Questo lavoro si articola nei seguenti punti:
1. Definizione dei termini εἰρήνη e pax
2. Individuazione delle costanti presenti nella riflessione degli antichi riguardo al problema della pace
3. La pace in Grecia nel V e IV sec.
4. Conclusioni
1. Il termine greco εἰρήνη e il termine latino pax.
Etimologicamente il termine εἰρήνη pare collegato con il verbo ἀραρίσκω = ῏congiungo, confermo, ordino῏.
Nel mondo greco c’è stata un’evoluzione storica del concetto di pace:
– All’inizio rientra pienamente nella sfera religiosa, tanto che alcuni pensano che originariamente Eirene fosse una divinità, alla quale fu in seguito collegata un’idea astratta.
– In un secondo tempo il termine εἰρήνη acquista il significato di ‘pace’ e di ‘concordia nell’ambito della famiglia e della comunità’ conseguente all’assenza di guerra. Εἰρήνη è l’opposto della guerra, è la situazione di pace prodottasi alla fine di una guerra e non anche l’atto giuridico in base al quale viene sanzionato un accordo, per il quale il termine usato è σπονδαί.
– Nel IV sec. vediamo che il termine εἰρήνη copre un vasto numero di significati, compresi quelli giuridici. Indica le trattative di pace, il trattato di pace, il documento scritto sul quale sono elencate le condizioni della pace, il periodo di pace. Tutti questi significati sono compresi nell’espressione κοινὴ εἰρήνη. Si ha insomma la coincidenza del significato di εἰρήνη e di σπονδαί.
La parola latina pax. È collegabile a una radice *pak-/pag– (= ‘conficcare, determinare, congiungere, convenire, concludere’) presente nei termini paciscor, pango, pactus. Cfr. gr. πήγνυμι (configgo, rendo compatto, connetto). Dunque il termine pax ha significato eminentemente giuridico e si allarga poi ad altri significati:
– Mentre εἰρήνη è collegata alla cessazione delle ostilità, pax non ha origine nella guerra, ma può riferirsi a situazioni internazionali dove non si è fatto ricorso alla guerra. In particolare, in età imperiale il concetto di pax – intesa come sicurezza poggiante su un sistema centralizzato, quasi sinonimo di “buona amministrazione” – fu la principale giustificazione ideologica del regime augusteo. Bisogna tuttavia osservare che, proprio perché pax, in senso lato, non è l’opposto di guerra, non traendo origina da essa, in regime di pax la guerra non è esclusa. Proprio in età imperiale la stabilità dell’impero richiede la minaccia e l’uso della guer ra come garanzia della pace.
– Il termine pax passa presto a indicare una condizione dello spirito: la pax animi Indica una condizione di tranquillità e di serenità; per il pensiero stoico è sinonimo di imperturbabilità, per gli epicurei di atarassia.
– Infine c’è il concetto tipicamente romano di pax deorum, che sposta l’idea di pax sul piano dei rapporti tra gli uomini e gli dei: tra di loro c’è ‘pace’ quando gli uomini hanno reso agli dei ciò che è loro dovuto garantendosene in tal modo la protezione.
Per concludere, bisogna notare come, rispetto alla greca εἰρήνη la pax romana abbia in sé un’impronta universalistica, assente nella εἰρήνη, che è strumento di regolamentazione di realtà singole e particolari, le poleis.
2. Individuazione delle costanti presenti nella riflessione degli antichi riguardo al problema della pace
Prima di esaminare la concezione della pace presso i Greci e i Romani, è necessario sottolineare che non possediamo nessuna opera che tratti specificamente di questo problema, che sia cioè una riflessione teorica sulla pace o sulla guerra; questo fatto appare molto significativo, soprattutto se si pensa al nostro tempo in cui discorsi e riflessioni sulla pace e sulla guerra nei loro molteplici aspetti sono sovrabbondanti, tanto da dare adito a una vera e propria letteratura pacifista. Per questo motivo gli accenni alla pace negli antichi sono sporadici e vanno ricercati all’interno di opere che trattano argomenti diversi, oppure inferiti dal complessivo sistema di pensiero che emerge da tutte le opere di un autore, soprattutto qualora sia un filosofo.
