divulgazione della letteratura antica. Tradusse numerose opere, poetiche e prosastiche, soprattutto dal greco (importanti sono soprattutto le sue traduzioni in endecasillabi sciolti dell’Iliade e dell’Odissea), ma non disdegnò di cimentarsi in traduzioni di poeti suoi contemporanei (era ottimo conoscitore della lingua francese, inglese e spagnola, oltre che esperto di lingue classiche e di ebraico). Fu anche studioso di lingue, e a lui si deve, oltre alla cura di sezioni del Vocabolario della Crusca (accademia di cui era membro), un vocabolario del dialetto toscano.
Riportiamo qui alcuni passaggi di un discorso intitolato Apologia della lingua greca, inserito in una grossa opera in tre tomi) di Discorsi accademici pronunziati dinanzi ai soci dell’Accademia degli Apatisti. Nonostante il tono un po’ enfatico delle sue argomentazioni, il Salvini trova buone ragioni per illustrare l’importanza della lingua greca, visibilmente richiamando per contrastarle, in alcuni passaggi, le affermazioni del Tassoni.
(N. B. Sono mantenute la grafia e la punteggiatura originali, senza adattamenti)
DISCORSI ACCADÈMICI DI ANTON MARIA SALVINI
Sopra alcuni dubbj propofti nell’Accademia degli Apatisti.
Firenze 1695
Dal Discorso Cinquantesimo settimo (pag. 210 e ss.)
Apologia della lingua greca
Il suono della lode delle greche lettere, che s’è udito copiosamente risonante in questa veramente Attica veglia, è tanto unisono alla temperatura del mio cuore, alla greca facondia maravigliosamente divoto, che io non posso far di meno di non accordare al suo discorso alcuna mia voce intorno a quella professione, che io, sedici anni è omai, e da vantaggio, che in questa città per alto beneficio del nostro Sovrano, e Protettore in particolare di questa Accademia , pubblicamente, ho l’onore di professare.
(…)
Ne’ libri di Platone, e di tutti di quella schiera sta racchiuso ogni bene, ogni tesoro, onde il nostro dire divenga ricco. Ma dicono alcuni male informati. A che ferve questa lingua greca? A che serve? Oimè! Io noi vel saprei dire. In una parola: a tutto. Tutte le scienze furono in quella primieramente trattate con maestà, con ornamento, con copia. L’eloquenza è di suo patrimonio. A che serve? dice la gente al vil guadagno intesa. Serve a moltiplicare con infinita e bella usura il capitale del sapere; serve a far vive le ricchezze della mente; quelle ricchezze, il frutto, e ’l pregio delle quali è inestimabile; né può essere, se non dalle belle anime conosciuto. Il Galileo interrogato a che serviva la geometria? Serve, diceva quel buon Vecchio, a misurare i goffi. Eh che questa è una interrogazione da ozioso, da codardo, da neghittoso, da piccolo cuore e meschino, che sdegna di mercare la virtù col sudore, e pure questo è il prezzo, col quale gl’Iddii diceva il buon Comico Epicarmo, danno ai mortali le buone cose. La fatica, che si spende nel formare i nostri intelletti, e nell’ arricchirci di nobili cognizioni, è preziosa, e fruttuosissima, e a questo fare le lettere greche fono acconcissime, anzi uniche, come quelle, nelle quali si conservano ad onta del tempo, e dell’obblio d’ogni cosa distruggitore, le più insigni memorie dell’antichità, gli aurei avanzi della più fina eloquenza, gli erarj delle Scienze, e delle facultà più Segnalate e più nobili, e il sugo, e la midolla delle più celebri filosofie, della teologia più perfetta. Il voler sapere a che serve uno studio, prima dì donarsi a quello, è un volerne saper troppo; un sapere innanzi tempo, che non perviene a maturità, né fa frutto; un accidioso antivedere; un cercar pretesti, e scuse di fuggire la fatica, la quale non è però così grande, che non sia nello spazio di pochi mesi col gusto , e coll’ utilità ampiamente ristorata. Dio buono ! Chi è quegli, a cui non sia pervenuto il suono della fama, dopo tanti e tanti fecoli fresca ancora, e vegliante degli Omeri, de’ Demofteni, degli Aristoteli, de’ Platoni? E per dire de’ noftri, de’ Crisòstomi, de’ Basilii, de’ Nisseni, de’ Nazianzeni? Or come un animo gentile e generoso non si sentirà tocco da bella vaghezza d’udir costoro, e d’intendergli; di penetrare ne’ loro sentimenti, dì prendere la loro pratica e conversazione, e farsegli amici, e famigliari. Oh! sono stati tutti tradotti. Non occorre adunque affaticarsi di studiare la loro materna lingua. Questa è una proposizione da non risponderle , se non con un ghigno, e ghigno di compassione. Sarà il medesimo dunque l’intendere altri favellare nel proprio linguaggio, o pure l’intenderlo per via d’interpetre, o di torcimanno? Lasciamo andare tanti sbagli, tanti errori gravissimi, che dagl’ interpetri si commettono tutt’ora; essendo qnesti per lo più gente ardita, e poco pratica della lingua, da cui si traduce, e di quella, in cui si traduce; quando anche tutte le doti vi concorressero d’un buono, fedele, ornato, e giudizioso interpetre, l’autore vestito alla foggia straniera non sarà mai quegli; non avrà quello spirito, né quel vigore, che possiede nella sua natural lingua; sarà fiacco, ed esangue nell’espressione, trasfigurato ne’ sentimenti, spogliato di quella natìa grazia, pompa, e leggiadria, di cui egli andava superbamente ammantato. Ogni lingua ha i suoi particolari vezzi, e le maniere adattate al genio non solo universale del paese, ove ella sortì i suoi natali, ma anche al particolare costume, ed alla natura di colui, che scrive; il quale nelle carte, che verga, di se medesimo fa ritratto. Or come un liquore travasato perde di suo sapore, una pianta trapiantata in istranio suolo, non fa prode; così i sentimenti svelti, per così dire, dal buon terreno, e dall’aria di quella mente, che gli produsse, malmenati in altra terra, e straziati intristiscono. Il che io farei con gli esempj manifesto, se non mi fusse a cuore la brevità, e se l’accennarlo solamente, a chi intende non fusse in luogo di lunga prova. Or via dunque s’impari quefta lingua. Ma quanto tempo ci vuole ad apprenderla? Mirabile domanda! Poco, e molto, secondo la diligenza, che vi s’impiega. Non è utile , alcun dice, per la Repubblica. Non vi è l’Imperader greco; non vi è più con esso commercio. Primieramente tutte l’arti ancor più vili, minuali, e meccaniche sono utili par la Repubblica. Ma che cosa è ciò, ch’io sento? Non sono utili pel pubblico le lettere, l’istoria, e l’erudizione? E chi può mai chiamarsi perfettamente erudito senza le lettere greche? Le quali fono così inviscerate in tutto ’l corpo delle scienze, che senza esse (perdonatemi ciò, ch’io sono per dire) è palpitante, e semivivo il sapere. In fecondo luogo la tirannia Ottomanna ha rapito a’ greci lo stato, e l’Imperio, ma non la sovranità delle lettere; la quale sarà eterna; né tutte l’armi della barbarie, né le persecuzioni dell’ignoranza potranno mai atterrarla. E quando il barbaro Oriente con gran diluvio di guerra a’ danni suoi congiurava un solo gran Cittadino di nostra Patria Cosimo il vecchio s’oppose; e diede all’afflitta greca letteratura, e dalla sua nativa sede cacciata, in Fiorenza, novella Atene, e nel suo stesso palazzo ricovero.
Léopold Sédar-Senghor
L. Sédar-Senghor (1906-2001), poeta e pensatore, presidente della repubblica del Senegal e fondatore del movimento della Négritude, rispondeva così alla domanda in un discorso pronunziato negli anni Settanta (Le Latin, le Sénégal et les humanités classiques):
Oggi dunque, a causa dei contatti sempre più stretti, anche se non sempre felici, che noi fini dall’antichità abbiamo avuto con l’Europa, noi ci sentiamo, noi africani, come appartenenti a una civiltà comune, eurafricana, nella quale i caratteri originali dei nostri popoli si fondono in una meravigliosa complementarietà, pur senza perdere la loro identità, che si ritrova viceversa esaltata. (…) Ma perché scegliere il latino, che è oggi una “lingua morta” – come il greco, del resto? Innanzitutto perché sul piano stesso dell’arte – a causa delle immagini analogiche, della musicalità delle parole, del ritmo dei versi – nessuna lingua moderna è superiore al latino o al greco, nessun poeta a Virgilio o a Pindaro. Ed ecco che queste lingue ci offrono, per di più, una dose di razionalità che non si trova da nessuna altra parte. Il valore formativo del latino ha avuto per conseguenza la razionalità, e pertanto l’efficacia, del genio romano. Ai nostri giorni le esigenze della civiltà moderna e industriale si rifanno a questi due criteri. C’è di più. Considerate la storia di Roma. Le scienze le sono giunte dalla Grecia, che era stata alla scuola dell’Egitto. Il suo merito è quello di aver conquistato il mondo intorno al Mediterraneo, fino alla Gran Bretagna, all’Iran, al Sahara, e di averlo organizzato su basi di razionalità ed efficacia. Sono queste le virtù che i nostri allievi scoprono nelle loro versioni latine. E imparano a metterle in pratica. A poco a poco queste virtù si animano nel loro spirito, trasformando lentamente le loro abitudini di pensare e di agire. Se lo scopo dell’educazione è la formazione dell’individuo, cioè il suo sviluppo a persona integrale, a realizzatore efficace, nulla può essere più attivo per questo scopo dello studio delle lingue classiche e delle civiltà di cui sono l’espressione. Tanto più che, al contrario degli Albo-europei, i Negro-africani sono uomini d’ emozione e d’ intuizione. Questo si traduce nelle nostre lingue in una sintassi di giustapposizione, adatta a creare immagini analogiche, mentre si ha a che fare nelle lingue classiche, e precisamente nel latino e nel greco, con una sintassi di subordinazione, che segna fortemente i legami logici. Non dico che le une siano superiori alle altre, parlo della loro necessaria complementarietà.
“Perché studiare il latino”
Dario Antiseri (nato a Foligno nel 1940), filosofo e scrittore, docente all’Università La Sapienza di Roma, alla LUISS di Roma (Metodologie delle scienze sociali) e in altre importanti università italiane, autore di saggi e di studi di grande importanza (trattati di riconosciuto valore internazionale, ma anche testi di alta divulgazione) e collaboratore di varie testate, esprime in questo scritto la sua posizione sul problema.
(da MondOperaio n.6 Novembre-Dicembre 2003)
Accantonato come “un alieno, un cafone” per avere francamente preso di mira tanti “cialtroni” e “chiacchieroni” la cui indefessa opera genera solo irrazionalismo, Carlo Bernardini dichiara, nella sua lettera a De Mauro (in Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture, Laterza, Roma Bari 2003) di non voler affatto nessun conflitto tra le due culture, standogli a cuore solo che “quei testoni dei letterati e dei filosofi smettano di parlare come funzionari di una ‘cultura dominante’ e, riconoscendo che noi scienziati siamo perfino in grado di vedere i nostri limiti, ci diano almeno “l’onore delle armi” — e precisa che “il pensiero scientifico dipende fortemente da condizioni di contorno che attenuano la dominanza del pensiero irrazionale”.
Da qui la sua difesa della precisione semantica, del rigore logico e dell’aderenza (certo, non dimostrata come assoluta) delle teorie scientifiche ai fatti: e da qui il suo motivato disprezzo per l’incomprensibilità deliberata vista come “una perversione, una forma di ostilità gratuita verso i propri simili”. D’accordo su tutto ciò, si può essere pienamente d’accordo con Bernardini anche su parecchi altri punti, per esempio sulla sua riflessione relativa alla manualistica scolastica; sul fatto che l”astratto non è affatto sinonimo di non-reale”; sull’idea che “insegnare è uno dei mestieri più difficili del mondo” (“richiede umiltà e autorevolezza: due qualità spesso incompatibili nei caratteri individuali”). Mi permetterei, comunque, di rivolgere a Bernardini delle domande sulla prescrittività o meno del metodo scientifico o su che cosa egli esattamente intenda per metodo induttivo.
Certo, Bernardini ha ben ragione di lamentarsi del fatto che molti storici della scienza non sono mai stati scienziati, per cui “il potere evocativo della storia corrente della fisica o della matematica è prossimo a zero”. Ma gli chiedo: come mai non ci sono dei fisici i quali avvertano come urgente il compito che, come Bernardini ci ricorda, Amaldi affidava a se stesso quando disse: “Voglio scrivere questa storia prima che ci mettano le mani gli storici…”? Se ci sono storici della scienza che, per mancanza di competenza, si limitano “a curiosità (…) che sono superflue e fuori posto”, ci sono in Italia anche stimatissimi e meritori storici del pensiero scientifico come Paolo Rossi. E poi: perché quando un istituto di fisica ha avuto un fisico seriamente impegnato in indagini storiche riguardanti la fisica contemporanea, gli stessi fisici si sono ben guardati dal fargli fare carriera e di avere così allievi? Sto parlando, per essere chiaro, di Salvo D’Agostino, le cui ricerche sono ben conosciute, soprattutto fuori dal nostro Paese.
Non c’è qui spazio per rendere conto di due storie, quella di “Calandro” e quella di “Erasto B. Mpemba”, da cui Bernardini estrae una interessante “morale pedagogica”. Restando, però, sempre nell’orizzonte della formazione, mi sta a cuore puntare l’attenzione sulla mai sopita questione dell’insegnamento del latino. “Nessuno o quasi invoca più il mito del latino lingua logica, e ciò è bene, ma ben pochi sanno insegnare e pochi imparano davvero il latino e ciò, a mio avviso, non è bene, anzi è proprio male”. Questo risponde Tullio De Mauro a Carlo Bernardini, per il quale non si sa a che mai serva il latino. Dunque: serve ancora studiare il latino? Ebbene, la risposta di De Mauro è un chiaro sì. Anzitutto “serve come l’acquisire una buona pratica di una qualunque lingua diversa dalla nostra. L’effetto di spaesamento linguistico, lo sappiamo, è salutare alfine di migliorare il controllo del nostro stesso intendere”. Ma vi è di più: “Una lingua è fatta per mettere in contatto le generazioni” – e qui sta la ragione per cui “i giapponesi e cinesi d’oggi studiano nelle scuole il cinese classico, gli indiani il sanscrito, i persiani e gli arabi l’arabo classico; e questa è anche la ragione per cui da un capo all’altro dell’Europa e del mondo linguisticamente europeizzato si è studiato e si studia il latino”. Ed ecco la conclusione di De Mauro: “Il latino è parte profonda e viva della nostra storia. Solo chi crede di potere tagliare le proprie radici e tuttavia sopravvivere può immaginare che la nostra società, la nostra comunità nazionale possa rinunciare alla linfa che viene al nostro parlare e – pensare da un rapporto profondo non ristretto a pochi eruditi con l’eredità latina. Serve ancora il latino? Sì, a chi vuole essere contemporaneamente europeo e italiano”.
In una società come la nostra che si avvia ad essere sempre più “aperta”, sempre più plurietnica e multiculturale, la consapevolezza delle nostre radici, la delineazione dei tratti di fondo della nostra identità è questione ineludibile, perentoriamente necessaria se si vuole davvero dialogare con culture e tradizioni “altre” ed entrare magari in eventuali feconde contaminazioni con esse, all’interno di una civile convivenza e reciproco rispetto.
