1. Il notturno nella letteratura italiana fino al XVI secolo
In Dante, Inf. II 1 ss. non abbiamo, propriamente parlando, la descrizione di un notturno (perché abbiamo il solo rapido accenno all’aere bruno del crepuscolo), ma troviamo rinnovato il motivo del contrasto tra la quiete generale e la fatica del singolo:
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
Nel passo dantesco è fortemente accentuato il carattere autobiografico (io sol uno, collocato in posizione rilevata, al termine dell’endecasillabo che chiude la terzina e in rejet rispetto al verso seguente); inoltre il contrasto è vissuto nella sua fase iniziale: il poeta si accinge (m’apparecchiava) a una dura fatica così come gli esseri viventi si accingono al riposo: il poeta sollecita l’attenzione dei lettori, da una parte rievocando la dura prova che si accinge a subire e dall’altra proponendo l’inizio di un racconto di eventi drammatici e dolorosi (la guerra sì del cammino e sì de la pietate). Dante traccia un quadro di notevole vigore pur nella sua concisione: la materia non lascia spazio a descrizioni prolungate, e tutto deve risolversi in rapidi accenni che, proprio per la loro essenzialità, devono essere il più possibile precisi ed efficaci.
Prende spunto dal passo dantesco (trattandosi di descrizione del tramonto, e non propriamente di un notturno) la canzone 50 di Francesco Petrarca (Ne la stagion che il ciel rapido inchina): il motivo viene diluito in cinque ampie stanze (per un totale di 70 versi più 8 di congedo). Viene via via delineato il contrasto tra il turbamento del poeta e l’approssimarsi, nell’ora del crepuscolo, del momento di quiete per la stanca vecchiarella pellegrina che si trova in un paese straniero, per l’avaro zappador, per il pastore che sta per rientrare nella sua casa, per i naviganti che si accingono al riposo sul “duro legno”, persino per i buoi che la sera tornano sciolti da le campagne e da’ solcati colli. Fatalmente, il protrarsi così ampio del motivo finisce per togliere vigore allo spunto iniziale, e non si può negare che l’insieme dia alla fine unb’impressione ripetitiva: all’interno delle singole stanze si accumulano particolari, con grande abbondanza di aggettivazioni, che trascinando in lungo la descrizione dei singoli episodi finiscono per offrire quadriun po’ manierati rispetto ai quali il poeta pare scarsamente partecipe (p.es. lo zappatore che la mensa ingombra di povere vivande, il pastore che lassando l’erba e le fontane e i faggi dove è solito dimorare spinge soavemente il gregge e poi o casetta o spelunca di verdi frodi ingiunca dove senza pensier s’adagia e dorme), anche per il carattere convenzionale di alcune aggiunte che hanno scarsa o nessuna connessione con l’argomento (v. 23 ss., le vivande del contadino sono simili a quelle ghiande | le qua’ fuggendo tutto ’l mondo onora). Né giova all’economia della composizione il fatto che la descrizione del tramonto sia ripetuta più volte con eleganti variazioni nelle prime quattro stanze: nella quinta si ha un sobrio la sera, preceduto però (v. 57) da un verso che ribadisce l’insistenza su un concetto già sviluppato nelle stanze precedenti: E perché un poco nel parlar mi sfogo. (leggi tutto il componimento)
Il tema del contrasto tra la quiete notturna e l’inquietudine del poeta è descritto nel sonetto 164. La descrizione è nettamente sbilanciata, perché la quiete notturna è descritta in pochi e rapidi tocchi, con un rapido accenno a fiere e uccelli, mentre sulla passione dell’animo del poeta il poeta si sofferma con insistenza e anche con una certa enfasi, riscontrabile p.es. nella moltiplicazione delle parole e nell’uso persino artificioso dell’asindeto (vegghio, penso, ardo, piango). Potrebbe non essere estraneo anche qualche richiamo all’Odi et amo catulliano o al γλυκύπικρος di Saffo (il dolce et l’amaro ond’io mi pasco).
Or che ‘l ciel et la terra e ‘l vento tace
et le fere e gli augelli il sonno affrena,
Notte il carro stellato in giro mena
et nel suo letto il mar senz’onda giace,
vegghio, penso, ardo, piango; et chi mi sface
sempre m’è inanzi per mia dolce pena:
guerra è ‘l mio stato, d’ira et di duol piena,
et sol di lei pensando ò qualche pace.
Cosí sol d’una chiara fonte viva
move ‘l dolce et l’amaro ond’io mi pasco;
una man sola mi risana et punge;
e perché ‘l mio martir non giunga a riva,
mille volte il dí moro et mille nasco,
tanto da la salute mia son lunge.
Con Poliziano (Stanze I 60) rientriamo nell’ambito del notturno vero e proprio.
La notte che le cose ci nasconde
tornava ombrata di stellato ammanto:
e l’usignol sotto le amate fronde
cantando ripetea l’antico pianto;
ma solo a’ suoi lamenti Eco risponde,
ch’ogn’altro augel quetato avea già ’l canto:
dalla cimmeria valle uscian le torme
de’ sogni negri con diverse forme.
L’impressione è quella che ci sia tanta letteratura e poca verità in questo brano: alla movenza dantesca del verso iniziale (si tratta di una citazione da Paradiso XXIII 3) segue una folla di richiami mitologici. È una poesia intrisa di cultura, una poesia che nasce da un bisogno letterario, non dall’osservazione della realtà o da un’acuta introspezione di sé stessi. Il carattere astratto del passo è mostrato dal fatto che il poeta va alla ricerca di immagini e di riferimenti traendoli da un mondo che più non gli appartiene, come è appunto quello della mitologia classica. E si osserva facilmente che in nessuno dei brani che abbiamo esaminato si trova una quantità di richiami mitologici pari a quella che troviamo in Poliziano: paradossalmente, il primo a inserire richiami mitologici in una scena di notturno è Stazio, un imitatore di Virgilio dunque e un poeta di un’antichità ormai tarda e di una tradizione poetica prossima all’esaurimento, ma soprattutto di un periodo in cui la mitologia già è retaggio di un passato lontano e priva di senso vero per l’uomo. Nel brano di Poliziano il ricorso alla mitologia è soffocante, tale da spegnere ogni possibilità di ispirazione autenticamente sincera.
La descrizione della notte che troviamo in Torquato Tasso, Gerusalemme liberata II 96, prende nettamente le mosse da quella del libro IV Virgilio, tanto che potrebbe chiamarsi più propriamente una traduzione, o una rielaborazione, piuttosto che un riecheggiamento o un’imitazione:
Era la notte, allor ch’alto riposo
han l’onde e i venti, e parea muto il mondo.
Gli animai lassi, e quei che ’l mar ondoso
o dei liquidi laghi alberga il fondo,
e chi si giace in tana o in mandra ascoso,
e i pinti augelli, ne l’oblio profondo
sotto il silenzio de’ secreti orrori
sopian gli affanni e raddolciano i cori.