Ci sono solo due eccezioni a quanto detto sopra: le quattro commedie di Aristofane (Acarnesi del 425; Cavalieri del 424; Pace 421; Lisistrata 411) che parlano esplicitamente della guerra e contengono un’esortazione alla pace, e un’opera attribuita a Varrone, di cui ci è rimasto soltanto il titolo, il Logistoricus de pace.
Ma, da una parte, le commedie di Aristofane, scritte significativamente in periodi critici della guerra peloponnesiaca, sono un’esortazione alla pace che si pone a livello empirico, non dissimile da spunti e accenni presenti in gran numero in tanti altri autori, dall’altra parte, il contenuto del Logistoricus de pace è perduto, per cui intorno ad esso si possono solo azzardare ipotesi: alcuni lo ritengono un vero e proprio saggio di letteratura pacifista (di solito il logistoricus è un’opera filosofica o giuridica i cui principi generali sono suffragati da esempi desunti dalla storia) in cui Varrone condannerebbe la guerra in forza dell’appartenenza degli uomini alla comunità universale, oltre che a quella terrena (sarebbe addirittura una anticipazione del De Civitate Dei di S. Agostino). Altri sostengono che i fenomeni della pace e della guerra non sono esaminati su uno sfondo storico. In ogni modo questo sarebbe l’unico documento di cui abbiamo notizia che sviluppasse una dottrina sulla pace.
Dall’esame delle fonti si può osservare che là dove c’è una tendenza pacifica sono presenti elementi costanti che costituiscono come dei punti fissi di riferimento:
a) Il mito dell’età dell’oro
Il mito dell’età dell’oro, vista come l’epoca di pace per eccellenza, dove l’assenza di ogni ostilità garantisce una vita agiata e serena, è presente in molti autori, che non sto ad elencare completamente, riportandone solo alcuni.
Esiodo. Nella Teogonia (vv. 901 segg.) egli fa di Eirene una delle Ore, figlia di Zeus e di Tentis, sorella di Eunomia e di Dike. Di fronte a queste divinità si schierano Atena Tritogeneia, divinità guerriera, e Ares. Ciò sta a significare che il diritto e la giustizia, che sono il fondamento della pace, stanno all’opposto della forza. Inoltre la pace può essere riconquistata solo attraverso il rispetto dei principi morali.
Empedocle. Il divenire cosmico secondo questo pensatore avviene in quattro fasi: amore / conflitto odio-amore / trionfo dell’odio / riscossa dell’amore. In tale divenire l’amore è i1 principio unificatore e l’odio il principio disgregatore. Secondo Empedocle le leggi morali hanno portata universale, tanto che, a partire da questa premessa, egli teorizza l’abolizione della differenza tra Greci e barbari e critica i sacrifici cruenti.
Stoici. Secondo gli Stoici (intesi genericamente e non singolarmente) dal Caos era nato, par opera del Lógos, il Kósmos. dove gli uomini vivevano in pace secondo natura. La brama di possesso portò a fabbricare le armi, da cui si originarono le prime guerre e una catena interminabile di violenze e di delitti. Rimedio al nuovo disordine può essere quello del governo universale, il cui Capo (per l’età ellenistica Alessandro o i vari diadochi) deve garantire le condizioni per un’esistenza serena e pacifica.