Dunque: pieno accordo, con De Mauro sull’utilità e, direi, sulla necessità dello studio del latino. Da parte mia, direi: necessario l’inglese per la più ampia comunicazione, per “stare” insieme agli altri; necessario il latino per sapere chi siamo e da dove veniamo. Ma qui vorrei aggiungere un’altra argomentazione a favore dello studio del latino (e del greco) – o un’argomentazione che va nella direzione di quella educazione alla razionalità su cui anche Carlo Bernardini giustamente, e appassionatamente, insiste. E’ di Popper — pur se non soltanto sua — l’idea che unico sia il metodo della ricerca scientifica. Dovunque si faccia ricerca — in fisica come in sociologia e storiografia, in biologia e in chimica come anche in filologia o nella traduzione di un testo — non si fa altro che risolvere problemi tramite la proposta di ipotesi o congetture da porre al vaglio delle loro conseguenze, nella consapevolezza che l’errore individuato ed eliminato è il debole segnale rosso che ci permette di venire fuori dalla caverna della nostra ignoranza. D’altra parte, seguendo l’insegnamento di Gadamer, sappiamo che l’interpretazione di un testo è una ipotesi su quello che il testo dice – sul messaggio o senso del testo-; interpretazione che va controllata sul testo e sul contesto; e se qualche pezzo di testo o contesto urta contro la prima interpretazione, se ne deve proporre un’altra, in un lavoro possibile ed infinito. Ebbene, se Popper e Gadamer sono nel giusto, ne segue che scienziato è il fisico e scienziati sono il critico testuale e il traduttore. Anche il traduttore è un ricercatore che fa congetture sul significato di termini ed espressioni, sul senso di un testo, su quello che un testo dice. E sottopone a controllo rigoroso questi nuovi tentativi di traduzione — e quelli altrui. Tutti noi ricordiamo i momenti di ansia davanti a testi greci o latini da tradurre. E se il testo non aveva il titolo, le nostre preoccupazioni aumentavano. Poi magari arrivava, data la nostra precomprensione, il momento di grazia: “Ho capito!”. Che cosa avevo capito? Avevo capito di che cosa trattava il testo: una battaglia, un viaggio in mare, una favola con intenti morali, qualche episodio della vita di qualche illustre personaggio e così via.
Fatta la congettura, si cercava di inserirvi tutti i “pezzi” del testo: avverbi, aggettivi, espressioni idiomatiche, si forzavano le cose andando a pescare la quarta accezione del verbo, la quinta dell’aggettivo, si lasciava un buco qua e là; e se la versione non veniva fuori, si chiedeva al compagno di banco: ma di che cosa tratta? E si ricominciava a tradurre. Congetture e confutazioni: in questo consiste il lavoro del traduttore, il modo di procedere dell’ermeneuta. E se questo è vero, è vero anche che tanto spesso nei nostri licei scientifici l’unico lavoro di ricerca è consistito nella versione dilatino, e nei nostri licei classici nella versione di greco e dilatino. Tradurre equivale a risolvere problemi, mentre tanto spesso l’insegnamento delle scienze (sovente ametodologico e astorico) è consistito nell’esecuzione di esercizi.
Il problema è il prirnum movens della ricerca; l’esercizio va invece eseguito: chi fa un esercizio non deve, in linea generale, scatenare la fantasia, non deve discutere, non deve sbagliare — ha da applicare leggi e regole magari apprese a memoria senza motivazione alcuna. Ha certamente ragione Bernardini a denunciare l’irrazionalismo che ci circonda da ogni parte; ma viene da chiedergli se della corriva tolleranza verso l’irrazionale sia colpevole solo “una intrinseca debolezza del pensiero umanista”; se sia vero che il pensiero umanista “sia solo un pensiero che bada soltanto ad essere erudito ed elegante” e che ha “responsabilità enormi nella formazione dell’uomo contemporaneo”.
Penso che le colpe siano rinvenibili sia nel campo di fisici e biologi “cialtroni” sia in quello di letterati “retori”. Ma non va dimenticato che non sono i fisici ad insegnare il rigore scientifico ai filologi. E che sarebbe opportuno riflettere su quanto qualche anno fa affermò Noam Chomsky, e cioè che “si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica”. La grande letteratura è prodotta con mezzi non scientifici. Chiedersi, ha scritto Nelson Goodman, se una persona è un Don Chisciotte o un Don Giovanni, è “una domanda vera e propria, quanto chiedersi se una persona è paranoica o schizofrenica, ed è anche piuttosto facile dare ad essa una risposta”. L’esperienza artistica e quella scientifica — è ancora Goodman a parlare – hanno entrambe “un carattere fondamentalmente cognitivo”.
A proposito dell’insegnamento del latino
di Giorgio Israel
Giorgio Israel è professore di Matematiche complementari alla Facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università “La Sapienza” di Roma.
(Libero, 18 ottobre 2008)
«From Plato to Nato». Da Platone alla Nato. Come ricordava un collega americano, questo era uno slogan con cui gli intellettuali radicali degli anni sessanta indicavano nell’esaltazione della cultura occidentale le radici dei “misfatti” dell’imperialismo. Lo studio dei classici della cultura occidentale è stato una vittima dei movimenti radicali statunitensi che l’identificò come un fattore criminogeno corresponsabile della guerra del Vietnam. C’è chi ha cavalcato sapientemente questa demagogia per fare a pezzi i centri di studio filologico della tradizione umanistica occidentale. Basta leggere l’ultimo libro dell’intellettuale palestinese-statunitense Edward Said, Umanesimo e democrazia (2004). Said descrive cosa fu per un secolo la leggendaria Columbia University, dove si studiavano i grandi testi dell’umanesimo occidentale, da Omero a Sant’Agostino e Dante. Egli ironizza sulla «grande esperienza» della lettura della Divina Commedia, «simile alle nostalgie dei vecchi campeggiatori estivi per i tempi in cui scalavano il monte Washington» e racconta le sue battaglie per imporre una visione dell’umanesimo che accantonasse il riferimento primario alle radici occidentali. Del resto, in stile “From Plato to Nato”, Said affermava che la CIA, in quanto aveva sostenuto la necessità della lotta contro il totalitarismo in nome della democrazia occidentale, aveva contribuito a diffondere quella visione dell’umanesimo e aveva favorito «il consenso nei confronti dell’erudizione». Era giunto il momento di ridurre l’importanza attribuita al mondo greco e latino e di dire che il ruolo degli ebrei nella Bibbia era stato marginale. Va detto che Said è riuscito nei suoi intenti, se si pensa a quel che è oggi la Columbia University, centrale del multiculturalismo terzomondista e dell’odio di sé dell’Occidente.
Quanto precede per sottolineare che siamo di fronte a una svolta importante – qualcuno dirà, finanziata dalla CIA… – se lo studio del latino, e persino del greco, sta esplodendo negli USA e si sviluppa un nuovo interesse per la cultura dei padri europei, per la “nostra” cultura. Non si tratta di un interesse linguistico astratto – cosa se ne farebbero tanti giovani di una lingua morta? – quanto della riscoperta dei fondamenti culturali su cui è nata la società americana. Se una società è viva non può astenersi a lungo da un simile interesse, senza che questo implichi disprezzo o disinteresse per le culture degli “altri”. Inoltre, il latino e il greco ci riavvicinano anche alla cultura scientifica non soltanto perché i grandi testi classici sono scritti in quelle lingue, ma perché il latino è stato la lingua della scienza occidentale fino al Settecento e chi sfogli i dialoghi di Galileo troverà che le dimostrazioni sono scritte in questa lingua “morta”.
Ho voluto sottolineare questo aspetto perché esso è almeno altrettanto importante di quello di cui più si parla, e cioè della grande funzione educativa che ha il latino (e il greco) come palestra mentale, per l’esercizio delle funzioni logiche, per la consuetudine a manipolare le strutture sintattiche e grammaticali che, a sua volta, stimola anche la capacità di studiare le materie scientifiche e, in particolare, la matematica. Tutti ricordano i celebri brani di Gramsci dedicati alla funzione educativa del metodo analitico usato nello studio del latino. Si ricordano meno alcuni passaggi che farebbero rizzare i capelli in testa ai più accaniti postcomunisti antioccidentali, in cui Gramsci sottolineava l’importanza del latino e del greco per “essere se stessi”: «Non si imparava il latino e il greco per parlarli… Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente». E denunciava come degenerazione della scuola il prevalere di un approccio professionale e pratico su quello formativo e «immediatamente disinteressato»: «L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi». Sono frasi che andrebbero rilette ogni mattina dai fautori della scuola delle “competenze” contro quella delle “conoscenze”, intesa come conquista della modernità e che invece conduce allo sfacelo, poiché anche la scienza, se viene privata della sua linfa teorica, è destinata alla decadenza. Ritengo che Gramsci non capisse gran che di scienza, ma la sua immagine della scuola basata su un approccio culturale disinteressato era molto più moderna di quella di chi pensa che la scienza debba essere “ricostruita” dagli studenti pasticciando nei laboratori scolastici senza basi conoscitive.
È da augurarsi che quanto accade negli USA sia tenuto in conto da chi sta sconsideratamente meditando di tagliare lo studio del latino e addittura di abolirlo dai licei scientifici. È un atteggiamento tanto più sorprendente in chi crede nell’importanza di valorizzare le radici della cultura occidentale.
Il nostro paese ha il vizio di adottare certe innovazioni in ritardo e quando si è dimostrato che non funzionano. Si vuol mettere un computer per classe mentre negli USA li tolgono in quanto dannosi. Insistiamo sulla pedagogia dell’autoformazione mentre nello stato americano di punta sul piano scolastico – il Massachusetts – la stanno sbaraccando. Ora si vuol togliere di mezzo il latino, mentre oltre oceano torna di moda. Di recente qualcuno ha motivato tale scelta dicendo che “agli studenti il latino non piace”. Con un simile ragionamento occorrerebbe abolire anche la matematica, e forse alla fine resterebbe soltanto la ginnastica… È da augurarsi che la vigilanza di chi ha a cuore la cultura e la scienza come fondamento umanistico di una società degna di questo nome, blocchi certi propositi sconsiderati forse ispirati dalle alchimie fasulle della tecnocrazia comunitaria.
Perché siamo tutti greci, nella mente e nel cuore
La scrittrice Antonia Arslan, autrice di libri quali La Masseria delle Allodole e La strada di Smirne (dal primo libro, tradotto in molte lingue, tra cui l’armeno, è stato tratto anche un film che ha ottenuto un ampio successo internazionale) rievoca in questo passaggio, pubblicato sul quotidiano Avvenire, l’importanza degli studi classici, assumendo come punto di partenza la sua esperienza personale.
(da Avvenire, 29 marzo 2009)
Avevo tredici anni compiuti da poco, e avevo appena passato l’esame di terza media. Mi godevo le lunghe vacanze estive, leggendo, arrampicandomi sugli alberi, costruendo pupazzi di stoffa (era la grande moda di quell’estate) e giocando a calcio come portiere.
Sapevo che sarei andata al Liceo classico della mia città, ma mi frullava in testa un’idea che mi sembrava molto ardita, di andare a frequentare invece il Liceo presso il famoso Collegio armeno di Venezia. Imparare quella lingua misteriosa, che sentivo risuonare per casa solo quando venivano i parenti dal Libano o dalla Siria, distinguermi dai miei compagni, essere la più originale, che sfida affascinante!
Ma non fu possibile, il collegio armeno era solo maschile. E così, la lingua armena rimase per me un mito inaccessibile: e mi limitai ad ascoltare canzoni, a distinguere qualche lettera dell’alfabeto, a scrivere elenchi di parole con l’aiuto di zia Henriette. Ma il greco, oh il greco mi conquistò subito!
L’alfabeto lo sapevo già, perché lo avevo imparato sul manualetto di astronomia per i bambini di Fede Paronelli, con cui per tutta l’estate precedente, con uno zio un po’ matto, avevamo cercato di capire le costellazioni. Ma la lingua mi avvolse come un manto sontuoso, una gioiosa scoperta.
Amavo tutto di quella fluente meraviglia, giocavo con i verbi, sprofondavo nelle radici, imparavo le declinazioni come un canto armonioso: e nonostante i rimproveri dei miei insegnanti, trovavo il latino molto più rozzo, meno delicato ed espressivo, con meno sfumature di pensiero.
E poi tutto il moderno vocabolario medico, politico e scientifico si apriva come un rebus risolto appena si imparavano le giuste parole greche; da quel tronco fluivano, come da una sorgente inesausta, senso e significato per ogni azione dell’uomo, per ogni riflessione filosofica, per ogni pensiero strutturato, per ogni costruzione di scienza politica, di psicologia, di teologia: per esempio, la consueta parola ‘anima’ diventava ‘psiche’, e subito, a parte la psicanalisi, veniva in mente la leggenda di Amore e Psiche, la bellezza dei marmi e le favole antiche.
A questo naturalmente arrivai un po’ alla volta, anche perché ebbi un maestro eccezionale, che ci accompagnò lungo la strada di una cultura assorbita con gioia, con le parole perenni della poesia e della tragedia, magari insegnandoci la struttura del trimetro giambico attraverso una frase di Antigone che non mi è più uscita dalla memoria: «Non sono nata per portare l’odio reciproco, ma l’amore reciproco», che in greco, ovviamente, suona di un’eleganza definitiva.
Ogni versione era una sfida, perché il greco è una lingua fluida e ingannevole, con le sue parole-chiave dai molti significati, per cui è necessario sviluppare una capacità di intuizione veloce, per non uscire di strada e non capire più niente; ed è per questo un ottimo esercizio di svelamento di enigmi, di risoluzione di inganni, come i miti immortali degli dei e degli eroi ancora ci insegnano.
Nessuna cultura occidentale può ancora oggi prescindere dalla Grecità, dal patrimonio enorme per lo sviluppo della mente umana che il V secolo ateniese ci ha consegnato in ogni campo, dalla storia all’architettura, dalla scultura alle arti ‘minori’, alla tragedia: e qui sono presenti alla mente di ognuno, e sono diventati dei simboli eterni, personaggi così potenti e ricchi di senso, come Edipo, Antigone, Ippolito, Ifigenia, Clitennestra, da rappresentare ancor oggi i vertici della riflessione dell’uomo sul suo destino.
Perché fa bene studiare greco e latino
(Il Sole-24 ore, 17 settembre 2008)
Un intervento di Carlo Carena, già professore di Letteratura latina all’Università di Torino, poi autore, presso la Casa Editrice Einaudi, di un gran numero di testi e traduzioni, e collaboratore di varie testate giornalistiche.
L’ultimo numero di «Questioni aperte» (rivista dell’associazione «Tre-ellle» per l’apprendimento continuo, cui aderiscono personaggi di primo piano dell’economia e dell’imprenditoria, oltreché della cultura)(*) s’interroga sull’attualità dei latino. Il fascicolo, uscito nell’estate, s’intitola infatti «Latino perché? Latino per chi? Confronti internazionali per un dibattito». Dapprima c’è un confronto con una serie di dati e tabelle sull’insegnamento del le lingue classiche in Italia, in Europa e negli Stati Uniti, poi si dà voce alle posizioni di specialisti e no sull’argomento,
Il latino, dunque, risulta studiato dal 41% degli allievi delle scuole superiori italiane contro l’1–8% altrove; più vicine sono Francia e Germania. La Gran Brctagna è tremenda; latino e greco sono opzionali nelle superiori con 2-3 ore settimanali e l’1-2% degli studenti, al pari degli Usa (ma l’editoria non demorde e un inglese diceva recentemente che «l’assenza rende il cuore ancora più desideroso»). Poco entusiasta di queste cifre, l’ex ministro Luigi Berlinguer ha invocato recentemente una riforma radicale, se non si vuole rimanere ancora per un po’ soli soletti, per poi assistere tuttavia fatalmente alla scomparsa anche fra noi di «un tale glorioso trofeo».
