In ebraico i valori fondamentali di šālôm (שלום) si articolano in tre direzioni specifiche: 1. ‘salvezza, incolumità’ (sia come salvezza dei singoli sia come prosperità di poli e regni); 2. ‘pace’ (sia fra singoli sia fra popoli); 3. ‘pace come sommo bene divino’.
Il termine per ‘pace’ ha nel mondo semitico una connotazione materiale quasi completamente assente nelle corrispondenti parole del mondo pagano. Per ripetere le parole di von Rad, “è difficile trovare nell’AT un altro concetto così trito e comune nella lingua quotidiana, e tuttavia non di rado carico di pregnante contenuto religioso e capace di elevarsi al di sopra del piano delle immagini comuni, come šālôm … il significato fondamentale della parola è quello di ‘benessere’, con una chiara preponderanza dell’aspetto materiale” (art. cit., 195-196). La parola indica spesso la salute fisica e materiale o la soddisfazione che ne consegue. Questo suo valore ne favorisce l’uso nelle formule di saluto, di augurio e di benedizione (“Va in pace”). Cfr. p.es. Ps. 122, 6 ss. “Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: “Su di te sia pace!”. Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene”. In alcuni testi šālōm passa dal valore di ‘benessere (materiale e spirituale)’ a quello puro e semplice di ‘buon augurio’. Ad es. in I Sam. 16, 4 gli anziani di Betleem chiedono a Samuele le sue intenzioni dicendo: “è šālōm la tua venuta?” e Samuele risponde semplicemente “šālôm“, che qui indica non tanto uno stato attuale quanto la prefigurazione di un’intenzione. Ancora più interessante Ier. 6, 14 “Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: “Bene, bene!” ma bene non va” (le parole in corsivo sono la traduzione di ebr. šālōm). A partire da questo valore si capisce il senso della formula ‘morire in pace (bešālōm)’, che ricorre p.es. in Ier. 34, 5; Gen. 15, 15 e altrove, ed è alla base dell’espressione formulare cristiana requiescat in pace.
All’interno della vasta gamma di valori di šālōm sta anche quello di ‘accordo fra due contraenti’, analogo insomma a quello riscontrato nell’equivalente latino, e col termine berît šālôm si indica il trattato che dà inizio alla pace: cfr. p.es. I Re 5, 26 “Fra Chiram e Salomone regnò la pace e i due conclusero un’alleanza”.
È stato notato che questo uso del termine è minoritario e appare soprattutto in testi recenti, perché l’AT “non parla della pace tra gli uomini, ma della Signoria di Dio”. Ma più che accordo fra gli uomini o scopo da raggiungere la pace è intesa nell’AT soprattutto come dono divino1.
Basti citare, fra i molti, I Re 2, 33:
Su Davide e sulla sua discendenza, sul suo casato e sul suo trono si riversi per sempre la pace da parte del Signore.
Lo stretto collegamento che si ha nell’AT fra pace, benessere e giustizia appare da luoghi come i seguenti: Is. 32, 17 ss.
Effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza. Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri, anche se la selva cadrà e la città sarà sprofondata.
o Is. 9, 5-6
Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.
o Ps. 72, 1-7
Dio, da al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia; regga con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri con rettitudine. Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia. Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri e abbatterà l’oppressore. Il suo regno durerà quanto il sole, quanto la luna, per tutti i secoli. Scenderà come pioggia sull’erba, come acqua che irrora la terra. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna.