Poeti dell’età augustea (Orazio – Tibullo – Ovidio – Virgilio). Emblematica a questo proposito la IV ecloga di Virgilio, nella quale il mito dell’età dell’oro non è proiettato nel passato (cfr. l’Eneide, in cui l’età dell’oro coincide con il regno di Saturno nel Lazio), ma nel futuro.
b) Il cosmopolitismo
Il cosmopolitismo, inteso come abbattimento di ogni discriminante tra uomo e uomo, implica una fratellanza a due livelli:
– in senso orizzontale: fratellanza di tutti gli uomini di una stessa epoca (cade la barriera greci-barbari);
– in senso verticale: fratellanza di uomini di diverse generazioni (cfr. la dottrina della trasmigrazione delle anime, la perennità dell’insegnamento dei sapienti, ecc.).
Si riportano alcuni autori o movimenti che testimoniano questi atteggiamenti.
Pitagorismo. È una tradizione da cui l’antichità classica non volle mai separarsi, e che nella tarda antichità si propose, anche se in parte modificata, in alternativa al Cristianesimo. Uno dei suoi fondamenti è il senso di comunione universale fra gli esseri viventi (sia in senso orizzontale che in senso verticale), corollario del quale è il cosmopolitismo. Quella che il pitagorismo postula non è comunque una comunità di tipo “politico”, ma spirituale e culturale.
Movimento sofista. Molti studiosi vedono come positivo nei sofisti proprio l’idea di cosmopolitismo, intesa come l’abbattimento delle frontiere della polis e il superamento dei limiti e delle divisioni che essa pone. Ma resta il sospetto che la professione di cosmopolitismo (come anche la teorizzazione della comunione dei beni) nei sofisti nasca soltanto dalla critica demolitrice dei valori tradizionali che erano il fondamento delle istituzioni della polis e non da una reale intenzione propositiva. Ne è prova il fatto che questo principio nei sofisti va di pari passo con l’affermazione della supremazia della φύσις sul νόμος che a volte diventa supremazia della forza sul diritto. Non può esserci praticamente alcuna possibilità di fratellanza tra uomini quando su tutto prevale il σύμφερον, l’utilità del singolo, rispetto al quale tutto il resto è relativo.
Cinici, Cirenaici, Stoici. Tra gli stoici – per i quali ciò che accomuna tutti gli uomini al di là delle differenze contingenti è l’appartenenza all’unico Logos – un contributo interessante proviene da Seneca e da Marco Aurelio.
In Seneca c’è l’idea, per certi versi anticipatrice del pensiero agostiniano, dell’esistenza di due comunità distinte, quella terrena e quella celeste. Gli uomini, se da una parte appartengono a una comunità limitata – la patria – dall’altra sono cittadini di una patria universale, comprendente tutta l’umanità e il mondo degli dei. La condanna dell’odio, dell’ira, dell’intolleranza in Seneca discende da questo principio. Dal lato pratico, egli accetta l’impero giustificandolo col ricorso alla Pax Romana, ma auspica nel principe qualità proprie del sapiente: mitezza, clemenza, ubbidienza alle leggi (cfr. il De Clementia dedicalo a Nerone).
Il conflitto tra l’appartenenza alla patria terrena e l’appartenenza alla patria celeste si fa più acuto in Marco Aurelio, che unisce nella sua persona le convinzioni dello stoico e la pratica del governo. Quando le leggi della patria terrena entrano in conflitto con quelle della patria celeste, bisogna sottostare alle prime o alle seconde? Marco Aurielio risolve il problema in modo artificioso, facendo appello alla dottrina della rappresentazione soggettiva: i fatti esterni agli uomini non esercitano su loro un’influenza diretta, se non in ragione delle opinioni formulate soggettivamente: dunque la guerra e dolorosa non in quanto tale, ma solo perché cosi la avvertono i nostri sensi.
Di qui si capisce che la massima difficoltà dello Stoicismo sta nell’astrazione.
c) Condanna dei sacrifici cruenti, non solo di uomini, ma anche di animali .
Il rifiuto di mangiare carne e il divieto di uccidere uomini e animali colpiscono per la loro somiglianza con le norme che regolano anche oggi la vita di gruppi non-violenti e pacifisti.