Anche Carlo Bernardini, fisico e scienziato tutt’altro che chiuso e sordo al bello e al resto del mondo, nel suo intervento di piacevolissima verve e assoluta libeùrtà di pensiero, se la ride dei saccenti d’ogni campo e dei luoghi comuni in quello dei classici. Riconosciuto nella pars construens (si fa per dire) dei suo ragionamento il posto della tradizione del passato, “sogghigna” delle motivazioni che ancora oggi si danno per la conservazione di tali «favolose lingue ormai morte», di tali «gioielli ereditari», che è ora di consegnare ai musei, dove li possa ricuperare e godere chi lo vuole. Il loro studio obbligatorio è «un’imposizione immotivata», che è tempo d’interrompere.
Tullio De Mauro sollecita, da linguista un ampliamento della nozione di latino oltre quella del latino classico, per lo sviluppo e l’importanza che hanno avuto quello cristiano, medioevale e moderno. Ma gli rimane la constatazione di fondo, verissima, che non solo Saffo e Aristotele o Virgilio ma anche Dante, Shafcespeare e Hölderlin sono minacciati dall’atmosfera travolgente del nostro tempo. È il più vasto e grande problema, per molti aspetti cruciale, del rapporto già accennato dell’oggi con le tradizioni. E qui son dentro e in ballo ben altri destini; non solo quelli del latino a del greco.
È questa la preoccupazione fondamentale anche di uno specialista intelligente quale Maurizio Bettini, per cui Io sfondo e la portata di questi discorsi è la conservazione della memoria culturale e la «riflessione sugli antenati», delle premesse alla nostra storia. La logica conclusione e proposta consiste dunque nella persistenza scolastica del latino entro «una più generale conoscenza del mondo classico». Questo è ciò che conta, per la grandezza e ricchezza e durata dei suoi contenuti, e a cui si può giungere in diversi modi.
Queste posizioni esemplari per “latino sì latino no” trovano interessanti riscontri anche nell’antologia, in appendice a questo fascicolo, di «Opinioni illustri dal XVIII al XX secolo» sul tema, curata da Rosario Drago. I più numerosi sono gli scettici, a partire da Locke: «Se chiedete ai mercanti e ai contadini che fanno studiare il latino ai loro figli, perché lo fanno, essi troveranno questa domanda così strana come se domandaste loro perché vanno in chiesa. L’uso sta al posto della ragione». Per giungere però a Pontiggia con: «Il dilapidare l’eredità classica è un’ignominia».
Caro Giordano, ha visto? È uscito il greco alla maturità Ho letto che lei ama il latino, e per questo (da studente liceale) la posso anche perdonare. Ma il greco… Non mi difenda anche il greco antico, altrimenti perdo tutta la stima che ho per lei…
Matteo L. Vicenza
Caro Matteo, ti risparmio il cognome altrimenti la tua maturità partirebbe maluccio. Già non mi sembri un grande appassionato delle lingue antiche, se la tua lettera finisse poi nelle mani di un commissario d’esame, rischieremmo un disastro… Anche perché, diciamolo, io ti capisco, sai: alla tua età passare le giornate chini sul Rocci (Lorenzo, noto dizionario) anziché sulla compagna del primo banco appare quanto mai fastidioso. E mi rendo conto pure che l’Anabasi di Senofonte, per quanto attraente, non possa competere con la playstatìon, se non altro perché nell’Anabasi vincono sempre gli stessi, mentre alla playstation ogni partita è incerta. Però te lo devo confessare. A me il greco piaceva, piaceva molto, forse anche più del latino. Di quest’ultimo ho imparato ad apprezzare nel corso degli anni il rigore, il metodo, la forza con cui ti costringe a ragionare, a trovare la via di soluzione anche ai problemi che sembrano impossibili.
Del greco ho un ricordo più dolce, se possibile. Adesso i veri cultori della materia inorridiranno, ma io ho sempre accostato il greco alla fantasia, a cominciare da quel modo in cui si presenta, con quell’alfabeto pieno di arzigogoli e curvette. Ho sempre contrapposto (probabilmente sbagliando) la creatività greca alla razionalità latina, la fantasia ateniese contro la ferrea logica dell’eloquio ciceroniano, il latino era ai miei occhi come Beckenbauer, ma il greco era Cruijff.
Non si può studiare il latino senza il greco, non avrebbe senso, sarebbe un’esperienza incompleta, un’immersione parziale nella ricchezza del passato. Qualche mese fa, durante la presentazione di un mio libro, ho incontrato, dopo venticinque anni, la mia prof di latino e greco del liceo, la terribile professoressa Bruno: ai miei occhi era rimasta la stessa di allora. Evidentemente il latino e il greco non fanno nemmeno invecchiare. E devo dire che parlare davanti a lei mi ha messo la stessa soggezione, come se ad ogni parola mi potesse chiedere ancora la radice di un verbo in omega. E l’imperfetto come fa? E il futuro? Epperò, con un po’ di sadismo, sono contento che quest’anno sia uscito di nuovo greco al classico. Mi è venuto in mente che tanti anni fa, mentre preparavo la maturità (greco anche allora) un amico molto anziano mi stupì dicendo con un sorriso: «Sono passati decenni, eppure io mi ricordo ancora l’aoristo di “lambano”». Mi chiedevo allora come facesse. E soprattutto che avesse da sorridere con l’aoristo. Adesso sto mormorando l’aoristo di “lambano”: dovrebbe essere “elabon”. E sorrido anch’io, nell’attesa che tra vent’anni possa sorridere un po’ anche tu.
(Libero, 05 luglio 2018)
Ecco perché è utile studiare ancora l’aoristo
di Cinzia Bearzot
(«Avvenire», 11 marzo 2010)
Lo studio delle lingue classiche è stato spesso contestato, ora perché ritenuto espressione di un modello formativo troppo elitario e selettivo, ora perché considerato superato rispetto a discipline più «moderne» e meglio rispondenti agli interessi delle nuove generazioni, ora perché valutato come «poco utile». Nessuna di queste considerazioni, in realtà, può veramente mettere in discussione lo studio del latino e del greco. Non si tratta certo di discipline più difficili o selettive di altre, benché questo pregiudizio sia diffuso; quanto alla loro attualità, se non si vuole correre il rischio di rincorrere il nuovo a tutti i costi, richiede una equilibrata valutazione del rapporto fra tradizione e innovazione; infine, lo studio è un’attività orientata alla formazione, che serve a preparare personalità complete, culturalmente sensibili e per questo capaci, con l’elasticità tipica della formazione umanistica, anche di acquisire le competenze tecniche e le abilità necessarie nella professione. Nella vita di tutti i giorni, a rigore, non servono né i verbi deponenti e gli aoristi, né i logaritmi e la trigonometria: ma il fatto è che non si studia – non si deve studiare – solo ciò che «serve» nel quotidiano (o che può essere funzionale al mondo del lavoro). In una lezione all’Università di Yale, Donald Kagan, uno dei massimi storici statunitensi di storia greca, alla domanda «Perché studiare la storia della Grecia antica?», ha risposto: «Perché è terribilmente interessante». La risposta vale certamente anche per il greco e il latino: ma è ovvio che non può bastare, perché lo studio delle lingue classiche richiede un impegno decisamente gravoso, che va affrontato prima che possa svilupparsi negli studenti un interesse disciplinare sufficiente a motivarlo.
Nel tentativo di trovare argomenti cogenti per mantenere lo studio del latino e del greco nel nostro ordinamento scolastico, sono state spesso proposte considerazioni in un certo senso estranee a queste discipline. Proporre lo studio del greco e del latino come «allenamento » della mente è a mio parere scarsamente motivante: è facile obiettare (ed è già stato fatto) che lo stesso risultato si potrebbe ottenere aumentando il numero di ore di matematica o, per restare nel campo linguistico, introducendo lo studio del cinese o dell’arabo. Ad analoghe obiezioni si prestano quelle motivazioni che ritengono la conoscenza del greco e del latino necessaria per la comprensione dei linguaggi tecnico-scientifici, i cui termini derivano dalle lingue classiche: quasi che non si potesse imparare cos’è la dermatologia senza conoscere le radici greche della parola. Insomma, le motivazioni di carattere estrinseco possono essere motivazioni accessorie, ma non devono, a mio avviso, essere messe in primo piano, proprio perché intrinsecamente «deboli» e assai facilmente contestabili. Un argomento più interessante è quello che considera lo studio delle lingue classiche come un valido strumento per migliorare le competenze espressive nell’italiano parlato e scritto: una buona conoscenza di esse favorirebbe infatti una maggiore consapevolezza nell’uso dell’italiano per quanto riguarda ortografia, grammatica, lessico e sintassi. Fin dai primi anni Sessanta si è parlato, in verità, dello studio del latino in funzione dell’italiano, ma questa proposta non ha mai trovato applicazione sistematica nella didattica. Non sono mancati anche di recente inviti a sfruttare le potenzialità dell’insegnamento delle lingue classiche per la formazione di una matura coscienza linguistica, con possibile applicazione anche alle lingue moderne diverse dall’italiano, e per la comprensione profonda dei meccanismi della comunicazione in contesti culturali diversi: ma anche questa mi sembra una motivazione sostanzialmente estrinseca, che può essere invocata per il suo carattere accessorio, ma che non è di per sé sufficiente a giustificare il mantenimento dello studio del latino e del greco. La risposta che darei alla domanda «Perché continuare a studiare le lingue classiche?» è dunque la stessa che, da storica, darei a chi mi chiedesse perché dobbiamo dedicare tempo a studiare la storia del mondo antico e non, piuttosto, ad approfondire quella di epoche più vicine a noi. Perché il mondo antico ha elaborato idee, concetti, valori (persona, politica, libertà, democrazia, tanto per citarne alcuni) e ha inventato discipline (la storia, la filosofia, la filologia, la scienza) che sono alla base della civiltà occidentale e degli aspetti più significativi della sua cultura e del suo stile di vita: un patrimonio che viene considerato ormai acquisito senza, forse, una sufficiente consapevolezza della sua origine e della sua stessa fragilità. Di questo patrimonio è necessario alimentare la memoria per mantenere viva, attraverso di essa, un’identità consapevole. Se dunque lo studio del greco e del latino va mantenuto, è soprattutto perché la loro conoscenza è uno strumento imprescindibile di confronto interculturale, che permette di accedere a un patrimonio immenso di testi e di penetrare criticamente nel pensiero e nella cultura degli antichi, individuando le continuità e riconoscendo le alterità, senza accontentarci di una conoscenza superficiale degli elementi costitutivi della nostra tradizione culturale. Parlo, ovviamente, di una conoscenza linguistica sufficiente, se non ad affrontare una lettura diretta, almeno a verificare la bontà di una traduzione: non si tratta di tradurre Tucidide o Tacito a prima vista! Adeguate competenze linguistiche nel settore delle lingue classiche non dovrebbero, dunque, far parte di un sapere specialistico, ma essere un patrimonio culturale relativamente diffuso. Per questo considero pericolosa l’introduzione dell’opzionalità dello studio delle lingue classiche, spesso ventilata e presente, nel progetto di riforma ora in discussione, per il latino nel liceo scientifico e nel liceo delle scienze umane (è comunque prevista una riduzione delle ore di latino allo scientifico e soprattutto al linguistico; la possibilità di scegliere un percorso senza il latino è presente allo scientifico e al liceo delle scienze umane). L’introduzione generalizzata dell’opzionalità in altri sistemi scolastici europei, come quello francese, ha infatti così ridotto, nel giro di pochi anni, il numero di chi ha competenze in questo ambito, da costringere a cercare all’estero persone in grado di continuare a mantenere in vita gli studi classici nelle università e di garantire il reclutamento del futuro corpo docente: una situazione che una grande studiosa della grecità come Jacqueline de Romilly aveva previsto e che si era impegnata a evitare, rimanendo inascoltata. Del resto, l’attuale situazione socioculturale non incoraggia a sperare che studenti (e famiglie) resistano alla tentazione di scegliere percorsi facilitanti; l’opzionalità significherebbe dunque la scomparsa del latino (e del greco, qualora si ritenesse di estenderla) dalla scuola superiore. Forse non tutti si rendono conto del fatto che la buona conoscenza delle lingue classiche è un «di più» che i nostri giovani possono mettere in gioco in campo internazionale, dove trovano spesso grandi opportunità; non avrebbe dunque alcun senso distruggere una tradizione di formazione che ci rende ormai quasi unici per adeguarci a standard inferiori che hanno già mostrato inadeguatezza.
Ma anche Euclide è un classico
(da Avvenire, 26 maggio 2010: intervista di Luigi Dell’Aglio)
Attenzione: la tendenza a dimenticare i classici, a lasciarli morire, sta danneggiando non solo la conoscenza umanistica ma la stessa conoscenza scientifica. Oggi sempre meno studenti sanno dimostrare teoremi e chi abbandona questa antica tradizione domani non sarà in grado di argomentare, cioè di ragionare, avverte Lucio Russo, professore all’Università di Roma Tor Vergata, che ha insegnato in Italia e a Princeton, negli Usa. Russo ha sperimentato personalmente come sia naturale e proficuo un continuo scambio fra i due saperi: ha lavorato diversi anni nella meccanica statistica e nel calcolo delle probabilità, poi nel 1991, affascinato dalla lettura di un classico – il trattato Sui galleggianti di Archimede (anche i grandi libri di scienza sono classici) – è passato d’impulso a studiare storia della scienza, ora il suo principale campo di ricerca.
Professore, storicamente l’”auctor classicus” era quello le cui opere costituivano un tale modello di eccellenza da essere studiate nelle scuole. È giusto che ora vengano isolate ed estromesse?
«I classici sono le opere in cui le idee radicate nella nostra cultura (che spesso finiscono con l’essere assorbite inconsapevolmente e acriticamente) appaiono in forma viva e consapevole. I classici, così intesi, sono fondamentali per la formazione del pensiero. Non perché trasmettano verità e valori perenni, come in genere si dice, ma, al contrario, perché permettono di esaminare criticamente, nella loro genesi, strutture concettuali e valori che ci sono familiari».
Esiste una sufficiente consapevolezza che difendere i classici significa difendere il libero esercizio del pensiero?
«Certo la lettura dei classici non può essere apprezzata da chi preferisce il conformismo e l’adesione passiva ai luoghi comuni. Le prospettive dei classici coincidono quindi in larga misura con quelle della cultura e del pensiero critico. Ora si sta abbassando il livello culturale della scuola e dell’università: queste rischiano di non fornire più né gli strumenti culturali necessari per comprendere i classici, né le motivazioni sufficienti per leggerli».
Oggi conoscenza scientifica e conoscenza umanistica combattono per ampliare (la prima) o per difendere strenuamente (la seconda) la propria sfera di influenza. Come sta cambiando il rapporto di forze tra i due saperi?
«A me sembra che cresca la pressione diretta a ridurre in generale lo spazio del sapere nelle scuole e nella società. L’impressione che la cultura umanistica sia sacrificata a vantaggio della cultura scientifica è un’illusione ottica di cui è vittima chi adotta un particolare punto di vista. Credo piuttosto che le discipline oggi vincenti, che hanno assunto un ruolo centrale nell’organizzazione degli studi, siano le tecniche di marketing e le arti della comunicazione. Il diminuito peso dei “classici” non colpisce solo il sapere umanistico. Tra i classici più importanti includerei gli Elementi di Euclide: l’opera ellenistica che, per ventidue secoli, ha trasmesso i fondamenti del metodo scientifico non solo ai futuri scienziati ma a tutti gli uomini di cultura. Quintiliano, nella Institutio oratoria, sosteneva che non si può diventare oratori se si è digiuni di geometria. A maggior ragione non vi è stato filosofo che non conoscesse il metodo dimostrativo usato in geometria. Oggi nessuno legge più Euclide; nello stesso tempo si sta spegnendo la tradizione di insegnare come si dimostrano i teoremi. Pesanti saranno le conseguenze sulle capacità di argomentare che avranno le nuove generazioni. Mi sembra questo un buon esempio di come sia pericoloso l’abbandono dei classici e di come il fenomeno colpisca in pieno anche le conoscenze scientifiche».