La giustizia, o addirittura la correzione del prossimo, come condizione necessaria per la pace è ribadita ad es. in Prov. 10, 10
Chi chiude un occhio causa dolore, chi riprende a viso aperto procura pace,
da cui la conclusione radicale che “non vi è pace per i malvagi” come afferma con forza Is. 48, 22, e anche Ps. 28, 3 avvertono: “Non travolgermi con gli empi, con quelli che operano il male. Parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore”. L’uomo di pace (šālōm) è l’esatto contrario dell’empio, e soltanto il primo ha un futuro, perché l’empio è inesorabilmente avviato verso la distruzione (Ps. 37, 37). Anche il collegamento fra pace e verità ha un rilievo importante nell’AT: la formula šālōm we–’emet s’incontra p.es. in 2 Re 20, 19; Is. 39, 8; Jer. 33, 6; Est. 9, 30. E poiché in ’emet è compresa l’idea della verità come cosa stabilita in maniera definitiva e stabile, nell’espressione šālōm we-’emet può affermarsi l’idea della stabilità anche materiale: con “pace e sicurezza” sono tradotte queste parole ebraiche nella versione italiana corrente.
Ancora, šālōm viene ad assumere un’importanza rilevante nel contesto messianico. Il patto tra YHWH e l’uomo viene definito come immutabile patto di pace: Ez. 34, 25 e 37, 26 usa il termine tecnico berît šālōm per indicare quest’alleanza fra Dio e l’uomo; Is. 54, 10 (“Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa misericordia”) aggiunge all’espressione qualcosa di ancora più intenso affettivamente con l’uso del possessivo (berît šelômî ‘il patto della mia pace’). Principe della pace è il futuro Messia (Is. 9, 5 nel testo ebr. śar šālōm: come scrive von Rad, art. cit., col. 206, “il Messia, in quanto mandato da Dio, è il garante e custode della pace nel futuro regno messianico”), e “disciplina per la nostra pace” la sua passione (Is. 53, 4 môsar šelômnû nel testo ebraico,παιδεία εἰρήνης (paideía eirēnēs) nella versione dei LXX: un’espressione pregnante ed efficace, che purtroppo è andata completamente perduta nella versione italiana della Bibbia approvata dalla CEI: “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”).
È stato osservato che nei libri dell’AT la cui redazione originaria è in greco εἰρήνη (eirēnē) ha un valore più attenuato, e viene a significare solamente ‘assenza di guerra’. Si è pensato anche a un possibile influsso del pensiero ellenistico su questi testi, ma è più naturale pensare che le cose siano andate diversamente, e che si abbia a che fare con una serie incrociata di interferenze che ha agito sui due termini. Da una parte l’utilizzazione di εἰρήνη per tradurre šālōm rappresenta in qualche modo un ripiego, in quanto l’opposto di εἰρήνη nel parlante greco di epoca ellenistica è πόλεμος (pólemos), mentre l’opposto di šālōm è il male in tutte le sue possibili accezioni. Siamo insomma di fronte a un processo di calco semantico che porta ad ampliare considerevolmente la sfera di significati connessa originariamente con εἰρήνη. Ma se la sovrapposizione, peraltro non del tutto completa, fra le due parole ha finito per conferire al termine greco una serie di significati che non gli appartenevano in precedenza e che si svilupperanno pienamente nella successiva letteratura cristiana: d’altronde, non è possibile pensare che εἰρήνη in ambienti di lingua aramaica (e soprattutto nelle sfere più colte di questi ambienti) sia servita esclusivamente per come riproduzione passiva di šālōm senza alcun rapporto con gli usi che la parola aveva in greco: si tratta di vicende del tutto comprensibili in individui e comunità linguistiche bilingui o plurilingui (ad esempio nelle opere di Filone l’uso di εἰρήνη corrisponde pienamente a quello del greco ellenistico: cfr. Foerster, art. cit., col. 219). Il diretto riflesso di quest’evoluzione si coglie anche negli usi rabbinici di šālōm, che spesso viene a significare ‘assenza di discordia (fra individui o fra popoli)’: cfr. Foerster, art. cit., col. 215.