3. La pace in Grecia nel V e IV sec.
Per il V sec. non si può tralasciare il grande evento della guerra peloponnesiaca, per la quale è determinante la volontà di rottura con Sparta di Pericle. In pieno V sec. assistiamo in Atene ad una realtà paradossale: il raggiungimento dell’ὁμόνοια all’interno della polis – che raggiunge il suo culmine in età periclea – e l’uso della violenza all’esterno per legare con vincoli di sudditanza i membri della lega delio-attica. L’episodio più significativo a questo proposito è il sanguinoso assoggettamento dei Meli nel 416-418.
È significativo che, procedendo la guerra pelopohnesiaca, si facciano più frequenti e pressanti gli inviti alla pace, tanto da crearsi nell’opinione pubblica ateniese, come in quella spartana, una tendenza decisamente pacifista, rappresentata politicamente da Nicia in Atene e da Pleistonatte a Sparta.
Aristofane dal 425 al 414 fa rappresentare ben quattro commedie che hanno a tema esplicitamente la pace, ed Euripide, discostandosi un po’ dall’atteggiamento rivelato nelle prime tragedie, moltiplica gli appelli alla pace sia attraverso interventi diretti assegnati al coro, sia attraverso la reinterpretazione di miti nazionalistici in chiave pacifista e antipatriottica (cfr. Ecuba, Supplici, Cresfonte, Eretteo, Troiane, scritte negli anni che vanno dal 425 al 415).
Significativi sono due frammenti, molto somiglianti, provenienti dall’Eretteo e dal Cresfonte:
fr. 360 N2 dall’Eretteo
(parte assegnata al Coro): Possa giacere per me la lancia, che i ragni vi tessano attorno la tela,/ e in pace, compagno a canuta vecchiaia, / possa io cantare col capo bianco ornato di corone…
fr. 453 N2 dal Cresfonte
(parte assegnata al Coro): O Eirene dispensatrice di ricchezza e la più bella tra gli immortali, io ho desiderio di te per il tuo ritardo; temo che la vecchiaia mi sopraffaccia negli affanni prima di vedere la tua amabile bellezza e i canti dei bei cori e i conviti ornati di corone. Vieni, o Signora, nella mia città. E l’odioso dissidio tieni lontano dalle case e la folle discordia cui è gradito il ferro affilato.
Nel IV secolo assistiamo a un’evoluzione del concetto di pace, che sfocia nella prima κοινή εἰρήνη o pace di Antalcida (381) e nelle successive “paci comuni” che costituiscono il Leitmotiv della storia greca del IV sec.
La pace perde il significato di semplice sospensione delle ostilità per acquistare quello di accordo che obbliga le parti in causa a non riaprire il conflitto, attribuendo alla situazione di fatto raggiunta un valore definitivo. La “pace comune” traspone inoltre responsabilità e obblighi dai singoli stati alla grecità nel suo insieme, e in questo senso può essere considerata coma l’estremo tentativo delle poleis di salvare se stesse dal logoramento cui erano sottoposte nelle continue guerre reciproche.
La “pace comune”, dunque, da un lato supera i confini della polis, ma dall’altro ha successo proprio perché, fondandosi sulla salvaguardia dell’autonomia di ogni città, riproduce la mentalità della polis.
Nel IV sec. subentra, poi, la concezione macedone della grecità. A questo proposito si hanno tre diverse posizioni impersonate da:
a. Demostene, che auspica l’unione delle poleis contro i Macedoni;
b. Isocrate, che vuole invece l’unità delle poleis poggiante su un elemento esterno (Filippo) e mirante alla lotta con la Persia;
c. Filippo e Alessandro, che concepiscono la grecità come elemento propulsore e unificatore della οἰκουμένη.