Un esame più attento rivela però particolari che permettono di misurare la distanza tra Virgilio e il Tasso. Riteniamo che l’apparente incongruenza tra il v. 3 i successivi (gli animai lassi, e quei ecc., come se si contrapponessero animali stanchi ad animali che non lo sono) possa risolversi collegando il primo e con gli e dei vv. 5 e 6, come inizio di una enumerazione che a sua volta costituisce una lunga apposizione di animai lassi: ciò non toglie che il tutto risulti di difficile lettura. Ma sono i vv. 7 e 8 che presentano il massimo allontanamento dal modello virgiliano: se in sopian gli affanni si avverte lontanamente lo spirito del virgiliano placidum carpebant soporem, il successivo raddolciano i cuori rappresenta una zeppa che si giustifica solo come completamento del verso e dell’ottava, portando per di più una nota leziosamente patetica, di cui si farebbe volentieri a meno. Ancora più significativo il v. 7 sotto il silenzio de’ secreti orrori: non è il mistero della sospensione della vita che il poeta sta contemplando, ma una realtà che cela qualcosa di oscuro e di cupo, e rispetto a questa realtà che già di per sé invita alla paura il silenzio aggiunge un’ulteriore nota di sgomento. Vi è un altro passaggio da considerare: parea muto il mondo ci dice il v. 2. Abbiamo visto come dalla lirica arcaica greca alla lirica ellenistica si sia passati dall’idea della quiete all’idea del silenzio (un passaggio che certo il Tasso non poteva conoscere, essendogli inaccessibile il passo di Alcmane, ma sembra che nel passaggio da Virgilio a Tasso si sia percorsa la medesima traiettoria): qui però vi è un passo ulteriore, dal silenzio come mancanza o cessazione di rumore al silenzio come incapacità di articolare voci o parole: non vi è il raggiungimento, o comunque l’accoglimento gradito, di una pausa al termine delle fatiche del giorno, vi è piuttosto l’idea di uno smarrimento, di una incapacità, almeno temporanea, ad affrontare la realtà e a comunicare. L’oblio profondo del v. 6 conferma quest’idea.
Se quella di Tasso era più libera traduzione che imitazione, quella di Annibal Caro, che traduzione dovrebbe essere, è più libera rielaborazione che traduzione: non solo essa è lontanissima dall’originale (tanto nella lettera quanto nello spirito), ma testimonia come spesso in quest’epoca il modo di accostare i classici (e di farli rivivere o di avvicinarli a sé nella traduzione) sia intriso di retorica: le parole si moltiplicano in un virtuosismo fine a sé stesso: siamo più prossimi al barocco e al marinismo che al mondo antico (che pure si dichiara a parole di voler assumere quale modello), e di Virgilio c’è al massimo qualche parola qua e là:
Era la notte, e già di mezzo il corso
cadean le stelle, onde la terra e il mare,
le selve, i monti e le campagne tutte
e tutti gli animali, i bruti e i pesci
e i volanti e i serpenti e ciò che vive
avea da ciò che la lor vita affanna
tregua, silenzio, oblio, sonno e riposo.
Ma non Dido infelice etc.
Nel XVII secolo il letterato e pastore luterano Paul Gerhardt (1607-1676), autore di Inni molto apprezzati (alcuni entrarono a far parte della tradizione liturgica luterana e furono musicati da Bach), scrive questo breve componimeto:
Nun ruhen alle Wälder
Vieh, Menschen und Felder,
Es schläft die ganze Welt
Ihr aber, meine Sinnen,
Auf, auf, ihr sollt beginnen
Was eurem Schöpfe wohlgefällt .
“Riposano ora tutte le selve,animali, uomini, città e campi:tutto il mondo dorme,ma voi, miei sensi,avanti, avanti, cominciatreciò che piace al vostro Creatore”.(Paul Gerhardt, 1607-1676).
Si direbbe un’imitazione diretta da Alcmane, se non fosse che all’epoca il passo di Alcmane non era accessibile, in quanto scoperto e pubblicato solamente un secolo dopo!
2. Il tema del notturno nella letteratura italiana ed europea
L’immagine della notte ricorre frequentemente e con gran varietà di motivi nella produzione poetica italiana e europea dal Settecento al Novecento.
Si tratta infatti di un tema costante nella letteratura universale che anche in Europa nel periodo indicato compare con alterne fortune e con diversi significati. Più che soffermarsi sulla dimensione quantitativa del fenomeno, si è preferito individuare i più interessanti accenti che il notturno ha assunto per gli autori del periodo considerato. In particolare sembra di poter evidenziare le diverse sfumature che il tema presenta attraverso l’esame di alcuni forti pensieri:
– L’idea, peraltro antica, che vede meglio la verità delle cose, chi non ne vede la forma, è determinante per la fortuna del notturno.
– È inoltre ricorrente pensare la notte come momento preferenziale in cui l’uomo si immerge nel mistero che lo avvicina all’Essere o in cui è più facile conoscere le zone d’ombra della psiche umana.
– L’orrore e la paura che ancestralmente il buio suscita diventano occasioni per produrre poesia che rappresenta e suscita forti emozioni.
– La notte è il momento preferenziale del sonno che sospende la coscienza di sé e attraverso il sogno vengono liberati i pensieri dell’inconscio rendendo possibile la rappresentazione di realtà diversamente inspiegabili.
– Di notte si interrompe il controllo diurno sull’istintività e la sensualità e si conoscono realtà altrimenti occultate dalla solarità.
Seguendo questi importanti fili di pensiero quindi è stata realizzata nel corso dei secoli una produzione molteplice nelle forme e nei contenuti.
La tradizione classica fa confluire nella letteratura moderna una visione topica fondamentale del notturno e della notte, quale cioè momento di quiete e di pace in cui gli elementi naturali e descrittivi, immersi nel silenzio e nell’oscurità, propagano tranquillità nell’animo dell’uomo. Goethe riprende il topos classico in una composizione dal titolo Canto notturno del viandante scritta nel 1780: la quiete della notte diffusa in tutta la natura viene trasferita anche al poeta:
Über allen Gipfeln
ist Ruh,
in allen Wipflen
spürest du
kaum einen Hauch.
Die Vögelein schweigen im Walde.
Warte nur: balde
ruhest du auch.
Su tutte le vette | è pace, | in tutte le cime | trasenti | appena un respiro. | I piccoli uccelli tacciono nel bosco. | Aspetta un poco, presto | riposerai anche tu. (trad. B. Tecchi).
Su tutte le vette | è quiete; | in tutte le cime degli alberi | senti un alito | fioco; | gli uccelli son muti nel bosco. | Aspetta, fra poco | riposi anche tu. (trad. G. Orelli) 1.