Nei testi giudaico-ellenistici eêrÔnh viene ad assumere un significato che tramezza fra quello di ‘perdono’ e quello diÞgáph (agápē) ‘amore (che Dio ha nei confronti degli uomini)’, come appare dal seguente passo di un apocrifo dell’AT, il cosiddetto Enoch etiopico 1, 7 s.:
Tutto ciò che vi è sulla terra perirà, e vi sarà il giudizio di ogni cosa e (il Signore) porrà la pace sui giusti, e per gli eletti vi sarà il perdono e la pace, e per l ro vi sarà la pietà e tutti saranno di Dio e darà loro la sua benevolenza e tutti benedirà e ricambierà ogni cosa e ci aiuterà e apparirà loro la luce e opererà su di loro pace.
Per quanto fra idea della pace semitica e idea della pace greca si abbia l’impressione di cogliere qualche affinità, in realtà la distanza che le tiene separate è enorme. Per riassumere le conclusioni a cui perviene E. Bellini in un breve, ma penetrante esame dei due termini greco ed ebraico (nello scritto collocato in appendice, pp. 129 e ss., al vol. G. di Nazianzo, Teologia e chiesa, Milano, Jaca Book, 1971), due sono fondamentalmente i caratteri che li rende diversi: mentre per i Greci la pace è uno stato di tranquillità, e il benessere è visto come una sua filiazione, sia pure spontanea e naturale, nell’AT la pace è innanzitutto uno stato di benessere o addirittura di perfezione; ancora, mentre per i Greci la pace rappresenta una conquista dell’uomo, nell’AT la pane è un dono divino. Soprattutto potremmo aggiungere con von Rad (art. cit., col. 206) che “non si saprebbe indicar nessun testo in cui la parola šālōm designi lo specifico atteggiamento spirituale della ‘pace interiore’. Anzi si può constatare facilmente che šālōm vien riferito molto più spesso a più persone che non al singolo”. E ancora richiamiamo quanto scrive H. Schmid, a proposito dei riflessi che la lettura dell’AT può avere sul dibattito attuale circa la pace:”Oggi si sente dire che quello della pace appare come il problema per eccellenza, o anche il problema teologico del nostro tempo. Invece nella Bibbia il tema della pace non sta al centro delle riflessioni, come lo è per noi … Che peculiare del mondo sia o debba essere, la condizione di pace, e che l’uomo sia chiamato a realizzarla, è detto in tutti i modi, sia pure con differenze nei particolari. La cosa non è specificamente biblica o cristiana, ma risponde a un postulato umano generale, come sarebbe facile mostrare dando uno sguardo ad altre civiltà. … La pace di Dio e la pace e del mondo, dunque, per l’antico Oriente coincidono e sono divise allo stesso tempo. Questa difficile determinazione delle loro rapporto si può considerare come un prodotto degno di attenzione dello spirito dell’antichità.” (pp. 98 ss.).
- Sono stati studiati con molto interesse i rapporti che esistono fra la concezione veterotestamentaria della pace e l’idea della pace che emerge nei testi egiziani o mesopotamici (si veda per esempio il capitolo iniziale di H. Schmid). In questi testi spesso la pace è intesa come “qualcosa di divino a cui è ammesso il mondo” (Schmid, p. 41). Nel testo sumerico in cui si descrive la costruzione di un tempo da parte del re Gudea, è il diretto intervento divino che porta a una condizione di pace, i cui contenuti specifici sono l’assenza di ostilità, il benessere materiale e lo stato di uguaglianza tra tutti i cittadibni, senz<a più distinzioni sociali. Tra i compiti del re vi è anche quello di assicurare pace al popolo. Nel prologo del suo codice Hammurabi scrive “io lo ho sempre governati in pace, sempre li ho protetti nella mia sapienza”: ma al dovere di garantire benessere e sicurezza ai propri sudditi si contrappone la necessità di mostrarsi inflessibili coi nemici, ed è questa l’altra faccia dell’antico re orientale, che nelle iscrizioni spesso si presenta come “terrore dei nemici”, sui quali non esiterà a scatenare la distruzione e dai quali riscuoterà pesanti tributi. ↩︎