Ma quali teorie alimentano lo scontro?
«Direi che siano oggi vincenti due tendenze solo apparentemente contrapposte, che in realtà rappresentano due facce della stessa medaglia. Da una parte vedo uno scientismo ingenuo che nega la rilevanza di temi, come quelli etici ed epistemologici, non affrontabili con i soli metodi scientifici (ma che non possono neppure essere affrontati ignorando gli strumenti conoscitivi forniti dalla scienza). Dall’altra, un diffuso atteggiamento anti-scientifico. Questo, più che di teorizzazioni esplicite, vive del dilagare dell’ignoranza in materia scientifica, spesso esibita quasi con compiacimento. Mi piacerebbe pensare a un “nuovo umanesimo” che superasse questa contrapposizione recuperando, nell’ambito di una cultura unitaria, un pensiero scientifico critico. Ma non si tratterebbe certo di un umanesimo in conflitto con la scienza».
Dall’umanesimo prende corpo il metodo sperimentale della scienza moderna. Perciò lo scientismo, quando attacca il sapere umanistico e vuole limitarne lo spazio nella scuola, attacca anche Galileo.
«Credo che l’attacco scientista contro l’umanesimo nasca dall’ignoranza e debba essere respinto. È necessario però respingere, nello stesso tempo, una versione anti-scientifica della cultura umanistica, che in Italia ha una lunga e triste tradizione. Per essere più chiaro, penso che non sia esistito un solo umanesimo ma almeno due versioni della cultura umanistica. Una, che penso sia oggi superata, proponeva un modello di cultura (basato su classici come il De oratore di Cicerone) che assegnava una posizione centrale all’eloquenza e mirava soprattutto a formare dirigenti politici. A questi venivano trasmesse le virtù civiche descritte in opere letterarie e storiche latine. Tutt’altra cosa è la cultura di quegli intellettuali del Rinascimento che crearono la civiltà moderna basandola in larga misura sul recupero della filosofia e della scienza dei Greci. A questa cultura dobbiamo non solo capolavori artistici e letterari, ma anche la nascita della scienza galileiana. Si tratta di una cultura realmente unitaria, un approccio di cui abbiamo oggi bisogno anche per affrontare le questioni nuove poste dalla scienza e dalla tecnologia».
Lo scienziato, il tecnologo, il medico non possono agire secondo scienza e coscienza se hanno ricevuto un insegnamento esclusivamente specialistico…
«Sono convinto che la carenza di educazione umanistica avrebbe effetti gravi. Credo, in particolare, che il livello di consapevolezza epistemologica degli scienziati si sia abbassato nell’ultimo secolo, insieme con il livello di cultura filosofica di chi si dedica alla scienza. Se vengono ignorati i classici della scienza e della filosofia, si ridà spazio, tra gli scienziati, a tendenze filosofiche che direi arcaiche, come quelle neopitagoriche. Naturalmente gli eccessi dello “specialismo” non costituiscono un problema delle sole facoltà scientifiche. Mi sembra che le facoltà umanistiche ne siano colpite in misura simile, ma con effetti forse ancora più devastanti, proprio perché l’eccessivo specialismo mina alla base il senso stesso degli studi umanistici. Sarebbe utile e significativo che uno studente di fisica potesse seguire corsi di filosofia, ma mi sembrerebbe addirittura indispensabile, per un futuro studioso di filosofia della scienza o di storia della scienza, seguire corsi scientifici (e oggi può non accadere)».
… il carattere «elettrico» di certe letture
Lo scrittore e critico letterario Vittorio Magrelli propone le seguenti motivazioni per la lettura dei classici.
(Il Giornale, 26 settembre 2010)
Ho letto recentemente L’arte di ascoltare di Plutarco, perché stavo risalendo la via di una celebre immagine di Montaigne: «Insegnare non significa riempire un vaso, ma accendere un fuoco». La fonte è appunto Plutarco: «La mente non è un vaso, da riempire, ma, come la legna da ardere, ha solo bisogno di una scintilla che l’accenda e le dia l’impulso per la ricerca, e un amore ardente per la verità»; e poi, sono le battute finali del trattato: «Un buon ascolto è il punto di partenza per vivere bene». Oggi, disancorati come siamo da ogni rapporto imitativo e prescrittivo con i classici, abbiamo appunto bisogno di ritrovare l’elemento vivifico ed energetico dell’«ascolto». Dobbiamo riscoprire (…) il carattere «elettrico» di certe letture. Non è più il tempo di impostare un dibattito su “cosa sia un classico”, su cosa significhino “civiltà”o”maturità”,sui motivi per cui alcuni momenti della storia umana portino frutto e altri no. Ormai dobbiamo cercare una diversa forma di rapporto con il classico. Detto altrimenti, non sono gli dèi ad averci abbandonato (secondo le parole del filosofo), ma i greci e i romani. Una perdita simile sembrerebbe nefasta, ma da un punto di vista storico, invece, tale situazione può essere trasformata in privilegio. Forse per la prima volta, dopo duemila anni, alcune generazioni possono dirsi finalmente “libere dai greci e dai romani”, come recitava quel famoso verso di un poeta minore, Jean-Marie Clément (Qui nous délivrera des Grecs et des Romains) . Verso felicissimo. peraltro, in cui pare di sentire il grido di dolore levato da studenti e letterati, incatenati ai classici come schiavi alla macina. Proprio questo venir meno di un atteggiamento normativo ci offre la possibilità di stabilire, con i greci e con i romani, un rapporto davvero libero, fondato sulla scelta. Un rapporto che potrebbe ribaltare – per la prima volta nella storia dell’Occidente – la nostra relazione con questo immenso promontorio che si erge alle nostre spalle. I classici versano in un momento di abbandono, ma proprio tale abbandono può offrirci una straordinaria occasione: possiamo eleggere i classici a interlocutori, senza essere obbligati ad accettarli. Poter scegliere, senza dover subire, è un autentico dono. Ecco, noi abbiamo il dono di essere stati abbandonati (…) Ma tornando alla nostra eccezionale “libertà” di fronte ai classici, libertà realmente “epocale”, bisogna dire che sarebbe straordinario se la scuola riattivasse tutta l’ampiezza dello spettro espressivo della letteratura greca e latina. Sono convinto che si otterrebbe, da parte dei ragazzi, una risposta entusiastica. Un esempio personale. Una quindicina di anni fa, Vincenzo Guerracino propose per la Bompiani quattro volumi di scrittori greci e latini tradotti da scrittori contemporanei. Per quanto mi riguarda, io lavorai a quattro mani con una antichista, perché non mi sarei mai sentito di affrontare quella prova senza una guida (del resto, venivo da una splendida esperienza con Francesca Corrao, insieme alla quale avevo tradotto una scelta di poeti arabi dell’anno Mille). In quella occasione ho potuto scoprire autori senz’altro minori, laterali, secondari, ma di estrema vivacità; autori che potrebbero svolgere un ruolo assai proficuo nelle scuole. Penso a Sinfosio e alla grande tradizione degli indovinelli antichi, per far capire ai ragazzi il rapporto fra poesia ed enigmistica. Insomma: le potenzialità sono immense, ma l’ampiezza della tradizione risulta troppo spesso sacrificata a scelte prevedibili. Occorrerebbe riattivare canali di comunicazione oggi ostruiti, riaccendere fuochi nelle praterie – ovviamente senza far mancare gli Alessandrini, Catullo e in generale la poesia erotica, di fronte alla quale la reazione degli studenti è immediata. La curiosità è sempre un ottimo reagente. E se funziona, la si può utilizzare. Soprattutto nell’ambito della didattica, l’empatia dovrebbe essere accentuata. Bisognerebbe – in termini grossolani – leggere l’Odissea come se fosse l’Isola del tesoro, nei limiti funzionali di ciò che vogliamo ottenere da un giovane studente: la passione. Quel che agisce, quello che “scatta”, al livello più immediato della lettura, è l’entusiasmo di un ragazzo che a quindici anni scopre Stevenson, o scopre Omero. Si tratta di una specie di energia sepolta che non attende altro se non di essere liberata.
Giampiero Bergami, manager di Unicredit
(La Stampa, 5 marzo 2011)
Volete avere successo negli affari, in politica, nelle professioni? Più in generale volete sottrarvi al ruolo di mero esecutore di una competenza tecnica, sempre e solo quella? Questi obiettivi non solo richiedono una solida e profonda cultura umanistica, ma addirittura una conoscenza specifica del latino e del greco, con tanto di lunghe, reiterate e magari anche noiose versioni.
La tesi è stata illustrata ieri da Giampiero Bergami – manager di Unicredit Corporate Banking – presso la sede dell’Istituto italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, dove si è tenuto un seminario dedicato al liceo classico «nuovo», quello cioè uscito dalla riforma Moratti. L’iniziativa è della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, che a tutti e sei i licei «riformati» sta dedicando altrettanti convegni di approfondimento.
Oggi il classico, se non ha perso il suo blasone, ha smarrito la capacità attrattiva: «A frequentarlo è il 7% della popolazione studentesca, con punte del 10% al Sud – spiega il pedagogista Giorgio Chiosso, dominus di questa iniziativa – e rischia di essere esposto a un duplice rischio: la nostalgia e la marginalizzazione. Un indirizzo di studi, cioè, che sa di antico ma anche di stantio, oppure che è destinato a essere “residuale”, per non dire sopravvissuto. E tutto questo è profondamente sbagliato». Da qui il «classico-pride» che si è voluto celebrare ieri a Napoli.
A questo proposito Bergami ha intrattenuto – e fatto sobbalzare sulla sedia – un uditorio di docenti e dirigenti scolastici, spiegando «Perché tradurre dal latino e dal greco coltiva il pensiero strategico». L’idea di fondo è che «il mondo degli affari e della politica sono guidati da scelte di lungo termine e la capacità strategica di una impresa si basa indissolubilmente sulla sua capacità di analisi».
Schematicamente, Bergami ha illustrato come tradurre dalle lingue classiche significhi esercitarsi con la complessità e imparare a confrontarsi con essa. Esempi? «La concordanza dell’aggettivo: l’aggettivo concorda in genere, numero, caso con il nome cui si riferisce. Si presentano spesso casi di concordanza in cui l’aggettivo e il nome seguono declinazione diverse (pinus procera). La consecutio temporum: i verbi sono usati con valore relativo, indicano, rispetto al verbo reggente, un rapporto di contemporaneità, anteriorità o posteriorità». Eccetera eccetera.
«La banalità degli esempi – ha detto Bergami – non induca a sottovalutare l’impatto degli stessi sulla forma mentis di chi si cimenta per cinque anni nelle traduzioni. Tradurre dal latino e dal greco significa assumere abitudini mentali di approccio al problem solving, all’individuazione di rapporti di causa-effetto, alla separazione di ambiti omogenei. Facoltà che fanno la differenza tra chi ha studiato le lingue antiche e chi no». Anche quando i problemi da risolvere sono di alta finanza: «Stamattina – ha raccontato – prima di venire qui abbiamo dovuto affrontare una questione finanziaria molto complessa. Alla luce delle mere regole, delle tecnicalità del caso, la soluzione non c’era. Eppure andava trovata. Dove? Nelle regole non scritte… Per dirla tutta: nell’Antigone».
Al convegno di Napoli è stato molto citato il saggio della filosofa americana Martha Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, appena pubblicato dal Mulino: «Sedotti dall’imperativo della crescita economica – dice la studiosa – e dalle logiche contabili a breve termine, molti paesi infliggono pesanti tagli agli studi umanistici e artistici a favore di abilità tecniche e conoscenze pratico-scientifiche. E così, mentre il mondo si fa più grande e complesso, gli strumenti per capirlo si fanno più poveri e rudimentali e mentre l’innovazione chiede intelligenze flessibili, aperte e creative, l’istruzione si ripiega su poche nozioni stereotipate».
Tra l’estate del 2014 e l’estate del 2015 M. Morani redasse, coll’avatar Hieronymus, una rubrica di brevi scritti latini sul quotidiano Avvenire. Tra le questioni affrontate vi fu anche quella dello studio del latino. Riportiamo qui gli scritti attinenti il tema: il primo pubblicato il 3 marzo 2015 (puntata 27) e il secondo (in italiano, in quanto puntata finale della rubrica, n. 48) pubblicato il 25 luglio 2015
Quid prodest?
Velim hodie de quaestione disputare, quae gravis est et ut ita dicam ante omnes alias consideranda sit. Quid prodest antiquae humanitatis studium? Cur adulescentuli in gymnasiis classicas linguas discere coguntur? Ad haec ne temptaveris responsionem quae ad utilitatem doctrinae spectet: nam facile dicat quis alia maiora urgere et esse studia utiliora quam carmina et cogitationes antiquorum, si cotidianae vitae negotia feliciter gerere cupias, et inane denique esse tempus mortuis linguis dicatum, ut iam nonnulli per saecula dixerunt: nihil ergo sub sole novi in hac re. Alia via experienda est. Inter praecipua scholae munera hoc est, iuvenum animos educare et eis facultatem offerre incedendi per iter vitae viribus suis confisis: discipuli erudiendi sunt ut probi viri et cives fieri possint. Evenit in nationum historia ut in personae vita: dierum summa te cotidie prudentiorem facit et promptiorem ad res diiudicandas et ad vitae pericula sustinenda. Sic maiorum memoria non solum contemnenda non est, sed etiam meditandi occasio fieri debet. Nam humanitatis cultus validae arboris instar effingi solet, quae tempestates et undas et fulminum offensiones sustinere potest, si eius radices in terra firmiter haerent. Ut nos docuit pontifex Benedictus, Europae humanitas e concursu inter Athenarum, Romae, Ierusalem traditiones nata est: mores et consuetudines quas nobis maiores tradiderunt magni aestimandae sunt, si cum exteris gentibus vere colloqui cupimus: nullus enim sermo fieri potest, nisi ante alios cum vultu et facie tua adstas. Ad hoc efficiendum notitia antiquarum linguarum instrumentum perutile est: nam quomodo arbitraris te posse auctorum verba penitus perscrutari, si textuum linguam ignoras? Qua de causa classicae antiquitatis studium fovendum est in eis scholis praesertim quae ad humanitatis studia colenda operam maximam dant. Non est hoc studium otium vel singuli ornamentum, sed humanae societatis necessitas: si periret, grave vulnus nostrae historiae infligeretur.
Congedo
“Nostra maggior Musa”: così Dante nel Paradiso definisce Virgilio. In un altro passo del Purgatorio il poeta mantovano Sordello dice dello stesso Virgilio che “mostrò ciò che potea la lingua nostra”. In queste affermazioni c’è l’orgogliosa rivendicazione di una continuità col mondo latino. Virgilio, Sordello, Dante scrivono in tre lingue diverse (latino, provenzale, italiano), ma la differenza linguistica è percepita come puro accidente esterno, rispetto alla comune appartenenza a una stessa cultura: c’è un legame ininterrotto con Virgilio e gli altri scrittori antichi, di cui Dante (e Sordello) si proclamano eredi. Da tempo si discute sul ruolo da dare alla cultura classica nelle scuole e nella società. Tanti argomenti si sono proposti, in positivo o negativo, ma ci pare doveroso, prima di ogni altra considerazione, ribadire questa continuità. Virgilio scrive in una lingua diversa da quella che parliamo oggi e solo uno studio paziente mette il lettore in condizione di capire la sua parola: nessuno lo nega, ma lo stesso può dirsi per tanti passaggi di Dante. E come nessuno metterebbe in dubbio che Dante è parte della nostra storia letteraria, così non possiamo dimenticare il legame che ci riporta all’epoca romana. Virgilio e Cicerone non sono degli estranei, sono i nostri antenati! Con tutte le diversità linguistiche e culturali, sono pur sempre espressione di un mondo su cui sono poggiate le radici della nostra cultura occidentale. Se uno ha degli antenati che illustrano la sua famiglia, cerca di conservarne la memoria, non di cancellarla. Valorizzando il latino valorizziamo anche il nostro mondo culturale, e in sostanza noi stessi.