Goethe aveva trattato il tema della notte anche in altre liriche. Die schöne Nacht, una composizione giovanile (1768 circa) è meno attinente al nostro assunto: si tratta di una lirica d’amore, destinata a essere messa in musica da B. T. Breitkopf 2, nella quale la descrizione della notte, pure intensa , è comunque subordinata alla manifestazione del proprio sentimento e soprattutto allo spunto finale, pervaso insieme di tenerezza e di ironia («O cielo, io ben ti darei | cento di queste notti | se la mia bella me ne donasse una»). Un’altra lirica, che ha lo stesso titolo del Wanderers Nachtlied già citato, fu composta nel 1776 (per la precisione il 12 febbraio): non è un notturno, ma una preghiera, la preghiera del viandante che stanco di un affannarsi in cui l’alternanza di gioia e dolore pare alla fine defatigante e vuoto di senso domanda per sé la pace (Süsser Freide). Il Wanderers Nachtlied che abbiamo citato è la composizione più nota di questo gruppo: secondo quanto ci dicono le biografie del poeta, questi versi furono scritti a matita il 7 settembre 1780 sulla parete di un capanno di caccia in una montagna nei pressi di Weimar, e soltanto nel 1815 furono accolti dal poeta nell’edizione delle sue liriche. Si racconta che una sera di molti anni dopo, il 26 agosto 1831, Goethe venne accompagnato da amici su quella stessa montagna e si recò nella stanza dove ricordava di avere scritto quei versi: come li vide, pianse e dopo qualche istante lesse con tono malinconico gli ultimi due versi della breve lirica. Se nei primi versi sembra rivivere lo spirito di Alcmane, per il senso di pace e di silenzio che pervade la solenne contemplazione della natura, gli ultimi due versi riprendono il tema del contrasto tra la quiete della natura e l’inquietudine dell’uomo, ma non in termini drammatici: non c’è più un ‘ma’, c’è solo la speranza, che è insieme anche una certezza, di poter corrispondere a questa calma: è solo questione di un attimo di attesa (Warte nur: balde…) prima di poter raggiungere questo placarsi delle passioni e delle ansie umane nella pace. Abbiamo detto che nei primi versi si risente lo spirito di Alcmane: sembra anzi (ma non vorremmo con questo dare l’impressione di un giudizio di natura estetica, che sarebbe al di fuori dei nostri intendimenti) che questa lirica si avvicini ad Alcmane più di tutte le altre descrizioni di notturni viste finora, tutte filiazione, o dirette o per interposta persona (Virgilio o Dante), del lirico greco: teoricamente si potrebbe pensare che Goethe avesse letto Alcmane, dal momento che il Wanderers Nachtlied segue di tredici anni la pubblicazione del frammento: ma sia la lettera dei versi sia la modalità con cui il frammento nacque rende improbabile quest’ipotesi. Paradossalmente, la lirica che più facilmente accosteremmo al frammento di Alcmane è quella che pare meno condizionata da reminiscenze letterarie, meno filtrata attraverso una tradizione di riprese e di imitazioni3.
Un motivo analogo è ravvisabile nel seguente brano di Vincenzo Monti (Pensieri d’amore 8) scritto nel 1783, ove Contini ha sottolineato l’influsso di Eneide III 147 e IV 522 (leggi tutto il componimento):
Alta è la notte, ed in profonda calma
Dorme il mondo sepolto, e in un con esso
Par la procella del mio cor sopita.
Al Foscolo la quiete serale è cara in quanto prefigurazione della quiete della morte (della fatal quïete tu sei l’imago, nel sonetto famoso intitolato appunto La sera).
La contemplazione del paesaggio notturno tra terra e mare sotto lo spicchio di luna si ritrova in una poesia di un famoso quartetto di liriche “notturne” scritte nel 1882 da D’Annunzio che segnano la pausa di riposo dal mito solare e meridiano tipico del poeta. Gli elementi naturali sono quelli consueti del notturno classico (luna, mare deserto, aneliti di vento, silenzio profondo, sonno) chiaramente rivisitati dall’acutezza sensuale del poeta e dalla tendenza a antropomorfizzare il mondo vegetale:
O falce di luna calante
che brilli sull’acque deserte,
o falce d’argento, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore quaggiù!
Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe ‘l vasto silenzio va.
oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
Anche in un breve quadro notturno di Quasimodo (Terra, nella raccolta giovanile Acque e terre, confluita poi nel 1936 nella più ampia Ed è subito sera) gli elementi provenienti dalla tradizione classica (notte, vento, mare) si mescolano a quelli tipicamente meridionali che richiede il componimento dedicato alla Sicilia (vele, reti dei pescatori, canti, monti aridi, mandrie e greggi); la serenità del quadro notturno contrasta però qui con la condizione del poeta che esule soffre di nostalgia per la sua terra:
Notte, serene ombre,
culla d’aria,
mi giunge il vento se in te mi spazio,
con esso il mare odore della terra
dove canta alla riva la mia gente
a vele, a nasse,
a bambini anzi l’alba desti.
Monti secchi, pianure d’erba prima
che aspetta mandrie e greggi,
m’è dentro il male vostro che mi scava.
Nella letteratura romantica europea le tematiche notturne hanno avuto un’enorme diffusione per ragioni profonde, legate sia al processo di esplorazione dell’irrazionale che il Romanticismo attua anche in contrapposizione all’Illuminismo razionalista, sia al senso del mistero che in epoca romantica diventa quasi una religione e che la notte rende più vivo.
Il filosofo (nonché filologo, linguista e teologo) tedesco Johann Georg Hamann (1730-1788), autore fra l’altro di un’opera intitolata Officium Tenebrarum,aveva celebrato la notte come momento in cui la filosofia del sentimento si contrappone al regno di una sola verità solare e diurna tipica del razionalismo illuminista. La notte così concepita è dei poeti, gli unici capaci di cogliere l’essenza del reale e della vita .
Il poeta tedesco Novalis nei suoi Inni alla notte (Hymnen an die Nacht), scritti fra il 1797 e 1798 (e pubblicati nel 1800), rende materia poetica proprio questo contrasto fra la vita terrena e diurna, con tutti i suoi valori apparenti e la realtà vera che la notte rivela. Nel primo dei sei Inni, dice proprio del sopraggiungere della notte astronomica come momento in cui il poeta sperimenta quelle vibrazioni interiori che gli permettono di immergersi nell’essere e conoscere l’ineffabile. Dopo una parte iniziale in cui è celebrata la luce del giorno vivificatrice degli esseri, il poeta passa a considerare la notte costruendo un’antitesi fra luce e tenebra:
Abwärts wend ich mich Zu der heiligen, unaussprechlichen Geheimnißvollen Nacht – Fernab liegt die Welt, Wie versenkt in eine tiefe Gruft Wie wüst und einsam Ihre Stelle! Tiefe Wehmuth Weht in den Sayten der Brust Fernen der Errinnerung Wünsche der Jugend Der Kindheit Träume Des ganzen, langen Lebens Kurze Freuden Und vergebliche Hoffnungen Kommen in grauen Kleidern Wie Abendnebel Nach der Sonne, Untergang. | Da lei mi distolgo e mi volgo Verso la sacra, ineffabile misteriosa notte. Lontano giace il mondo – perso in un abisso profondo –l a sua dimora è squallida e deserta. Malinconia profonda fa vibrare le corde del mio petto. Lontananze della memoria, desideri di gioventù, sogni dell’infanzia, brevi gioie e vane speranze di tutta la lunga vita vengono in vesti grigie, come nebbie della sera quando il sole è tramontato. |
L’immersione nel mondo notturno è per il poeta il modo per allontanare il quotidiano, il diurno, il mondo dell’apparenza dilatando la prospettiva in cui la mente spazia senza tempo. L’allentarsi del livello della coscienza è favorito da uno dei doni della notte, l’oppio ricavato dai papaveri:
Da noi ricevi anche tu godimento,
o tenebrosa notte?