Molti studiosi vedono nell’ellenismo l’attuazione del principio (propugnato proprio a quel tempo dagli Stoici) dell’universalità, dove finalmente vengono superate le barriere della polis e si crea la cosmopoli, unificata da un comune patrimonio culturale (quello greco) e da una lingua comune (la κοινή). L’ellenismo da tali studiosi viene giudicato come un movimento che di greco mantiene l’impulso vitale, la capacità creativa e l’acume critico, ma tendenzialmente estesi al mondo intero.
4. Conclusioni
Per quanto riguarda il mondo greco, non si può fare a meno di notare una caratteristica ricorrente: sembra che la sussistenza della polis neghi di per se stessa la possibilità pratica della pace, nonostante che vi siano al suo interno forti aspirazioni alla concordia e alla fratellanza fra gli uomini.
Alcuni elementi ne danno conferma:
a. Al sopraggiungimento della pace quasi sempre troviamo connessa l’idea di cosmopolitismo, che è esattamente l’opposto della struttura della polis. Non per nulla l’ellenismo, che si può considerare la realizzazione pratica dell’idea di cosmopolitismo, se da un lato assicura alle poleis un periodo di tranquillità, dall’altro ne segna una volta per tutte la fine come entità politicamente e culturalmente significativa. Non a caso, inoltre, l’idea di comunione universale, di cosmopoli sul piano dello spirito, è propria di una religiosità di tipo misterico e orfico (da cui il pitagorismo si alimenta), che vive una vita propria, sotterranea, nell’ambito della polis, che ha invece una sua religione ufficiale.
Del resto la polis nasce, come coscienza di sé, proprio dalla contrapposizione ai “barbari”.
b. Anche quando le poleis cercano la “pace comune”, ammettono di principio che essa deve essere garantita dalla minaccia della guerra.
c. Nei casi in cui ci sia concordia all’interno della polis (in Sparta come in Atene), permane la rottura all’esterno (vd. l’egemonia di Sparta nel Peloponneso e fuori e l’egemonia di Atene sulla lega delio-attica e fuori).
d. Nelle personalità in cui è forte lo spirito della polis, non troviamo mai esplicitamente condannata la guerra a livello teorico, anche se sul piano pratico è spesso auspicata la cessazione delle ostilità (vd. Aristofane). Faccio due soli esempi:
– Platone nella Repubblica si dice favorevole alla guerra e dà importanza preponderante alla classe dei guerrieri, anche se questi sono subordinati ai sapienti. Nelle Leggi ha un atteggiamento più moderato, ma ribadisce la superiorità dei Greci sui barbari.
– Aristotele considera la pace come bene, ma realisticamente non riuscendo a immaginare una situazione diversa da quella della polis, ammette la guerra come mezzo lecito per dirimere le controversie. In particolare è giusta la guerra contro uomini che, nati per essere schiavi, rifiutano di sottomettersi (torna la distinzione greci-barbari). Tutto ciò dimostra come, in fondo, il principio della competizione a tutti i livelli è vitale per la sussistenza della polis.
Per ciò che riguarda il mondo latino, bisogna riconoscere che la pax romana ha una ‘impronta’ universalistica, ma non può permanere realisticamente senza fare ricorso alla guerra, almeno difensiva se non offensiva. Questo, come abbiamo visto, porta al dissidio, all’interno dello Stoicismo, tra l’appartenenza alla città terrena e l’appartenenza alla patria universale, dove la violenza non è ammissibile. Normalmente gli Stoici si adeguano alla realtà dei fatti e fanno prevalere il senso di fedeltà allo stato su considerazioni filosofiche o imperativi morali. Chi invera le istanze degli stoici è il Cristianesimo, che, dando alla pace un fondamento del tutto diverso da quelli conosciuti fino allora (vi do la mia pace… non come la dà il mondo la do a voi…) e ponendo la pace a un livello profondo dell’esperienza umana, permette la realizzazione della “città celeste” già nella travagliata vita terrena.