Con questa puntata Hieronymus si congeda dai suoi lettori, e li ringrazia per averlo seguito nelle sue settimanali divagazioni linguistiche e filologiche. Ringrazio gli amici di Avvenire per avermi offerto questa opportunità, che mi ha anche dato occasione di fare conoscenze ed incontri interessanti. Omnibus vobis gratias ago maxima
Martha N. Nussbaum
In questa intervista, rilasciata al sito spagnolo abc.es il giorno in cui riceve il prestigioso premio “Principe della Asturie”, l’economista e pensatrice nordamericana Martha C. Nussbaum afferma senza mezzi termini che la mancanza di insegnamenti classici è un pericolo per la democrazia.
Riesce a immaginarsi un mondo senza insegnamenti umanistici o classici?
Sarebbe una minaccia molto grande per la democrazia. Se la gente non impara a pensare in forma rigorosa e analitica, se non sa costruire argomentazioni filosofiche, saranno come gli schiavi al tempo di Socrate. Sono necessari insegnamenti come i Dialoghi di Platone, perché è necessaria la immaginazione e la curiosità di modo che le persone amplino la loro mete e pensino a qualcosa che oltrepassa la loro famiglia e la loro cerchia. Voteranno con minore preparazione, non capiranno le persone di diversa razza, religione e classi sociali. Però non parlo solo del latino, del greco, della cultura classica, è necessaria tutta la letteratura, l’arte, la filosofia, la pittura.
Testo completo dell’intervista: clicca qui
Dopo una lezione al liceo classico S. Maffei di Verona, il filosofo e uomo politico Massimo Cacciari (già sindaco di Venezia) ha rilasciato un’intervista in cui, fra le altre cose, ha indicato l’importanza della cultura umanistica e dello studio del greco.
L’intervista può essere letta nella sua integralità in questo sito:
In un mondo come quello in cui viviamo oggi, dove viene propugnata la cultura scientifica e tecnico-tecnologica e discapito della cultura umanistica, che senso ha studiare ancora le materie classiche ed umanistiche? Questa cultura, quella umanistica, e in particolare il pensiero greco, possono aiutarci a uscire dalla crisi socio-politica ed etica in cui siamo immersi? In che modo?
Sarò breve: si ignora la cultura umanistica? Può darsi che una pianta possa crescere completamente sradicata, ma quello che è certo è che si parlerebbe senza sapere quello che si dice. Voi parlate costantemente di uguaglianza, di legge, di giustizia. Ma sapete cosa dite? Se non avete la minima idea del pensiero classico, degli autori classici, voi non siete dei parlanti ma dei parlati. Voi credete di parlare, ma in realtà la lingua parla in voi, perché ripetete termini ignorandone il significato, la radice. Ignorate il significato non solo in modo linguistico, ma in modo semantico. La conoscenza di questi autori vi dà questa arma: riuscire a dare ragione di ciò che dite. Credo che questo dia una certa superiorità.
Voi dovete essere gli “áristoi”: una persona che fa un percorso di studi umanistici deve avere in mente di diventare àristos, ovvero il migliore. Solo così si può fare del bene alla democrazia. Non so se sia chiaro perché siete democratici. Probabilmente non lo è, poco importa: ormai sono democratici tutti! Ma perché siete democratici? Perché non siete per la monarchia assoluta? Eppure il re Sole era bravo. Qual è il motivo per cui non volete il re Sole?
Io sono democratico perché credevo che, attraverso il mio voto e attraverso il ragionamento di sottoporre a critica razionale i programmi che mi venivano presentati, io potessi scegliere i migliori. Noi siamo democratici perché riteniamo di avere la ragione sufficiente e di essere sufficientemente informati e coscienti per scegliere a governarci i migliori. E come si dice “migliori” se non “áristoi”? Quindi, io sono democratico perché sono aristocratico. Voi dovete diventare àristoi e volere che la democrazia sia aristocrazia sul piano del merito, del valore, della conoscenza, della consapevolezza. E qual è la vera “paìdeia”? Secondo me sono gli studi liceali, ed in particolar modo il liceo classico. Nel liceo classico c’è tutto.
C’è poi un secondo aspetto: come volete elaborare una coscienza critica se non attraverso determinate letture e conoscenze? Gli àristoi sono i migliori perché sono curiosi e non sono mai soddisfatti né contenti di quel che hanno, perciò sono sempre spinti a cercare di più. Ma la curiosità non basta, bisogna avere anche spirito critico, saper mettere in discussione. Come facciamo ad armarci dello spirito critico, unico mezzo che ci permette di essere liberi, se non attraverso determinate letture e determinati studi? È a scuola, nella scuola fatta come si deve che si impara ad essere àristoi ed è attraverso il dialogo e il confronto tra coetanei. Ognuno potrà fare poi il percorso che più gli si addice: medicina, legge, ingegneria… ma non ho mai conosciuto nessun grande medico, nessun grande fisico, nessun grande ingegnere che non avesse coscienza critica, cioè che non fosse appassionato di quei testi su cui soli ci si forma una coscienza critica. Nei classici noi ascoltiamo la voce di persona che hanno sconquassato il pregiudizio ed hanno messo a soqquadro ogni coscienza prestabilita. E se la scuola vi fa leggere i classici come un catechismo dovete ribellarvi. La ricchezza di questi studi sono le domande, i dubbi, le angosce, che hanno mosso tutti i grandi pensatori.
Sono angosciato dall’idea dell’eliminazione del percorso di studi classico. Esso può essere arricchito, ma la sua eliminazione è angosciosa. Perché la vera omologazione, in realtà, parte da un percorso di studi che sia uguale per tutti e sia portatore della cultura che inquieta. Il classico non è qualcuno che dice autorevolmente qualcosa, ma è la domanda che non trova mai risposta. Questo è il classico. E questa è la cultura.
Michael Hugo Leiters è un tipo tosto. Di quelli che ti guardano diritto negli occhi, senza sorridere. È tedesco, ed è un manager della Ferrari. È il responsabile della tecnologia, uno dei settori più importanti per le aziende che producono i costosissimi gioielli a quattro ruote. Leiters ha lavorato per anni alla Porsche e conosce molto bene l’ambiente delle supercars. Siamo a Maranello, nel palazzo della direzione. L’ edificio segue un bel disegno pulito di Fuksas; ma ti stupisce appena sali una rampa di scale e trovi il laghetto zen, una distesa di acqua e ciottoli di fiume, che occupa tutto il primo piano. Mi dicono che è stato fatto per favorire la meditazione e la visione strategica dei dirigenti dell’azienda fondata dal burbero e visionario Enzo. A fianco la galleria del vento disegnata da Renzo Piano, più avanti, fra i vialetti, le avveniristiche linee di produzione da cui escono una trentina di 8 o 12 cilindri al giorno.
Mi hanno chiamato qui, a fine luglio, perché vogliono mettere a confronto il lavoro di una scienziato del Cern con quello di un top manager della compagnia. L’intervista doppia procede con fluidità. Man mano che scorre la conversazione si scopre che i punti di contatto fra le due attività sono molti, taluni davvero inaspettati. Gli scopi sono assolutamente diversi. I nostri obiettivi sembrano talmente astratti da rasentare la filosofia: scoprire l’ origine della materia oscura o capire la fine che farà il nostro universo; i loro sono quanto di più concreto si possa concepire: vendere macchine in un mercato altamente competitivo. Ma per entrambi l’innovazione e la tecnologia sono componenti essenziali, quelli che possono determinare quella sottile differenza che ti può consegnare un successo clamoroso o far precipitare nella peggiore delle catastrofi.
Lavoro di squadra, passione, amore per il rischio, cura quasi paranoica del più insignificante dei dettagli sono tutte cose che ci accomunano. Si sente che facciamo parte di una pattuglia di gente che respira la stessa aria sottile e pericolosa.
Alla fine l’ atmosfera è talmente cordiale che passeggiando intorno al laghetto zen, Leiters si scioglie e mi racconta della sua formazione ad Aachen, al Fraunhofer Institute, uno dei centri di tecnologia più avanzati della Germania. E qui scatta il miracolo. Mi basta citare l’emozione che ho provato nel toccare il trono di Carlo Magno, tuttora conservato nella Cappella Palatina della vecchia Aquisgrana, che gli occhi del mio interlocutore si illuminano. E mi racconta con fervore del Sacro Romano Impero, e della sua passione per il latino che ha segnato indelebilmente la sua formazione classica. Ne nasce un’altra ora di conversazione fuori dal protocollo, in cui discutiamo dei Germani di Tacito, così diversi da quelli di Cesare del De bello Gallico.
E solo l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie di esempi illustri. Nel mondo della ricerca scientifica più avanzata conosco moltissimi colleghi che hanno avuto una formazione classica. La mia amica Fabiola Gianotti, tanto per citare un nome famoso. Ma si trova un sacco di gente che non ha dimenticato come si traduce dal greco e dal latino e che è a capo di grandi aziende, o, come Leiters, a dirigere entinaia di ingegneri impegnati nelle tecnologie più avanzate.
Mi viene spesso da sorridere quando sento dire, da persone che solitamente non capiscono nulla di scienza e di tecnologia, che per imboccare con decisione la via dell’innovazione il nostro paese dovrebbe ridurre il peso e l’importanza degli studi classici.
Con questa motivazione qualche grigio funzionario del ministero vorrebbe addirittura abolire le traduzioni dal greco e dal latino al liceo classico. Follia pura.
Nel mondo della ricerca dura, quella segnata dalla più feroce competizione internazionale, lavorano moltissimi scienziati che hanno scelto di fare fisica proprio perché hanno fatto studi classici. Persone che non solo adorano greco e latino, ma spesso conoscono l’italiano, amano discutere di storia o di filosofia e sono appassionati d’arte. Come dice Semir Zeki, neuroscienziato dell’University College di Londra: «Il cervello non distingue tra cultura umanistica e scientifica».
Cos’è che rende gli studi classici così adatti a formare la base per una preparazione scientifica d’eccellenza. Non è solo il rigore che richiedono e neanche l’ampiezza della formazione culturale che ti danno. Tutti ingredienti essenziali per attività che ti spingono ad allargare lo sguardo per esplorare sentieri mai battuti.
Prendiamo proprio la traduzione dal greco e dal latino. Sei lì che combatti con il vocabolario per cercare di dare un senso compiuto ad un gruppo di frasi e ti sembra di avere trovato la chiave. Soltanto che non riesci a sistemare un piccolo, infimo dettaglio. Ed ecco che di colpo, per risolvere l’incongruenza, dovrai capovolgere tutto e abbandonare definitivamente quella che un istante prima ti sembrava un’ipotesi molto ragionevole. È la logica, bellezza, è tutto soltanto questione di logica. Non saprei trovare un’attività più vicina al lavoro scientifico concreto che viviamo quotidianamente. Capita molto spesso, in fisica, che per accomodare un piccolo particolare, apparentemente insignificante, siamo costretti ad abbandonare la congettura che ci aveva guidato fino a quel momento. E ogni tanto, questo stesso meccanismo apre le porte ad un nuovo paradigma.
Una ragione in più per studiare in profondità il mondo classico, greco e latino, per conoscere le civiltà che sono alla base del nostro mondo e capirne le dinamiche che tutt’oggi lo attraversano.
(Da Il Sole 24 ore, 15 ottobre 2017)
DOCUMENTI
Latino: una risorsa per la persona e per l’Europa
Premessa: latino e identità dell’Europa –
Le radici dell’identità europea affondano profondamente nell’eredità lasciataci dall’Ellade, da Roma e dal Cristianesimo. La Grecia ci ha lasciato la sua riflessione critica sull’essere e sul divenire dell’uomo e del mondo e sul logos divino. Roma ha aggiunto altri fondamentali ed originali principi, che rappresentano le basi stesse della civiltà in cui viviamo: la creazione del Diritto, forma consapevole della legge naturale e universale. L’Impero Romano ha lasciato durevole traccia di sé, perché ha diffuso il Diritto e il concetto di persona.
Il latino ha raggiunto il ruolo di lingua universale europea grazie a Roma che lo diffuse ovunque e poi grazie alla Chiesa Cattolica attraverso i monasteri, capisaldi del messaggio della Chiesa di Roma come anche luoghi di conservazione della cultura classica.
Allorché sorgono e progrediscono le letterature nazionali, il latino seguita ad esercitare la sua influenza educativa. Questo influsso anima per molto tempo i dotti e i letterati europei, che considerano il latino come lingua nobile e formativa. Oggi, perdere la conoscenza della lingua latina significherebbe spezzare la continuità di quel filo ideale che ci congiunge alle nostre radici.
Il valore formativo del latino
Nel frattempo, scopriamo che i nostri ragazzi sono sempre meno preparati, sempre meno profondi… ; se riconoscessimo che il latino (come anche il greco, in parte) ha una importantissima funzione formativa? Se, anziché essere una lingua del passato, fosse una lingua del presente e del futuro, sorgente inesausta di un nuovo modo d’intendere i linguaggi della comunicazione odierna in Europa? Nei Paesi scandinavi dotti di tutte le età si scambiano messaggi di posta elettronica in latino, e lo stesso accade già, in Italia, tra i membri ed i simpatizzanti dell’Accademia Vivarium Novum e di altri sodalizi.
Il latino non è una “lingua morta” e non può considerarsi lingua morta se non altro perchè le encicliche dei Pontefici possono trattare gli argomenti più attuali.
Dunque, perché non permettere ai ragazzi italiani di conoscere meglio ed in maniera più approfondita la lingua madre europea, così da poter riflettere con piena consapevolezza sugli strumenti espressivi in uso oggi?
Non sarà che, impegnati nell’allenare la mente su qualcosa che sia un po’ più serio dell’attuale pargoleggiare “interagendo in maniera continuativa con la realtà dinamica del territorio” (il corsivo è concreta espressione del pedagoghese, linguaggio assai in voga nella scuola di oggi), magari alla fine questi ragazzi scoprano quanto sia utile e bello studiare, esercitare la mente, ragionare, sviluppare il senso critico?
La sfida del latino
Risulta pertanto evidente, anche in risposta ad allarmistiche notizie di agenzia diffuse nei mesi scorsi ed a sempiterni luoghi comuni (non si sa se più provocatori o sprovveduti) che lo studio della Lingua Latina, in qualche misura, andrebbe introdotto almeno in tutte le scuole che si fregiano del titolo di “Liceo” e, in particolare, nel Liceo Scientifico andrebbe potenziato: la parola “Scientifico” allude a conoscenza critica, scienza, non soltanto tecnica applicata. E si può anche osservare che togliere il latino per sostituirlo con una lingua straniera moderna è una stupidaggine, perché chi conosce il latino ha le basi per potere con facilità apprendere altre lingue (soprattutto di ceppo indoeuropeo, ma non solo), mentre nel caso contrario la conoscenza resterà limitata a quelle studiate a scuola.
Le considerazioni fatte suggeriscono anche la seguente proposta: inserire, all’interno di un più vasto e rilevante progetto di riforma, che restituisca alle nostre istituzioni scolastiche serietà, efficienza e valore, lo studio del latino, lingua fondamentale di Roma e dell’Unione Europea, su base triennale nella scuola media inferiore, con lo studio della morfologia elementare per poi approfondire progressivamente lo studio completo della grammatica e dell’inizio della sintassi, per concludersi alle superiori con la conoscenza completa della lingua in modo da poter leggere autonomamente tutti i testi latini e, nel liceo classico, greci.