Quale cosa tu porti
sotto il tuo manto,
che gagliarda e non vista
all’anima mi giunge?
Delizioso balsamo
dalla tua mano stilla,
dal mazzo di papaveri.
La notte permette all’uomo di aprire gli “occhi” dell’anima che vedono ciò che umanamente, cioè alla luce diurna, non è possibile vedere: l’essenza profonda della realtà e le anime di coloro che stanno al di là della vita (per il poeta l’amata prematuramente morta a cui gli inni sono dedicati):
Le gravi ali dell’anima tu innalzi.
Noi ci sentiamo oscuramente
e ineffabilmente agitati –
… Come infantile e misera
mi sembra ora la luce –
come grato e benedetto
l’addio del giorno. –
… Più divini che gli astri fulgenti,
a noi sembrano gli occhi infiniti
che la notte in noi schiuse
Più lontano essi vedono
che i più pallidi astri
di quella schiera infinita –
non bisognosi di luce
scorgono essi il profondo
di uno spirito amante.
Anche il secondo degli Inni di Novalis è esemplificativo delle variazioni romantiche sul tema del notturno. Alla notte sono attribuite caratteristiche trascendenti:
… Fu misurato alla luce il suo tempo;
ma il regno della notte è senza tempo
e senza spazio.
Anche il sonno, dono della notte, assume la caratteristica dell’eternità perché rende partecipe del divino chi appartiene alla comunità iniziatica dei fedeli della notte:
– Eterno dura il sonno.
Sonno santo –
non fare troppo raramente lieti
i consacrati alla notte
in questa terrestre
quotidiana fatica.
Soltanto i folli non ti riconoscono
e di te nulla sanno se non l’ombra
che tu spandi su di noi pietosamente
nel crepuscolo
della notte vera.
Il sonno quindi è onirico e attraverso il sogno si rende manifesta la realtà invisibile:
Non indovinano
che uscita da antiche leggende
tu avanzi e schiudi i cieli,
portando la chiave
dei soggiorni beati,
silenzioso araldo
di misteri infiniti.
(per leggere il testo integrale tedesco degli Inni alla Notte di Novalis clicca qui).
Con la produzione romantica il sogno diventa uno dei temi dominanti del notturno. Agli inizi dell’Ottocento Heinrich von Schubert4 riconosce al sogno un linguaggio diverso da quello abituale, il linguaggio dell’anima, avviando la riflessione che successivamente Freud svilupperà sulla funzione del sogno come pensiero inconscio. Un altro aspetto dei notturni di Novalis è il motivo della distanza che la notte pone fra l’io del poeta e gli elementi interiori e esteriori . Le tenebre allontanano il reale e evocano da lontano le immagini della memoria; questa dilatazione dello spazio e del tempo operata dalla notte, che fa uscire l’uomo dal limite del presente, crea l’effetto poetico.
Anche Leopardi, pur partendo da presupposti diversi, esprime bene i motivi di tale effetto poetico in due passi dello Zibaldone:
…il poetico in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago…le parole notte, notturno ecc. le descrizioni della notte ecc. sono poeticissime, poiché la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sia di essa che di quanto ella contiene. Così oscurità profondo ecc.» e ancora dopo aver analizzato il suono e i suoi effetti riguardo all’idea di infinito dice: «…udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi non arrivano a determinare né circoscrivere la sensazione e le sue concomitanze…vedi in questo proposito Virgilio, Eneide VII v. 8 e segg. La notte o l’immagine della notte è la più propria ad aiutare o anche a cagionare detti effetti del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata. (Zibaldone, 1929-30, 16 ottobre 1821).
In un altro passo dello Zibaldone viene ripresa la valenza emotiva del canto udito di notte da lontano; il silenzio notturno emerge per contrasto col canto e proprio il canto che attraversa il silenzio della notte suscita nell’animo del poeta il moto del ricordo che fa affiorare il passato e scatena l’effetto poetico:
Dolor mio nel sentir a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco. (Zibaldone, 50-51)
La sera del dì di festa è il componimento maggiormente collegato a queste riflessioni, e più in generale al fascino che il notturno ha esercitato su Leopardi. L’incipit riprende un passo dell’Iliade (VIII 555-59) che Leopardi conosceva bene :
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna.
L’incanto della notte non si esaurisce in questi primi versi, ma continua con la presentazione del sonno quieto della donna ignara del dolore inferto al poeta e in generale della apparente tranquillità della natura notturna:
O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dorni: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente
che mi fece all’affanno.
Il notturno dunque è lo scenario dolce e struggente della disperazione del poeta. Tuttavia nei versi successivi già si intravedono riferimenti a un pessimismo più universalizzato, foriero delle meditazioni successive del Leopardi sull’irraggiungibilità della felicità come condizione umana. Si tratta dei riferimenti alla nullità di ogni cosa umana e al trascorrere inesorabile del tempo presentato come tempus edax secondo il topos classico, già passaggio obbligato delle riflessioni notturne del poeta pre-romantico. Il componimento si chiude con una immagine dell’infanzia filtrata dal ricordo, lo scenario notturno, sfondo della disperazione del poeta, è identico: la notte è fonda, il silenzio è segnato da un canto che si perde allontanandosi nel buio:
ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.
Il notturno dunque è nei passi sia di Novalis sia di Leopardi il momento dell’agnizione circa la verità della condizione umana.
Descrizioni della sera e della notte si trovano anche nei Promessi Sposi di Manzoni. In un passaggio famoso del capitolo VII Manzoni si sofferma sul momento che preannuncia la quiete (la quiete solenne della notte): predominante è la presenza umana, e soprattutto il sussulto di vita che precede la pausa della notte (il brulichio, il ritrovarsi della gente, i discorsi dagli usci delle case, la partecipazione delle proprie preoccupazioni, i ritocchi misurati e sonori della campana).
C’era in fatti quel brulichío, quel ronzío che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e sulla miseria dell’annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno.
Una più forte presenza dell’elemento naturale si avverte alla fine del capitolo VIII: non è stata una notte di quiete, ma una notte degli imbrogli: è sopravvenuta la quiete della natura, ma Renzo, Lucia e Agnese sono costretti a lasciare le proprie case per evitare il pericolo che incombe. Nuovamente il contrasto fra la quiete della natura e la veglia di alcuni: ma non è una quiete assoluta, perché si percepisce il fluire delle onde, e l’immagine della luna, che si specchia nel lago, tremola e ondeggia. Anche il suono è come vellutato, ma non del tutto scomparso, e si distingue il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido dal gorgoglío più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte: a questi rumori s’aggiunge quello del remo che frange la superficie azzurra del lago. Sembra quasi che non vi sia separazione tra l’elemento naturale e la presenza umana: il rumore dei remi si sovrappone al rumore, o meglio ai rumori del lago: e la presenza umana viene sottolineata da quel s’udiva, che, pur nella sua espressione impersonale, sposta l’attenzione del lettore dal paesaggio ai protagonisti umani, in quanto implica che vi sia qualcuno che ode i rumori lievi, ma ingigantiti dal profondo silenzio. E il farsi presente dei protagonisti umani avviene gradualmente: l’inizio affermava l’assoluta immobilità del paesaggio; poi si era notato che questa immobilità è soltanto apparente (sarebbe parso immobile, se non…); poi si avvertiva anche il rumore del lago, e ancora dopo si avverte che oltre a questo rumore ce n’è un altro, quello dell’acqua che si frange sulle pile del ponte (S’udiva, non S’udivano: dunque prima uno, e solo una più attenta percezione ne fa avvertire un altro più lontano): infine il rumore ritmato dei remi. Come i rumori presumono la presenza di chi li percepisce (S’udiva), così anche il paesaggio si rivela e si delinea in modo sempre più nitido man mano che gli occhi dei tre personaggi mettono a fuoco gli elementi che lo compongono: prima i monti, poi il paese rischiarato dalla luna, e infine si distinguevano le case, fino al palazzotto di don Rodrigo. Se nel mondo classico abbiamo trovato descrizioni di notturni che erano per così dire obiettive, perché rappresentavano la voce del poeta, qua abbiamo una scena notturna vista con gli occhi dei passeggeri silenziosi che si stanno allontanando dalle loro case, strappati da una violenza e vittime di una separazione che solo dopo anni e dopo traversie dolorose potrà ricomporsi.
Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglío più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto.
Un riecheggiamento, più o meno consapevole, di questo passo si ha in un breve passaggio del Piccolo mondo antico di Fogazzaro: si noti però l’aggettivazione (silenzio religioso della notte): il Fogazzaro ritiene di dover chiarire in modo esplicito un elemento che il Manzoni aveva fatto percepire al lettore in modo vivo e palpabile, offrendogli un passaggio in cui tutto cospirava per affermare il carattere religioso di quel silenzio notturno che si fondeva con la riflessione muta dei tre personaggi.
E gli dava noia quello stormir delle frasche al suo passaggio; gli pareva che dovesse udirsi lontano, sui monti e sul lago, nel silenzio religioso della notte.
Di segno diverso è la letteratura notturna che si sviluppa in Inghilterra a partire dal Settecento e che predilige visioni cupe e orride della notte, ove l’inquietudine dello spirito non viene dalla riflessione del poeta favorita dal momento notturno, ma dall’esterno; la malinconia, l’angoscia dell’uomo non sono strumenti cognitivi del mistero dell’essere, ma sono oggettivate nell’ambiente e nel paesaggio.
Le poesie di Ossian, pubblicate nel 1773, offrono passi preziosi per l’immissione nella lirica europea di quelli che diventeranno i motivi più tipici della letteratura notturna di gusto romantico: oscurità, sepolcri e rovine, solitudine del viandante, elementi naturali minacciosi, inquietanti presenze animali e sovrannaturali quali il canto ferale del gufo, l’ululato dei cani, spiriti vaganti:
Trista è la notte, tenebrìa s’aduna,
Tingesi il cielo di color di morte:
Qui non si vede nè stella, nè luna,
Che metta il capo fuor dalle sue porte.
Torbido è ‘l lago, e minaccia fortuna,
Odo il vento nel bosco a ruggir forte.
Giù dalla balza va scorrendo il rio
Con roco lamentevol mormorìo.
Su quell’alber colà, sopra quel tufo,
Che copre quella pietra sepolcrale,
Il lungo-urlante ed inamabil gufo
L’aer funesta col canto ferale.
…
Notte pregna di nembi e di venti,
Notte gravida d’urli e spaventi!
(Ossian, La notte, vv. 1 ss.)
(Per leggere l’intero componimento clicca qui)
Anche l’apostrofe ossianica alla luna sviluppata nei versi iniziali del Poema di Dartula influirà sulle meditazioni romantiche svolte alla luce pallida della luna sul significato e il destino del cosmo di cui la più nota è l’apostrofe del pastore errante leopardiano:
Figlia del ciel, sei bella; è di tua faccia
Dolce il silenzio; amabile ti mostri,
E in oriente i tuoi cerulei passi
Seguon le stelle; al tuo cospetto, o Luna,
Si rallegran le nubi, e ‘l seno oscuro
Riveston liete di leggiadra luce.
Chi ti pareggia, o della notte figlia,
Lassù nel cielo? in faccia tua le stelle
Hanno di sé vergogna, e ad altra parte
Volgono i glauchi scintillanti sguardi,
Ma dimmi, o bella luce, ove t’ascondi
Lasciando il corso tuo, quando svanisce
La tua candida faccia? Hai tu, com’io,
L’ampie tue sale? o ad abitar ten vai
Nell’ombra del dolor? Cadder dal cielo
Le tue sorelle? o più non son coloro
Che nella notte s’allegravan teco?
Sì sì luce leggiadra, essi son spenti,
E tu spesso per piagnerli t’ascondi.
Ma verrà notte ancor, che tu, tu stessa
Cadrai per sempre, e lascierai nel cielo
Il tuo azzurro sentier; superbi allora
Sorgeran gli astri, e in rimirarti avranno
Gioja così, com’avean pria vergogna.
Nei primi versi della quarta parte del Giorno di Giuseppe Parini, La Notte, scritti negli anni Settanta, c’è una rappresentazione della notte ricca dei principali topoi della letteratura notturna del preromanticismo inglese: teschi, uccelli sinistri, fiamme e fantasmi svolazzanti. Il poeta si rivolge alla notte antica e la descrive con toni così marcati che nel contesto del brano diventano quasi caricaturali, ma ciò che interessa all’autore è evidenziare il contrasto con la notte moder¬na snaturata dalla luce artificiale che accompagna gli ozi del giovin signore:
Già di tenebre involta e di perigli,
Sola squallida mesta alto sedevi
Su la timida terra. Il debil raggio
De le stelle remote e de’ pianeti,
Che nel silenzio camminando vanno,
Rompea gli orrori tuoi sol quanto è duopo
A sentirli assai più. Terribil ombra
Giganteggiando si vedea salire
Su per le case e su per l’alte torri
Di teschi antiqui seminate al piede.
E upupe e gufi e mostri avversi al sole
Svolazzavan per essa; e con ferali
Stridi portavan miserandi augurj.
E lievi dal terreno e smorte fiamme
Sorgeano in tanto; e quelle smorte fiamme
Di su di giù vagavano per l’aere
Orribilmente tacito ed opaco;
…
E fama è ancor che pallide fantasime
Lungo le mura de i deserti tetti
Spargean lungo acutissimo lamento,
Cui di lontano per lo vasto buio
I cani rispondevano ululando.