Milano, 24 giugno 2009
Per l’AESPI: il Presidente, Prof. Angelo Ruggiero;
Per il CNADSI: il Presidente, Prof. Enrico Orsi.
Aderiscono:
Per Zetesis: il Direttore della Rivista, Prof.ssa Giulia Regoliosi
Per la FILINS: il Presidente, Prof. Giovanni Piccardo
Per l’ANAPS: il Presidente, Prof.ssa Angela Loritto
Per l’ISPEF: il Direttore, Dott. Raffaele Ciambrone
Per il PRISMA: il Presidente, Prof.ssa Anna Maria Giannetto
Per l’AICC: il Presidente, Prof. Mario Capasso
Per il Centum Latinitatis Europae: il Presidente, Dott. Rainer Weissengruber
Per l’Associazione Culturale Internazionale “Eugenio Corti”: il Presidente, Ing. Francesco Righetti
Per il Centro “Pannunzio”: il Presidente, Dott. Camillo Olivetti
Per il Centro Studi “Romano Guardini”: il Presidente, Prof. Leonzio Veggio
Per il Centro di Cultura Europea Sant’Adalberto: il Presidente, Prof. Carlo Bortolozzo
Per il Centro Studi “Europa 2000”: il Presidente, Prof. Giuseppe Manzoni di Chiosca
Per la Fondazione Cajetanus: il Presidente, Dott. Diego Zoiam
Milano, 20 ottobre 2008
Al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
On. Dott. Mariastella Gelmini
Onorevole Sig. Ministro,
Le scriviamo a nome della rivista Zetesis, di cui siamo il Direttore responsabile e il Presidente del Comitato scientifico. Da quasi trent’anni la rivista si occupa della presenza delle radici greco-romano-cristiane nella nostra società e in particolare nella scuola e nell’università. A questo proposito siamo sempre stati attenti ai progetti di riforma delle superiori, su cui siamo intervenuti con contributi, lettere e mozioni, anche in collaborazione con altri organismi culturali: ogni volta il nostro intervento ha cercato di essere critico, ma anche costruttivo e propositivo.
Non intendiamo aggiungerci alle proteste di questi giorni: le modifiche apportate alla scuola primaria e secondaria inferiore hanno la nostra approvazione, anche a partire dall’esperienza di genitori di figli che hanno frequentato tali livelli di scuola in epoche diverse e con tutte le possibili situazioni (col grembiule e senza, coi voti, i giudizi e le lettere dell’alfabeto, con la maestra unica, prevalente o col modulo, in 24 ore su sei giorni o in 30 su cinque…). Siamo anche perfettamente consapevoli che tali proteste sono strumentali e manovrate.
La nostra preoccupazione è invece rivolta al futuro delle superiori.
Nuovamente ci diciamo d’accordo sul progetto di far chiarezza nella giungla di sperimentazioni che dagli anni 70 hanno creato un’enorme quantità di variabili, per lo più incontrollate (anche perché qualunque sperimentazione non può che automonitorarsi positivamente); che derivino da riforme mancate, dalla soppressione del valore abilitante di alcune scuole o da un abuso dell’autonomia, si sono create una quantità di tipologie, anche simili e alternative, che riteniamo vadano trasformate in un numero più ridotto e chiaramente definito quanto a curricoli, titoli, orari e sbocchi. Anche l’eccesso di numero di ore, dovuto all’idea (purtroppo condivisa anche da molti genitori) che più materie si insegnano più i ragazzi imparano, oltre ad essere economicamente pesante è soprattutto pedagogicamente negativo.
Ma non vorremmo che l’insistenza su quest’ultimo punto provocasse perdite gravi negli elementi fondamentali (non accessori o dovuti a sperimentazioni di moda) dei curricoli. Il liceo classico ufficialmente si svolge su 27 ore nel biennio, 28 in prima e seconda liceo e 29 in terza. Tuttavia in quasi tutti i licei è stata inserita la prosecuzione della lingua straniera (inglese, per lo più) anche nel triennio, con modalità inizialmente differenziate ma in seguito, su indicazione del Ministero, stabilizzate in tre ore settimanali per ogni anno: quindi le quattro ore di lingua straniera del biennio si sono ridotte a tre (e le ore complessive a 26) e le ore del triennio sono passate a 31 e 32 rispettivamente. Si tratta comunque ancora di sperimentazione (da richiedere tutti gli anni con mozione del Collegio docenti), quindi facilmente modificabile. Nel caso sia tassativo il numero totale di trenta ore, da dove si toglierebbe l’ora (o le due ore in terza) eccedente? Francamente temiamo che siano altre materie ad andarci di mezzo.
Pertanto avanziamo una proposta. Conservare le 4 ore di lingua straniera, tuttora nei programmi ufficiali, nel biennio, aggiungendo inoltre (come è stato largamente sperimentato, con buon successo, ci sembra) un’ora di storia dell’arte a partire dal primo anno. Così le ore del biennio salirebbero a 28. Nel triennio 2 ore di lingua straniera e un’ora di arte alla settimana (anche nell’ultimo anno, visto l’anticipo dei programmi nel biennio): così ogni classe del triennio avrebbe 30 ore settimanali. Del resto ogni scuola organizza già a parte la preparazione del PET e del FCE (o equivalenti certificazioni in altre lingue), quindi per chi desidera un approfondimento linguistico la possibilità esiste comunque. Ma per lo meno le altre materie del curriculum non sarebbero danneggiate e l’inserimento doveroso della lingua straniera nel triennio avrebbe finalmente un’ufficialità.
Una possibilità aggiuntiva sarebbe l’aumento di un’ora di matematica nel biennio (tre invece di due), il che porterebbe le ore del biennio a 29 senza eccessivo aggravio per gli studenti, , anzi con una maggior possibilità di esercizio e comprensione.
Ci permettiamo inoltre di esprimere grave preoccupazione a proposito della ventilata soppressione del latino nel liceo scientifico, o anche solo nel triennio di tale liceo. Riteniamo che sia solo un modo semplicistico di attestarsi sulle trenta ore, magari incrementando le materie scientifiche, senza dover “rosicchiare” ore a più materie. Ma semplicistico, o anche semplice, non significa mai migliore. Per anni il liceo scientifico ha faticato ad assumere un’identità precisa, e in effetti si potrebbe dire che è stata l’utenza stessa ad aver via via indirizzato la creazione di tale identità: non un liceo professionalizzante in senso strettamente scientifico, ma un liceo umanistico, meno impegnativo del classico in quanto manca il greco, ma impostato comunque in modo da fornire un ampio spettro di discipline: la frequente scelta, da parte dei maturati, di facoltà umanistiche (lettere moderne, scienze della comunicazione e simili) ne attesta il buon esito. Anche la riforma dell’esame di Stato su tutte le materie ha contribuito a valorizzare l’intero curriculum dello scientifico, compreso il latino prima piuttosto trascurato.
Non abbiamo qui proposte da avanzare. Facciamo però alcune considerazioni:
- Lo studio linguistico nel biennio, senza lo sbocco di un incontro al triennio con tutta la ricchezza degli autori, è pedagogicamente scorretto come metodo e obiettivi;
- Una tale modificazione danneggerebbe il liceo scientifico: chi lo frequenterà avrà una perdita di umanità e di arricchimento culturale, chi dovrà scegliere si orienterà verso il classico, rimasto l’unico liceo ad offrire un curriculum completo (col rischio che lo frequentino anche studenti non in grado di raggiungerne tutti gli obiettivi)
- Più in generale, sottolineiamo che nell’attuale temperie culturale la permanenza delle nostre radici è essenziale ed è quindi importante che un gran numero di ragazzi possa accedervi. La preoccupazione educativa più volte richiamata (anche in tempi recenti) dal S. Padre e dal Presidente Napoletano ci confortano in questa certezza.
Su altri aspetti relativi alle superiori ci limitiamo ad accenni:
- La scansione 2+2+1 ipotizzata per tutti i quinquenni non tiene conto del fatto che i licei in particolare sono, come già si è detto, aperti, e non solo di diritto, ad ogni sbocco universitario: pertanto privarli di una preparazione completa in ogni disciplina sarebbe un impedimento grave alla scelta vocazionale.
- E’ importante rivalorizzare i tecnici, senza pericolose commistioni
- Per esperienza diretta in quanto genitori riteniamo importante, nella folla di sperimentazioni originate dall’istituto magistrale, dalla scuola magistrale e dalla scuola per puericultrici, salvare un quinquennio abilitante per educatori/trici di asilo nido, con tirocinio: ci sono in atto o ci sono state bellissime esperienze, mentre riteniamo inutile e culturalmente povero il liceo sociale, sperimentato da un paio d’anni, che offre solo “assaggi” di scienze umane senza nessuna esperienza viva e nessuna reale preparazione.
- Nel ventilato (e quanto mai preoccupante) riordino delle classi di concorso va tenuto presente che, ad esempio, all’A052 competono tutte le ore di lettere al biennio (oltre a greco e latino al triennio): stornarle per l’A051 o per l’A050 sarebbe sindacalmente molto grave e inaccettabile, a meno di un ritorno nel senso di assegnare tutte le ore di latino del triennio alla classe A052.
Siamo sempre disponibili per un confronto agli indirizzi dell’intestazione. La ringraziamo dell’attenzione e Le auguriamo buon lavoro.
Giulia Regoliosi, Direttore responsabile
Moreno Morani, Presidente del Comitato Scientifico
Alcune mozioni approvate nei convegni e negli incontri promossi da Zetesis
17 maggio 1992
All’attenzione
dell’onorevole Signor Ministro
della Pubblica Istruzione
I docenti delle scuole superiori e dell’università partecipanti all’incontro organizzato da Zetesis il giorno 17 maggio 1992 a Milano esprimono le seguenti considerazioni in merito al progetto di riforma della scuola media superiore avviato nella precedente legislatura per iniziativa dell’on. Brocca e del sen. Mezzapesa.
1. Poiché ritengono che l’Italia sia tuttora uno stato di diritto e una democrazia, non sembra loro accettabile l’idea, avanzata anche in sedi ministeriali, per cui un progetto impegnativo e di ampio respiro, che coinvolge l’intiera struttura della scuola superiore e tocca pertanto nodi d’importanza cruciale anche in rapporto allo sviluppo stesso della nazione, possa essere approvato attraverso atti amministrativi e sperimentazioni forzate, anziché attraverso un lungo e approfondito dibattito parlamentare e il necessario apporto delle istituzioni culturali e professionali.
2. Fanno rilevare come la mancata rielezione dell’on. Brocca e del sen. Mezzapesa, nonché di altri eterni ragazzi che sono rimasti tenacemente abbarbicati a posizioni veterosessantottine nel sostenere proposte di riforma scolastica od universitaria, non può non essere considerata come un’aperta e palese sconfessione della linea di politica scolastica fin qui perseguita.
3. Presa visione dei programmi di latino e greco per il triennio, esprimono non solamente un giudizio totalmente negativo sull’impostazione scientifica e didattica del progetto, ma anche il proprio stupore per la palese frettolosità e superficialità con cui è stato redatto il progetto medesimo, non rispondente alle esigenze del mondo scolastico e del tutto impraticabile da un punto di vista meramente operativo.
4. Formulano l’auspicio che con l’avvio della nuova legislatura e con la ripresa dei lavori parlamentari si operi nei confronti della scuola su basi più serie e circostanziate, con un apporto di studiosi e di operatori scolastici più vasto di quello che ha portato al sopraricordato progetto e con l’ascolto responsabile e onesto di tutte le voci contrarie che si sono levate e si levano da ogni livello di scuola.
5. Richiamano infine il diritto obiettivo degli scriventi, come cittadini italiani, di essere governati ed amministrati da persone oneste e competenti, e rifiutano radicalmente l’idea che il Ministero della Pubblica Istruzione divenga oggetto di scambio e debba essere considerato un incarico di ripiego nel quadro di una lottizzazione partitocratica i cui effetti nefasti si sono fatti sentire in modo del tutto negativo, per ciò che riguarda l’ambito scolastico, nell’ultimo scorcio di legislatura.
29 maggio 1994
I docenti delle scuole superiori e dell’università partecipanti all’incontro organizzato da Zetesis il giorno 29 maggio 1994 a Milano, mentre salutano il nuovo Ministro della Pubblica Istruzione e auspicano che la novità della composizione politica dell’attuale governo comporti anche una capacità di scelte politiche coraggiose nei confronti della scuola esprimono le seguenti considerazioni:
1. Si augurano che non abbia ulteriore corso il progetto di riforma della scuola secondaria superiore così come approvato dal Senato della Repubblica durante la scorsa legislatura;
2. Si augurano che un eventuale provvedimento che innalzi l’obbligo scolastico a sedici anni non vanifichi di fatto la possibilità di acquisire solide e specifiche conoscenze professionali in cicli scolastici di breve durata;
3. Si esprimono contro una prospettiva, comunque camuffata, di biennio secondario unitario o unico che non tenga adeguatamente conto delle differenti capacità e opzioni dei singoli, creando così le premesse per situazioni di frustrazione con elevati tassi di abbandono e di mortalità scolastica;
4. Auspicano che, una volta constatato, dopo una ormai pluriennale esperienza, il carattere inefficace e pretensioso della scuola media inferiore, si operi coraggiosamente per una profonda revisione dei programmi e dei metodi di questa, anziché assumerla a modello per un futuro progetto di riforma della scuola media superiore;
5. Affermano l’imprescindibile importanza, nell’attuale situazione, della cultura umanistica e chiedono che essa non venga di fatto emarginata anche attraverso l’imposizione di un monte ore complessivo eccessivamente alto e privo di coerenza interna;
6. Chiedono che nell’elaborazione di futuri progetti di riforma venga accolto o stimolato il parere di tutte le associazioni professionali degli insegnanti e in particolare di quelle attive da anni in ambiti didattici specifici.
11 dicembre 1994
I docenti liceali ed universitari riuniti a Milano per il consueto Convegno autunnale di Zetesis esprimono il proprio parere riguardo alla situazione della scuola italiana nei seguenti termini.
Differentemente da quanto finora avvenuto, ritengono del tutto inutile produrre un documento contenente proposte, precisazioni, giudizi, in quanto:
non hanno avuto né da parte del Ministro né da parte di suoi funzionari riscontro alcuno i nostri precedenti interventi, nonostante avessero alle spalle anni, e talo-ra decenni, di presenza appassionata e partecipe nella scuola, anche in situazioni difficili, da persone capaci di testimoniare nel concreto del lavoro il proprio interesse per la crescita umana e l’educazione delle giovani generazioni;
l’attuale politica scolastica non sembra sorretta da nessun piano razionale, né consivisibile né criticabile: frammentaria e piena di contraddizioni, essa è semplice-mente affidata alle improvvisazioni confuse e velleitarie di un Ministro che fa della propria ispirazione personale il criterio dell’azione;
non sembra esservi da parte del governo interesse alcuno nei confronti della scuola, ed anche il Parlamento non pare sensibile più che tanto ai problemi scolastici: le votazioni frettolose e plebiscitarie, in una piena e assoluta confusione di ruoli fra maggioranza e opposizione, sono la prova più evidente di questa scarsa consapevolezza dei nostri eletti;
riesce difficile concepire questo modo d’agire come democratico: mozioni e proteste da parte dei soggetti più precisamente impegnati nella scuola sono state completa-mente ignorate da chi ha le maggiori responsabilità poli-tiche: questi tengono conto solamente di pareri e propo-ste che provengono da associazioni privilegiate, consone all’ideologia ancora prevalente (benché politicamente minoritaria e all’opposizione) e adeguatamente premiate per questa loro fedeltà;
riesce difficile credere che si possano operare in-terventi delicati come l’abolizione degli esami a settem-bre in corso d’anno, emanando circolari applicative di una legge che ancora non ha avuto la definitiva sanzione parlamentare, circolari peraltro fumose e contradditto-rie, lasciando agli insegnanti l’onere di tradurre in pratica disposizioni vaghe e spesso inapplicabili.
Infine, poiché l’azione del ministro e le sue prese di posizione sembrano costantemente vòlte ad accattivarsi il favore dell’opinione pubblica (o meglio, di quella parte dell’opinione pubblica che meno conosce i problemi della scuola o che maggiormente è interessata a una scuola squalificata e indegna della tradizione italiana), dopo l’abolizione degli esami a settembre e la proposta di abolizione del voto di condotta, consiglieremmo, per una piena coerenza con la linea prescelta, l’abolizione pura e semplice della scuola superiore.
iena coerenza con la linea prescelta, l’abolizione pura e semplice della scuola superiore.
19 maggio 1996
I docenti liceali ed universitari riuniti a Milano per il consueto Convegno primaverile di Zetesis, mentre formulano auguri di lavoro fecondo e produttivo all’on. prof. Berlinguer, da poco designato come Ministro della Pubblica Istruzione e della Ricerca scientifica, e ritengono di buon auspicio il fatto che sia finalmente insediato in questa delicata funzione un uomo di cultura, augurandosi che non restino più senza esito proposte e suggerimenti che provengono da associazioni professionali che (come la nostra) da decenni operano nel vivo del mondo scolastico con instancabile impegno,
ribadiscono
i contenuti delle mozioni già formulate nei precedenti convegni e rimasti del tutto privi di riscontro, e in particolare,
auspicano
che l’operato del nuovo Ministro non abbia il carattere improvvido che ha contraddistinto molte azioni dei suoi predecessori, e in particolare che vi sia un ripensamento almeno sui seguenti due punti, affinché la frettolosa e demagogica improvvisazione di cui hanno dato prova i precedenti ministri non crei guasti ancora più grandi e irreparabili di quelli già prodotti:ripristino degli esami di riparazione o, in subordine, una normativa efficace e realistica, che non illuda studenti e famiglie di poter colmare, con poche ore di lezione supplementare, lacune anche gravi o mancata predisposizione all’apprendimento di determinate discipline, e che non affidi alla buona volontà degli operatori scolastici l’impari compito di supplire o tamponare carenze dei politici o dell’Amministrazione; bando dei concorsi: si chiede che siano rispettate le normali scadenze nei bandi concorsuali sia nelle scuole sia nelle Università e che venga ripudiata qualunque forma di reclutamento attraverso provvedimentiope legis comunque mascherati, che avrebbero conseguenze tragiche, sia perché spianerebbero la via dell’immissione nei ruoli a personale dequalificato, già soccombente in precedenti prove concorsuali, sia perché di fatto sbarrerebbero la strada dell’insegnamento a molti giovani neolaureati di valore: ricordiamo che tali forme di reclutamento sono un triste retaggio degli anni Settanta e riteniamo che il Prof. Berlinguer possa riconoscere quali effetti devastanti abbiano avuto (e continuino ad avere ancora oggi, a distanza di decenni) i corsi abilitanti nelle scuole e le immissioni in ruolo di professori associati e ricercatori ope legis nell’Università;
chiedono infine
– che non venga ulteriormente perseguita la politica di penalizzazione della cultura umanistica greco-romana che ha caratterizzato molti progetti di riforma degli ultimi anni, nella convinzione che solamente il richiamo alle nostre radici culturali possa fornire quel quadro di riferimento ideale che rende il progresso scientifico e tecnologico indirizzato a un pieno ed armonico sviluppo dell’uomo e della società, nella consapevolezza dei valori e dei fini dell’operare e del vivere umano;
– che la scuola continui ad essere un luogo in cui trasmettere e incontrare una tradizione culturale ricca di significati per il nostro presente e per il nostro avvenire e che pertanto ci si ponga in un’ottica di valorizzazione della didattica e dell’apprendimento.Milano
6 giugno 1996
Lettera inviata al Ministro della Pubblica Istruzione e dell’Università e Ricerca Scientifica, successivamente alle sue dichiarazioni sul prolungamento dell’obbligo scolastico e sulla riforma degli esami di maturità.
Egregio signor Ministro,
come Le è noto, da molte parti ormai si rileva il fallimento delle diverse riforme che hanno avuto come oggetto la scuola dell’obbligo: l’istituzione della media unica, soprattutto nella seconda fase che ha abolito il latino opzionale e con questo ogni possibilità di valorizzare e orientare studenti “capaci e meritevoli”; la modificazione della struttura della scuola elementare, che ha privato il bambino di una figura di riferimento e ha sostituito all’idea-forza di formazione globale quella parcellizzata di apprendimento di materie o acquisizione di competenze. Ne vediamo con pena gli effetti devastanti su figli e allievi, in termini sia qualitativi (disorientamento, mancanza di motivazioni, di metodo, di capacità critiche, di autonomia) sia quantitativi (in particolare le strutture linguistiche di base sono precarie a qualsiasi livello, compreso quello universitario). Vediamo con pena una scuola che è adatta per il bambino o il ragazzo medio, cioè puramente teorico: emargina e frustra l’alunno in difficoltà, proponendogli programmi ambiziosi e testi complessi e illeggibili senza aiuto; demotiva e illude l’alunno dotato, che non impara responsabilità e fatica.
Se è ancora possibile parlare di scuola formativa e responsabile lo si deve (oltre che al personale eroico in grado di trarre qualche frutto anche dalla scuola dell’obbligo nonostante le riforme) alle scuole superiori che si sono assunte il compito di formare e insegnare. Un compito che già ha tempi brevi, dovendo sopperire al deficit precedente; già ha problemi di verifica e valutazione, per il numero eccessivo di alunni e l’abolizione dell’appello autunnale; non reggerebbe un’ulteriore riduzione, soprattutto per materie che hanno tempi lunghi d’apprendimento e diventano produttive e gratificanti solo dopo un apprendistato.
La riforma del biennio di cui sentiamo parlare (biennio unitario: sei anni di elementari e quattro anni di medie inferiori), in un momento assolutamente intempestivo per la scuola (all’uscita dei risultati, all’inizio degli esami di maturità: quando si desidererebbe calma e concentrazione, e rispetto per chi è sulla breccia – ma certo è il momento in cui i giornali parlano volentieri di scuola) condanna noi insegnanti di ogni livello, i nostri ragazzi e i nostri figli e tutta una generazione alla perdita di ogni possibilità formativa. Nei tre anni superstiti, all’uscita dal tunnel decennale, non ci sarà spazio per alcuna materia impegnativa, per alcuna preparazione professionale: la demotivazione e gli abbandoni saranno diffusi e difficilmente ricuperabili.
Cordialmente, da persone che amano la scuola, La preghiamo di riguardarsi la storia dei progetti di riforma: il Suo è un progetto vecchio di decenni, superato via via che si chiarivano gli errori delle riforme precedenti e, pur senza avere il coraggio di abolirle, si decideva di non imitarle. L’opinione pubblica forse si aspetta riforme: ma la gente, che chissà perché non coincide con l’opinione pubblica, la gente che studia, ha figli a scuola, insegna, proprio non le vuole, non così almeno.
Un ultimo punto: aboliti gli esami a settembre, l’esame di maturità resta l’unica occasione per lo studente di mettersi alla prova; per il docente è l’occasione di far valutare il suo insegnamento, altrimenti autoreferenziale. L’esame interno, seppur con un presidente esterno (preso da dove?) elimina questa possibilità, non potendo che ripetere per coerenza il risultato dello scrutinio di ammissione. Le ripercussioni sullo studio dell’ultimo anno e dell’intero percorso sono evidenti. E’ assai meglio conservare le commissioni esterne, aumentando a quattro le prove orali d’esame e abolendo la famigerata e totalmente disattesa collegialità nell’ascolto delle prove. Se si creano due sottocommissioni si dimezza il tempo e si possono raddoppiare le prove; si recupera la collegialità allo scrutinio (come del resto di fatto anche se non formalmente già avviene).
Siamo disponibili per incontri, chiarimenti e suggerimenti. Cordiali saluti
30 novembre 1997
Al Signor Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer
I docenti universitari e medi presenti al convegno autunnale di Zetesis svoltosi a Milano il giorno 30/11/97
prendono atto che la legge quadro 3/6/97 sulla riforma scolastica sembra aver recepito almeno formalmente alcune delle maggiori obiezioni che da più parti erano state rivolte alla bozza diffusa il precedente 14 gennaio: vi si parla infatti di “persona”, viene rilevata l’importanza della famiglia, viene salvaguardata la specificità della scuola materna, obbligatoria o no;
notano tuttavia che nulla è stato modificato dell’impianto presentato nella bozza, integralmente riproposto con una più netta terminologia: risulta più chiara sia la sparizione della scuola media sia quella dell’indirizzo classico (sostituito rispetto alla bozza da un generico “umanistico”: art.7 c.1), nonché la persistente volontà di non affrontare seriamente la formazione al lavoro;
chiedono che si rifletta sulla riduzione della scuola “primaria” da otto a sei anni e dell’intero ciclo scolastico da tredici a dodici, con conseguente anticipazione dei programmi ad età inadatte e limitate possibilità di apprendimento: è perfettamente inutile imitare dall’estero modelli che hanno dato prove negative;
chiedono poi che si riconsideri l’assurdo ibrido (art. 8 c.4) per cui nell’ultimo anno dell’obbligo alcuni ragazzi dovrebbero trascorrere il tempo scuola in parte in una classe di scuola superiore in parte in centri di formazione professionale, con conseguenti disagi e frustrazioni (per non dire dell’impossibilità di organizzare l’esame finale): si dia spazio adeguato alle differenti vocazioni e opzioni;
insistono infine sulla necessità di mantenere spazio agli studi classici, con orari che permettano la gradualità dell’apprendimento e la piena efficacia educativa e formativa.
La redazione di Zetesis e i convegnisti si dichiarano nuovamente disponibili alla collaborazione.
30 maggio 1998
Al Signor Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer
I docenti universitari e medi presenti al convegno primaverile di Zetesis svoltosi a Milano il giorno 31/05/98
rilevata l’instancabile attività di codesto ministro, che con ritmo pressoché quotidiano propone innovazioni e cambiamenti che toccano in misura rilevante l’impianto della scuola secondaria e dell’università,
manifestano il loro disagio di fronte a provvedimenti di massima importanza, che appaiono disarticolati e attuati secondo una logica verticistica e ideologica, che male si concilia con gli ideali di democrazia a cui questa Repubblica dovrebbe ispirarsi,
ritengono che il plauso o l’atteggiamento di adulatorio servilismo dei principali organi di stampa non rappresenti il reale sentimento di chi opera nella scuola e che vive in una situazione di disagio e di incertezza, o addirittura di frustrazione, per l’imprevedibilità di disposizioni a cui è continuamente costretto ad adeguarsi;
rilevano come il recente documento dei saggi, al di là della dichiarata volontà di trasmettere in ogni ordine di scuola i valori del mondo classico, limiti di fatto la possibilità di un accostamento serio al mondo antico, sganciando lo studio della cultura dallo studio delle lingue classiche;
rilevano altresì che questo documento porta a un generale abbassamento del livello degli studi: è bensì vero che tale documento è pienamente conscio di questo abbassamento, che rientra anzi nelle dichiarazioni programmatiche del documento stesso, ma si chiedono se sia condivisibile una politica scolastica che pone come obiettivo da raggiungere uno scadimento qualitativo generalizzato.
Rimandando ad altra sede e occasione una più puntuale, ma comunque sfavorevole, valutazione dei recenti provvedimenti riguardanti l’esame di maturità, il biennio di specializzazione degli insegnanti, l’innalzamento dell’obbligo scolastico e altro, esprimono una valutazione negativa di fronte a una politica che, continuamente insistendo sul carattere orientativo degli studi, rimanda nel tempo ogni possibile scelta, impedendo così di fatto alla scuola di esercitare la sua preminente funzione educativa e culturale.
22 aprile 2001
Il giorno 22 aprile 2001 si è tenuto a Milano l’incontro Specificità dei licei e progettualità. Al termine dei lavori, che ha visto alcune relazioni tenute da insegnanti della redazione di Zetesis, numerosi interventi da parte dei presenti e la lettura di contributi giunti per lettera o per e-mail, sono stati formulati i seguenti punti:
1. L’opposizione antico~moderno, cultura~tecnica, inutile~utile è vecchia e datata: chi costruisce su di essa un modello di scuola è fondamentalmente reazionario, e non ricerca nessuna apertura di novità.
2. Una cultura che favorisce l’incontro dei giovani con l’uomo, a partire dalle nostre radici e, per così dire, dalla mappa genetica della nostra storia di ricerca, pensiero, idee politiche, creatività, è essenziale perché le nuove generazioni non vivano uno smarrimento esistenziale, una perdita d’identità, una ricerca di evasione dalla realtà o di aggregazioni in nome di idee razziste o violente.
3. È quindi fondamentale il ricercare i modi ottimali con cui tale incontro possa avvenire: riconosciamo nella lettura degli autori tale modalità, a cui lo studio della letteratura, dell’antropologia, della storia della critica fornisce un contesto e un supporto per la comprensione.
4. Ogni scrittore si esprime in una lingua e in un linguaggio peculiari: pertanto l’incontro con l’autore avviene più proficuamente in originale, anche attraverso la mediazione del docente.
5. Lo studio linguistico è quindi propedeutico alla lettura degli autori: più è approfondito nel suo sviluppo diacronico e nelle sue varietà (diversi registri, linguaggi, figure, ritmi di poesia e prosa, per il greco dialetti letterari), più compiutamente potrà essere percepito il significato dei testi
6. Lo studio linguistico del latino e del greco, svincolato dalla necessità pratica del parlato, costituisce un modello importante per la comprensione delle strutture e dello sviluppo diacronico delle lingue d’uso: gli insegnanti di lingue moderne potrebbero utilmente far leva sulle conoscenze acquisite dai loro studenti in una o in entrambe le lingue antiche per dare uno spessore al proprio insegnamento (soprattutto se, come è auspicabile, svolgono anche una storia letteraria e affrontano diversi generi, epoche e registri): la collaborazione col docente di latino e greco potrebbe semplificare il loro lavoro e permettere di dedicarsi più liberamente agli aspetti più specifici dell’insegnamento delle lingue moderne
7. Lo studio linguistico ha uno sbocco particolare, che consiste nell’acquisizione da parte dello studente delle competenze necessarie per comprendere autonomamente un testo e tradurlo in italiano. Tale acquisizione, che viene valutata col voto dello scritto ed ha quindi una rilevanza scolastica notevole, richiede da parte dei docenti un ripensamento per quanto riguarda metodi, tecniche, flessibilità, recuperi, valutazione, ancora in parte da compiere. Va detto comunque che si tratta di uno dei più alti esempi di problem solving: al ragazzo viene chiesto di applicare conoscenze acquisite, in un contesto nuovo e non ripetitivo, usando modelli di metodo o creandosene dei propri a seconda del suo taglio mentale. Un esempio di procedimento scientifico che ha pochi rivali. Anche la difficoltà che inevitabilmente presenta non deve stupire né scandalizzare: è evidente che le competenze acquisite saranno di diverso livello.
8. Nella scuola riformata peculiarità dei licei sarà comunque l’insegnare a ragionare: tale competenza, comune alle diverse conoscenze, contraddistingue e dovrà continuare a contraddistinguere i licei da scuole che forniscono competenze pratiche.
9. La fondamentale capacità che costituisce il punto d’approdo dei nostri studi è quella di confrontarsi con quanto si studia, con gli autori e i testi incontrati, interiorizzare le problematiche, ripensarle e paragonarle col proprio vissuto.