(vv. 3 ss., 24 ss.)
Il poeta che però forse più d’ogni altro ha diffuso il gusto per gli spettacoli naturali grandiosi e inquietanti, fra cui appunto la notte, è stato Byron. Manfredi, il protagonista di uno dei drammi in versi del poeta inglese, nell’ultimo atto dell’opera, dall’alto di una torre celebra il fascino della notte soprattutto quando avvolge rovine abbandonate e il suo silenzio è interrotto da lontani gridi degli uccelli notturni:
The stars are forth, the moon above the tops Of the snow-shining mountains.– Beautiful! I linger yet with Nature, for the night Hath been to me a more familiar face Than that of man; and in her starry shade Of dim, and solitary loveliness, I learn’d the language of another world. | Le stelle sono apparse nel firmamento e la luna brilla sulle cime dei monti rilucenti di neve. – – Magnifico! Io m’indugio ancora a contemplare la natura, perché la notte ha sempre avuto per me un aspetto più famigliare di quello dell’uomo; e nell’ombra stellata della sua severa e solitaria bellezza ho appreso il linguaggio di un altro mondo. |
Attraverso il ricordo Manfredi evoca un notturno perfettamente romantico sulle rovine di Roma antica:
I do remember me, that in my youth, When I was wandering,– upon such a night I stood within the Coloseum’s wall, Midst the chief relics of almighty Rome. The trees which grew along the broken arches Waved dark in the blue midnight, and the stars Shone through the rents of ruin; from afar The watchdog bay’d beyond the Tiber; and More near from out the Caesars’ palace came The owl’s long cry And thou didst shine, thou rolling moon, upon All this, and cast a wide and tender light, Which soften’d down the hoar austerity Of rugged desolation, and fill’d up, As ‘twere anew, the gaps of centuries; | Mi ricordo, nella mia gioventù quando viaggiavo, che in una notte simile a questa, mi trovavo nel recinto del Colosseo, circondato dai più importanti resti dell’onnipotente Roma; gli alberi che sorgevano lungo gli archi spezzati ondeggiavano neri nella serena notte, e le stelle brillavano attraverso gli squarci delle rovine; lontano si sentiva l’abbaiare dei cani, oltre il Tevere, e più vicino, dal Palazzo dei Cesari, veniva il lungo grido della civetta … E tu risplendevi, vagante luna, su tutto questo e spandevi una luce ampia e mite che addolciva la severa austerità di quella desolazione e riempiva i vuoti prodotti dai secoli, sì che tutto appariva nuovo . |
Presenta una visione della notte inquietante anche Hölderlin (1770-1843), poeta esponente del neo-classicismo romantico tedesco, ma con un diverso significato. Per il poeta tedesco infatti la notte, il buio sono condizioni dell’esistenza presente che è negativa per l’uomo. La notte quindi è caos, è immagine del disordine esistenziale dell’individuo e del mondo moderno: e in glaciale notte si azzuffano gli uragani. Il presente è in antitesi al passato, a un mondo lontano, solare e armonico vagheggiato con nostalgia.
Dalla metà del Settecento il notturno si lega anche al tema della morte e tale accostamento è accompagnato dai motivi tipici della meditazione sulla tomba: il mistero dell’oltretomba e la caducità della vita. La poesia sepolcrale di gusto romantico svilupperà ampiamente questi temi. Si crea nello stesso periodo il topos del poeta che nel suo vagare pensoso è accompagnato solo dalla notte .
Nella poesia Il canto della tenebra di Dino Campana, pubblicata nella raccolta Canti orfici nel 1914, un paesaggio notturno fa da sfondo a immagini tradizionalmente legate alla notte: la dolcezza delle tenebre, il fascino della morte, l’evocazione di un amore perduto, il rumore dello scorrere di acque e il movimento del vento. Queste immagini però sono presentate dal poeta in ordine sparso e alogico, in un testo tutto gremito di iterazioni secondo un modo di far poesia moderno, in continuazione col gran simbolismo francese:
La luce del crepuscolo si attenua:
inquieti spiriti sia dolce la tenebra
al cuore che non ama più!
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
sorgenti, sorgenti che sanno
sorgenti che sanno che spiriti stanno
che spiriti stanno a ascoltare…
Ascolta: la luce del crepuscolo attenua
ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:
ascolta: ti ha vinto la sorte:
ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte:
non c’è di dolcezza che possa uguagliare la morte
più più più
intendi chi ancora ti culla:
intendi la dolce fanciulla
che dice all’orecchio: Più Più.
L’immersione nel mondo notturno e onirico è una struttura tematica dominante delle poesie e delle prose poetiche di Campana. In un altro testo importante dei Canti orfici, La chimera, egli infatti si definisce poeta notturno che veglia, osserva il cielo e attende l’ispirazione-chimera:
…io poeta notturno
vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo…
Il motivo sembrerebbe romantico, ma la notte ha una valenza diversa per Campana, è il luogo dell’istinto e dell’inconscio nella quale appaiono figure sensuali, luoghi di piacere trasfigurati dalla visionarietà del poeta. In un passo del testo che apre i Canti orfici, La notte, viene descritta appunto una casa di piacere:
Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito fioriscono sfioriscono bianchezze di trine. La portiera nello sfarzo smesso di un giustacuore verde, le rughe del volto più dolci, gli occhi che nel chiarore velano il nero guarda la porta d’argento. Dell’amore si sente il fascino indefinito…
Nel finale lo sguardo torna all’esterno dove domina la notte «chiomata di mu¬ti canti, pallido amor degli erranti». Ancora osserviamo in filigrana un legame con la tradizione ottocentesca nella menzione degli erranti (che riprende gli uomini vaganti come spettri della sezione precedente), ma c’è soprattutto la stilizzazione moderna dell’uomo che si muove nella realtà con un vagare da sonnambulo.
Nella poesia di Giovanni Pascoli i temi della sensualità, dell’esperienza amorosa, della trasgressione altrimenti taciuti emergono con la complicità della notte. Di grande interesse in questo senso è il componimento Il gelsomino notturno (nei Canti di Castelvecchio), uno dei più originali risultati della poesia simbolista del Pascoli. L’occasione è il matrimonio di un intimo amico del poeta, ma i dati concreti sono decifrabili solo in filigrana al di là della trama di impressioni, di immagini apparentemente disordinate e casuali. Il tema di fondo è l’eros e il turbamento che viene dalla percezione della propria esclusione da esso, la notte offre quella pluralità di immagini che analogicamente si collegano al tema centrale (i fiori notturni che si aprono, le farfalle crepuscolari, il silenzio della natura e il sommesso bisbigliare dei due sposi nella casa, il forte profumo di fragole rosse eroticamente allusivo, il lume della camera nuziale che si spegne etc.):
E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.
…
Per tutta la notte si esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…
È l’alba si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta
non so che felicità nuova.
Anche nel poemetto Il chiù (nei Nuovi poemetti) in uno scenario notturno carico di accenni alla sessualità (La notte in cielo risplendea serena: / tra cielo e terra un murmure uno spesso / palpito, l’onda di un’assidua lena) vengono descritte le sensazioni cariche di angoscia di Viola che passa la prima notte della sua vita senza la sorella Rosa, non perché morta, come sembrerebbe dire allusivamente la prima parte del poemetto fitta di immagini funebri, ma perché si è sposata. Ancora dunque il tema erotico, qui evidente nelle allusioni alla perdita della verginità (i fiori appassiti, la piaga tenera e mortale), di notte tormenta Viola, la sorella che non ha infranto l’etica famigliare rimanendo nel “nido” e con lei tormenta il poeta:
Splendea lassù la gran luce di Sirio.
Recava odor di fiori pesti il vento.
“Ell’era andata a chissà qual martirio!
Ora dov’era? A lume acceso o spento?
…
Ella doveva ora vegliar nel letto
sola con lui! Senza sperare aiuto!”
Viola i panni si stringea al petto.
“Che cosa avrebbe egli da lei voluto?
Qual piaga dare tenera e mortale
a quelle carni bianche, di velluto?
Qual pianto fa di quel ch’è ora, e quale
rimpianto mai di quel ch’un giorno fu!…”
Col mesto verso eternamente uguale
le rispondeva di lontano il chiù.
Il ripetuto verso del chiù è presagio di morte come già ne L’assiuolo (in Myricae) ove immerso nella notte il verso dell’animale apre un varco fra mondo sensibile e al di là.
Proponendo, ancora da Pascoli, una rilettura del tema, nella lirica Notte dolorosa, compresa in Myricae, che ci porta più vicini all’archetipo di Alcmane:
Si muove il cielo, tacito e lontano:
la terra dorme, e non la vuol destare;
dormono l’acque, i monti, le brughiere.
Ma no, ché sente sospirare il mare,
gemere sente le capanne nere:
v’è dentro un bimbo che non può dormire:
piange; e le stelle passano pian piano.
Il tema del notturno, affermato secondo i canoni tradizionali nei vv. 2-3, è risolto in modo nuovo nella parte finale della composizione: la quiete e il silenzio della notte sono rotti dal pianto di un bimbo che non può dormire: la natura assiste quasi partecipe. Il tema del contrasto, affermato in maniera vigorosa al v. 4 (Ma no, ché) viene così rinnovato con una proposta originale, e coerente con la sensibilità e il mondo poetico pascoliano.
Il “vagare da sonnambulo” è un’immagine ricorrente nella poesia del Novecento per rappresentare la condizione alienata dell’uomo. In Rapsodia su una notte di vento di T. S. Eliot (1915) il personaggio protagonista si aggira come in un’allucinazione per tutta la notte fra immagini e ricordi caotici in un paesaggio urbano notturno illuminato dalla luce lunare, ma in modo innaturale:
Twelve o’clock. Along the reaches of the street Held in a lunar synthesis, Whispering lunar incantations Dissolve the floors of memory And all its clear relations, Its divisions and precisions, Every street lamp that I pass Beats like a fatalistic drum, And through the spaces of the dark Midnight shakes the memory As a madman shakes a dead geranium. | Mezzanotte. Per tutti i rettilinei delle strade serrate in una sintesi lunare, incanti lunari che bisbigliano dissolvono i piani della memoria e tutte le sue chiare relazioni, le sue divisioni e precisioni, ogni lampione che oltrepasso batte come un tamburo fatale, e attraverso gli spazi del buiol a mezzanotte scuote la memoria come un pazzo scuote un geranio appassito. |
La passeggiata notturna continua scandita dal susseguirsi delle ore, ma l’uomo non ha la capacità di cogliere la realtà e il tempo, cammina senza riferimenti in un mondo degradato (come se il mondo portasse in superficie / il segreto del suo scheletro) in cui anche la luna ha perduto il suo incanto:
“Regard the moon, La lune ne garde aucune rancune, She winks a feeble eye, She smiles into corners. She smoothes the hair of the grass. The moon has lost her memory. A washed-out smallpox cracks her face, … She is alone With all the old nocturnal smells That cross and cross across her brain.” | Guarda la luna” La luna non tiene alcun rancore” strizza il suo occhio languido, sorride negli angoli. Liscia la chioma dell’erba. La luna ha perduto la memoria. Un vaiolo slavato le screpola la faccia … È sola con tutti gli antichi profumi notturni che le incrociano e incrociano dentro il cervello… |
Al v. 51 il poeta richiama un passaggio di Jules Laforgue, Complainte de cette Bonne Lune (“Là, voyons, mam’zell la Lune, / Ne gardons pas ainsi rancune”) (Poésies complètes, Paris, 1970, pag. 44).
Questa luna sembra il residuo degradato della luna dei notturni antichi, ma non ricorda più nulla, del suo passato persiste solo il profumo che quasi la ossessiona. Nella poesia del Novecento quindi l’immagine della notte ricorre se non con la frequenza dell’epoca romantica, con una profondità di temi che ne rivelano pur sempre il forte valore evocativo.
Una diversa immagine della luna ci offre il sonetto A Virgilio di Carducci (scritto nel 1862 e compreso nelle Rime nuove):
Come quando su’ campi arsi la pia
Luna imminente il gelo estivo infonde,
Mormora al bianco lume il rio tra via
Riscintillando tra le brevi sponde;
E il secreto usignuolo entro le fronde
Empie il vasto seren di melodia,
Ascolta il viatore ed a le bionde
Chiome che amò ripensa, e il tempo oblia;
Ed orba madre, che doleasi in vano,
Da un avel gli occhi al ciel lucente gira
E in quel diffuso albor l’animo queta;
Ridono in tanto i monti e il mar lontano,
Tra i grandi arbor la fresca aura sospira:
Tale il tuo verso a me, divin poeta.