10. Quanto detto richiede tempo: pertanto è impossibile pensare ad una riduzione delle ore da dedicare alle nostre materie, cui è riservato un compito formativo di tale por
Tra l’estate del 2014 e l’estate del 2015 M. Morani redasse, coll’avatar Hieronymus, una rubrica di brevi scritti latini sul quotidiano Avvenire. Tra le questioni affrontate vi fu anche quella dello studio del latino. Riportiamo qui gli scritti attinenti il tema: il primo pubblicato il 3 marzo 2015 (puntata 27) e il secondo (in italiano, in quanto puntata finale della rubrica, n. 48) pubblicato il 25 luglio 2015
Quid prodest?
Velim hodie de quaestione disputare, quae gravis est et ut ita dicam ante omnes alias consideranda sit. Quid prodest antiquae humanitatis studium? Cur adulescentuli in gymnasiis classicas linguas discere coguntur? Ad haec ne temptaveris responsionem quae ad utilitatem doctrinae spectet: nam facile dicat quis alia maiora urgere et esse studia utiliora quam carmina et cogitationes antiquorum, si cotidianae vitae negotia feliciter gerere cupias, et inane denique esse tempus mortuis linguis dicatum, ut iam nonnulli per saecula dixerunt: nihil ergo sub sole novi in hac re. Alia via experienda est. Inter praecipua scholae munera hoc est, iuvenum animos educare et eis facultatem offerre incedendi per iter vitae viribus suis confisis: discipuli erudiendi sunt ut probi viri et cives fieri possint. Evenit in nationum historia ut in personae vita: dierum summa te cotidie prudentiorem facit et promptiorem ad res diiudicandas et ad vitae pericula sustinenda. Sic maiorum memoria non solum contemnenda non est, sed etiam meditandi occasio fieri debet. Nam humanitatis cultus validae arboris instar effingi solet, quae tempestates et undas et fulminum offensiones sustinere potest, si eius radices in terra firmiter haerent. Ut nos docuit pontifex Benedictus, Europae humanitas e concursu inter Athenarum, Romae, Ierusalem traditiones nata est: mores et consuetudines quas nobis maiores tradiderunt magni aestimandae sunt, si cum exteris gentibus vere colloqui cupimus: nullus enim sermo fieri potest, nisi ante alios cum vultu et facie tua adstas. Ad hoc efficiendum notitia antiquarum linguarum instrumentum perutile est: nam quomodo arbitraris te posse auctorum verba penitus perscrutari, si textuum linguam ignoras? Qua de causa classicae antiquitatis studium fovendum est in eis scholis praesertim quae ad humanitatis studia colenda operam maximam dant. Non est hoc studium otium vel singuli ornamentum, sed humanae societatis necessitas: si periret, grave vulnus nostrae historiae infligeretur.
Congedo
“Nostra maggior Musa”: così Dante nel Paradiso definisce Virgilio. In un altro passo del Purgatorio il poeta mantovano Sordello dice dello stesso Virgilio che “mostrò ciò che potea la lingua nostra”. In queste affermazioni c’è l’orgogliosa rivendicazione di una continuità col mondo latino. Virgilio, Sordello, Dante scrivono in tre lingue diverse (latino, provenzale, italiano), ma la differenza linguistica è percepita come puro accidente esterno, rispetto alla comune appartenenza a una stessa cultura: c’è un legame ininterrotto con Virgilio e gli altri scrittori antichi, di cui Dante (e Sordello) si proclamano eredi. Da tempo si discute sul ruolo da dare alla cultura classica nelle scuole e nella società. Tanti argomenti si sono proposti, in positivo o negativo, ma ci pare doveroso, prima di ogni altra considerazione, ribadire questa continuità. Virgilio scrive in una lingua diversa da quella che parliamo oggi e solo uno studio paziente mette il lettore in condizione di capire la sua parola: nessuno lo nega, ma lo stesso può dirsi per tanti passaggi di Dante. E come nessuno metterebbe in dubbio che Dante è parte della nostra storia letteraria, così non possiamo dimenticare il legame che ci riporta all’epoca romana. Virgilio e Cicerone non sono degli estranei, sono i nostri antenati! Con tutte le diversità linguistiche e culturali, sono pur sempre espressione di un mondo su cui sono poggiate le radici della nostra cultura occidentale. Se uno ha degli antenati che illustrano la sua famiglia, cerca di conservarne la memoria, non di cancellarla. Valorizzando il latino valorizziamo anche il nostro mondo culturale, e in sostanza noi stessi.
Con questa puntata Hieronymus si congeda dai suoi lettori, e li ringrazia per averlo seguito nelle sue settimanali divagazioni linguistiche e filologiche. Ringrazio gli amici di Avvenire per avermi offerto questa opportunità, che mi ha anche dato occasione di fare conoscenze ed incontri interessanti. Omnibus vobis gratias ago maxima
Martha N. Nussbaum
In questa intervista, rilasciata al sito spagnolo abc.es il giorno in cui riceve il prestigioso premio “Principe della Asturie”, l’economista e pensatrice nordamericana Martha C. Nussbaum afferma senza mezzi termini che la mancanza di insegnamenti classici è un pericolo per la democrazia.
Riesce a immaginarsi un mondo senza insegnamenti umanistici o classici?
Sarebbe una minaccia molto grande per la democrazia. Se la gente non impara a pensare in forma rigorosa e analitica, se non sa costruire argomentazioni filosofiche, saranno come gli schiavi al tempo di Socrate. Sono necessari insegnamenti come i Dialoghi di Platone, perché è necessaria la immaginazione e la curiosità di modo che le persone amplino la loro mete e pensino a qualcosa che oltrepassa la loro famiglia e la loro cerchia. Voteranno con minore preparazione, non capiranno le persone di diversa razza, religione e classi sociali. Però non parlo solo del latino, del greco, della cultura classica, è necessaria tutta la letteratura, l’arte, la filosofia, la pittura.
Testo completo dell’intervista: clicca qui
Dopo una lezione al liceo classico S. Maffei di Verona, il filosofo e uomo politico Massimo Cacciari (già sindaco di Venezia) ha rilasciato un’intervista in cui, fra le altre cose, ha indicato l’importanza della cultura umanistica e dello studio del greco.
L’intervista può essere letta nella sua integralità in questo sito:
In un mondo come quello in cui viviamo oggi, dove viene propugnata la cultura scientifica e tecnico-tecnologica e discapito della cultura umanistica, che senso ha studiare ancora le materie classiche ed umanistiche? Questa cultura, quella umanistica, e in particolare il pensiero greco, possono aiutarci a uscire dalla crisi socio-politica ed etica in cui siamo immersi? In che modo?
Sarò breve: si ignora la cultura umanistica? Può darsi che una pianta possa crescere completamente sradicata, ma quello che è certo è che si parlerebbe senza sapere quello che si dice. Voi parlate costantemente di uguaglianza, di legge, di giustizia. Ma sapete cosa dite? Se non avete la minima idea del pensiero classico, degli autori classici, voi non siete dei parlanti ma dei parlati. Voi credete di parlare, ma in realtà la lingua parla in voi, perché ripetete termini ignorandone il significato, la radice. Ignorate il significato non solo in modo linguistico, ma in modo semantico. La conoscenza di questi autori vi dà questa arma: riuscire a dare ragione di ciò che dite. Credo che questo dia una certa superiorità.
Voi dovete essere gli “áristoi”: una persona che fa un percorso di studi umanistici deve avere in mente di diventare àristos, ovvero il migliore. Solo così si può fare del bene alla democrazia. Non so se sia chiaro perché siete democratici. Probabilmente non lo è, poco importa: ormai sono democratici tutti! Ma perché siete democratici? Perché non siete per la monarchia assoluta? Eppure il re Sole era bravo. Qual è il motivo per cui non volete il re Sole?
Io sono democratico perché credevo che, attraverso il mio voto e attraverso il ragionamento di sottoporre a critica razionale i programmi che mi venivano presentati, io potessi scegliere i migliori. Noi siamo democratici perché riteniamo di avere la ragione sufficiente e di essere sufficientemente informati e coscienti per scegliere a governarci i migliori. E come si dice “migliori” se non “áristoi”? Quindi, io sono democratico perché sono aristocratico. Voi dovete diventare àristoi e volere che la democrazia sia aristocrazia sul piano del merito, del valore, della conoscenza, della consapevolezza. E qual è la vera “paìdeia”? Secondo me sono gli studi liceali, ed in particolar modo il liceo classico. Nel liceo classico c’è tutto.
C’è poi un secondo aspetto: come volete elaborare una coscienza critica se non attraverso determinate letture e conoscenze? Gli àristoi sono i migliori perché sono curiosi e non sono mai soddisfatti né contenti di quel che hanno, perciò sono sempre spinti a cercare di più. Ma la curiosità non basta, bisogna avere anche spirito critico, saper mettere in discussione. Come facciamo ad armarci dello spirito critico, unico mezzo che ci permette di essere liberi, se non attraverso determinate letture e determinati studi? È a scuola, nella scuola fatta come si deve che si impara ad essere àristoi ed è attraverso il dialogo e il confronto tra coetanei. Ognuno potrà fare poi il percorso che più gli si addice: medicina, legge, ingegneria… ma non ho mai conosciuto nessun grande medico, nessun grande fisico, nessun grande ingegnere che non avesse coscienza critica, cioè che non fosse appassionato di quei testi su cui soli ci si forma una coscienza critica. Nei classici noi ascoltiamo la voce di persona che hanno sconquassato il pregiudizio ed hanno messo a soqquadro ogni coscienza prestabilita. E se la scuola vi fa leggere i classici come un catechismo dovete ribellarvi. La ricchezza di questi studi sono le domande, i dubbi, le angosce, che hanno mosso tutti i grandi pensatori.
Sono angosciato dall’idea dell’eliminazione del percorso di studi classico. Esso può essere arricchito, ma la sua eliminazione è angosciosa. Perché la vera omologazione, in realtà, parte da un percorso di studi che sia uguale per tutti e sia portatore della cultura che inquieta. Il classico non è qualcuno che dice autorevolmente qualcosa, ma è la domanda che non trova mai risposta. Questo è il classico. E questa è la cultura.
Michael Hugo Leiters è un tipo tosto. Di quelli che ti guardano diritto negli occhi, senza sorridere. È tedesco, ed è un manager della Ferrari. È il responsabile della tecnologia, uno dei settori più importanti per le aziende che producono i costosissimi gioielli a quattro ruote. Leiters ha lavorato per anni alla Porsche e conosce molto bene l’ambiente delle supercars. Siamo a Maranello, nel palazzo della direzione. L’ edificio segue un bel disegno pulito di Fuksas; ma ti stupisce appena sali una rampa di scale e trovi il laghetto zen, una distesa di acqua e ciottoli di fiume, che occupa tutto il primo piano. Mi dicono che è stato fatto per favorire la meditazione e la visione strategica dei dirigenti dell’azienda fondata dal burbero e visionario Enzo. A fianco la galleria del vento disegnata da Renzo Piano, più avanti, fra i vialetti, le avveniristiche linee di produzione da cui escono una trentina di 8 o 12 cilindri al giorno.
Mi hanno chiamato qui, a fine luglio, perché vogliono mettere a confronto il lavoro di una scienziato del Cern con quello di un top manager della compagnia. L’intervista doppia procede con fluidità. Man mano che scorre la conversazione si scopre che i punti di contatto fra le due attività sono molti, taluni davvero inaspettati. Gli scopi sono assolutamente diversi. I nostri obiettivi sembrano talmente astratti da rasentare la filosofia: scoprire l’ origine della materia oscura o capire la fine che farà il nostro universo; i loro sono quanto di più concreto si possa concepire: vendere macchine in un mercato altamente competitivo. Ma per entrambi l’innovazione e la tecnologia sono componenti essenziali, quelli che possono determinare quella sottile differenza che ti può consegnare un successo clamoroso o far precipitare nella peggiore delle catastrofi.
Lavoro di squadra, passione, amore per il rischio, cura quasi paranoica del più insignificante dei dettagli sono tutte cose che ci accomunano. Si sente che facciamo parte di una pattuglia di gente che respira la stessa aria sottile e pericolosa.
Alla fine l’ atmosfera è talmente cordiale che passeggiando intorno al laghetto zen, Leiters si scioglie e mi racconta della sua formazione ad Aachen, al Fraunhofer Institute, uno dei centri di tecnologia più avanzati della Germania. E qui scatta il miracolo. Mi basta citare l’emozione che ho provato nel toccare il trono di Carlo Magno, tuttora conservato nella Cappella Palatina della vecchia Aquisgrana, che gli occhi del mio interlocutore si illuminano. E mi racconta con fervore del Sacro Romano Impero, e della sua passione per il latino che ha segnato indelebilmente la sua formazione classica. Ne nasce un’altra ora di conversazione fuori dal protocollo, in cui discutiamo dei Germani di Tacito, così diversi da quelli di Cesare del De bello Gallico.
E solo l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie di esempi illustri. Nel mondo della ricerca scientifica più avanzata conosco moltissimi colleghi che hanno avuto una formazione classica. La mia amica Fabiola Gianotti, tanto per citare un nome famoso. Ma si trova un sacco di gente che non ha dimenticato come si traduce dal greco e dal latino e che è a capo di grandi aziende, o, come Leiters, a dirigere entinaia di ingegneri impegnati nelle tecnologie più avanzate.
Mi viene spesso da sorridere quando sento dire, da persone che solitamente non capiscono nulla di scienza e di tecnologia, che per imboccare con decisione la via dell’innovazione il nostro paese dovrebbe ridurre il peso e l’importanza degli studi classici.
Con questa motivazione qualche grigio funzionario del ministero vorrebbe addirittura abolire le traduzioni dal greco e dal latino al liceo classico. Follia pura.
Nel mondo della ricerca dura, quella segnata dalla più feroce competizione internazionale, lavorano moltissimi scienziati che hanno scelto di fare fisica proprio perché hanno fatto studi classici. Persone che non solo adorano greco e latino, ma spesso conoscono l’italiano, amano discutere di storia o di filosofia e sono appassionati d’arte. Come dice Semir Zeki, neuroscienziato dell’University College di Londra: «Il cervello non distingue tra cultura umanistica e scientifica».
Cos’è che rende gli studi classici così adatti a formare la base per una preparazione scientifica d’eccellenza. Non è solo il rigore che richiedono e neanche l’ampiezza della formazione culturale che ti danno. Tutti ingredienti essenziali per attività che ti spingono ad allargare lo sguardo per esplorare sentieri mai battuti.
Prendiamo proprio la traduzione dal greco e dal latino. Sei lì che combatti con il vocabolario per cercare di dare un senso compiuto ad un gruppo di frasi e ti sembra di avere trovato la chiave. Soltanto che non riesci a sistemare un piccolo, infimo dettaglio. Ed ecco che di colpo, per risolvere l’incongruenza, dovrai capovolgere tutto e abbandonare definitivamente quella che un istante prima ti sembrava un’ipotesi molto ragionevole. È la logica, bellezza, è tutto soltanto questione di logica. Non saprei trovare un’attività più vicina al lavoro scientifico concreto che viviamo quotidianamente. Capita molto spesso, in fisica, che per accomodare un piccolo particolare, apparentemente insignificante, siamo costretti ad abbandonare la congettura che ci aveva guidato fino a quel momento. E ogni tanto, questo stesso meccanismo apre le porte ad un nuovo paradigma.
Una ragione in più per studiare in profondità il mondo classico, greco e latino, per conoscere le civiltà che sono alla base del nostro mondo e capirne le dinamiche che tutt’oggi lo attraversano.
(Da Il Sole 24 ore, 15 ottobre 2017)