Le modalità con cui il Carducci svolge il tema della notte sono lontane da quelle che abbiamo visto in precedenza. Il componimento si svolge in un unico ampio periodo, e il termine di paragone della lunga similitudine occupa il solo verso finale e appare sintatticamente sbilanciato, in quanto sullo stesso piano del soggetto il tuo verso viene collocato non un sostantivo, bensì una serie di proposizioni temporali variamente coordinate tra di loro (come quando … e … e … Tale il tuo verso). Più che notare la mancanza di segni di vita, il poeta mira a cogliere e isolare le manifestazioni di vita presenti nella luminosa notte estiva, alla cui serenità e armonia viene paragonata, quasi fosse un punto di riferimento spontaneo, la poesia virgiliana. Se nelle precedenti descrizioni la parola chiave era dormono oppure tacciono, qui la parola chiave è ridono (v. 12 Ridono in tanto i monti e il mar lontano). È stato detto che Carducci sembra ricercare i temi romantici nella poesia virgiliana (la luna, l’usignolo, la scena sepolcrale, i monti, il mare). Certo è rifluito nel sonetto molto materiale di provenienza classica, e in particolare virgiliana, a partire dalla movenza iniziale per cui, con innovazione sorprendente e gradevole, è trasferita sulla luna l’attributo di pia, l’aggettivo che definisce nel modo più autentico possibile il mondo di valori proprio di Virgilio, fino al verso finale, che rappresenta la traduzione di un verso virgiliano (Ecl. 5, 45)5. Vi sono però anche reminiscenze classiche, ma non virgiliane: ai vv. 11-13 l’immagine della madre privata del figlio discende da Apollonio Rodio, ed è interessante vedere come il motivo di ascendenza classica sia trattato diversamente dal poeta: mentre Apollonio Rodio aveva descritto la madre che trovava in un innaturale assopimento requie dal proprio dolore («anche la madre che aveva perduto i suoi figli era immersa in un profondo sopore»),
Carducci ritrae la madre che trova consolazione non nel sonno, ma nell’atmosfera di serenità e nella luce soffusa che la circonda (in quel diffuso albor l’animo queta): ma sul motivo classico s’innestano chiare reminiscenze foscoliane, perché di fronte alla scena della madre che siede dinanzi alla tomba quasi a colloquio col figlio morto non si può fare a meno di ricordare il sonetto foscoliano In morte del fratello Giovanni (La madre or sol, suo dì tardo traendo | parla di me col tuo cenere muto) o l’idea, che informa tutto il carme Dei Sepolcri, della celeste corrispondenza di amorosi sensi che si crea fra gli estinti e noi attraverso le tombe. In sostanza nel sonetto di Carducci i motivi di derivazione classica hanno un posto di rilievo, ma sono rinnovati attraverso il filtro dell’esperienza romantica e della sensibilità ottocentesca e rimaneggiati in modo originale.
3. La notte santa
Con le parole “Notte Santa” la Chiesa designa spesso la notte del 24 dicembre, Vigilia di Natale. Varie composizioni legate a questa celebrazione risentono della tradizione letteraria del notturno: uno fra tutti il celebre canto Stille Nacht, che è probabilmente il più diffuso e popolare canto natalizio, con innumerevoli traduzioni in molte lingue del mondo. In questo canto la quiete e il silenzio della notte sono sobriamente descritti nel verso iniziale, che viene ripreso identico all’inizio di ciascuna delle sei strofe del componimento, e vengono contrapposti alla veglia della Santa Famiglia, secondo uno schema che abbiamo visto adottato nella tradizione letterari
Stille Nacht! Heilige Nacht! Alles schläft; einsam wacht Nur das traute hochheilige Paar. Holder Knab´ im lockigen Haar, Schlafe in himmlischer Ruh! Schlafe in himmlischer Ruh! Stille Nacht! Heilige Nacht! Gottes Sohn! O wie lacht Lieb´ aus deinem göttlichen Mund, Da uns schlägt die rettende Stund´, Jesus in deiner Geburt! Jesus in deiner Geburt! | Notte silengte! Santa notte! Tutto è addormentato; veglia soltanto Solo la fedele, santissima coppia. Bel bimbo dai capelli ricci, Dormi in pace celeste! Dormi in pace celeste! Notte silente! Santa notte! Figlio di Dio! Oh come sorride Amora dalla tua bocca divina, Come l’ora della salvezza ci tocca, Gesù nella tua nascita! Gesù nella tua nascita! |
Il testo fu scritto nel 1816 dal sacerdote austriaco Joseph Mohr, coadiutore nella parrocchia di Mariapfarr a Lungau (presso Salisburgo) e musicato dall’amico Franz Xavier Gruber, maestro di musica. La prima esecuzione pubblica fu tenuta il 24 dicembre 1818 nella chiesa parrocchiale di Oberndorf, dedicata a San Nicola.
Ulteriori notizie e testo completo reperibili in moltissimi siti. A Stille Nacht è dedicato un apposito sito internet, che riporta, oltre al testo originale, più di duecento versioni in molte lingue del mondo: http://silentnight.web.za/index.htm. La versione italiana più correntemente eseguita, Astro del ciel, non si propone tanto come traduzione dell’originale tedesco quanto come composizione autonoma, ed è opera del sacerdote bergamasco Angelo Meli, che la pubblicò nel 1937. Esistono anche altre versioni italiane, meno popolari (vedi qui). Una tra le innumerevoli esecuzioni reperibili su Youtube.
Sulla medesima linea si colloca la delebre poesia La notte santa del poeta torinese Guido Gozzano (1883-1916), scritta nel 1914. La poesia, che ha il sottotitolo Melologo popolare, segue con molta delicatezza il vagare di Maria e Giuseppe nelle locande di Betlemme per trovare un alloggio per la notte, e il rifiuto costantemente ottenuto dagli osti, fino alla mezzanotte e alla nascita di Gesù:
La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due?
– Che freddo! – Siamo a sosta – Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…
Maria già trascolora, divinamente affranta…
Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!
Testo completo a pag. 357 della raccolta completa delle poesie di Gozzano.
Note
- Un’interessante rassegna di traduzioni e imitazioni di questa lirica di Goethe in varie lingue europee moderne nel seguente sito:
http://www.civica19.com/doc/proj_2012/corsi/poesia/Ueber_allen_Gipfeln_2012.pdf ↩︎ - Al compositore Bernhardt Theodor Breitkopf (Lipsia 1745-San Pietroburgo 1820) si deve la versione musicale di numerosi brani poetici di Goethe. Il Breitkopf, molto apprezzato ai suoi tempi, apparteneva alla famiglia di editori che aveva dato vita alla casa editrice musicale, divenuta poi, dal 1795, Breitkopf & H
ärtel. ↩︎ - Il brano di Goethe esercitò un notevole fascino su molti musicisti. Il sito www.lieder.net di Emily Ezust registra più di novanta rielaborazioni musicali di questo brano (clicca qui). Tra queste meritano di essere segnalate le due versioni per voce e pianoforte di Franz Schubert (D 768), con le sue arditezze armoniche, e di Franz Liszt, autore di due versioni (1848 e 1859) del brano: in entrambe si percepisce un’atmosfera meditativa e serena, e si ode, secondo alcuni critici, una reminiscenza del brano O crux fidelis musicato dallo stesso compositore.
Rinviamo a due esecuzioni di questi brani, reperibili sul sito Youtube: Schubert 📣; Liszt 📣 ↩︎ - Al compositore Bernhardt Theodor Breitkopf (Lipsia 1745-San Pietroburgo 1820) si deve la versione musicale di numerosi brani poetici di Goethe. Il Breitkopf, molto apprezzato ai suoi tempi, apparteneva alla famiglia di editori che aveva dato vita alla casa editrice musicale, divenuta poi, dal 1795, Breitkopf & H
ärtel. ↩︎ - Tale tuum nobis carmen, divine poeta,
quale sopor fessis in gramine, quale per aestum
dulcis aquae saliente sitim restinguere rivo.
“Tale è per noi il tuo verso, o divino poeta, quale l’assopimento in mezzo all’erba per coloro che sono stanchi, o come durante la calura placare la sete a un saltellante ruscello di dolce acqua”. ↩︎