Tutti sappiamo che, a partire dai secoli VII-VIII d.C., a partire cioè dallo stabilirsi e dall’estendersi dell’impero musulmano nell’area mesopotamica e nord-africana, i testi greci dell’età classica ed ellenistica arrivarono agli Arabi, che da questi passarono in Spagna, e che, tradotti in latino, sono infine pervenuti all’Europa cristiana. Questo, nelle sue linee sommarie, è quanto generalmente si sa dai manuali di storia medievale o di storia letteraria. La vicenda di questi testi non è però ben nota nel suo itinerario, poiché d’itinerario si tratta.
In precedenza infatti, nell’età tardo-repubblicana e imperiale, la circolazione della cultura seguiva sostanzialmente le vie del Mediterraneo settentrionale: da Bisanzio (e magari anche da Antiochia e dall’Asia Minore) fino a Roma attraverso Atene, non esclusi gli apporti dalla Gallia, dalla Spagna e dall’Africa. Con la caduta dell’Impero romano d’Occidente e col precipitare delle orde barbariche sul Mediterraneo settentrionale, quel canale di comunicazione si chiude, ma un altro ben presto se ne apre, quantunque non subito né automaticamente. La via nuova è quella del Mediterraneo meridionale, la cui apertura è legata all’improvviso espandersi dell’impero musulmano dei califfi omayyadi prima, e degli abassidi poi. Riprendendo in questa sede una suggestiva immagine che Sergio Noja ha proposta in uno studio del 1984, tale via nuova pare una mezzaluna – ben noto simbolo dell’Islam – che ha i corni rivolti a settentrione, rispettivamente la Siria all’estremità orientale e la Spagna all’estremità occidentale, che si congiungono nelle terre africane.
Ora, quel che è interessante notare è che gli Arabi conquistatori e fieri combattenti del jihad (la guerra santa contro gl’infedeli in nome di Allah e del Profeta) furono assimilatori formidabili di cultura greca. Assimilatori, dunque, senza dubbio, ma assimilatori intelligenti: essi sottopongono cioè, come vedremo, a severa selezione l’eredità culturale che dall’impero bizantino attraverso la Siria giunge nelle loro mani, scegliendo alcuni testi, o meglio, taluni settori del vasto patrimonio greco e li trasferiscono nel proprio sistema religioso e di pensiero.
E’ qui opportuno ricordare brevemente che, dopo la morte del Profeta Muhammad (=Maometto), la guida della ‘umma al-muslimin ( = comunità dei credenti in Allah) è assunta dai suoi successori, detti in arabo khalīfat (الخليفة), cioè califfi. Di questi esistono due grandi dinastie: la prima in ordine di tempo è quella del Banu ‘umayya, ossia degli Omayyadi, che fissa la capitale dei dominii musulmani a Damasco e guida l’Islam per circa due secoli. Al principio del IX sec., quindi, tale dinastia è sostituita dai Banu ‘abbas, cioè dagli ‘Abassidi, che spostano la capitale a Baghdad. Qui ha sede una corte leggendaria per il suo sfarzo e ancor più per la sua munificenza e il suo interesse verso gli studi scientifici e umanistici: sono almeno una decina i califfi ‘abassidi che favorirono e protessero studiosi e letterati. Tra questi califfi si staglia la figura di al-Ma’mun, il quale si mostra particolarmente attratto dall’aspetto razionale della cultura greca, probabilmente a causa anche delle sue convinzioni in materia di fede: seguace della dottrina mu’tazilita – in base alla quale le verità rivelate nel Corano possono e devono essere armonicamente accordate con le verità raggiunte per via razionale e logica – al-Ma’mun ritenne d’imprimere un più forte impulso alle ricerche scientifiche e all’opera di traduzione in arabo di opere greche di filosofia, matematica, astronomia, geografia, alchimia, medicina. En passant, è doveroso ricordare che non solo il greco viene coltivato, ma è data grande accoglienza anche a opere scientifiche e no provenienti dall’India e dalla Persia.
I veicolatori di questo multiforme sapere pagano entro il teocratico Islam, quelli cioè che approntarono le traduzioni dalle opere greche nella nuova koinè araba, furono in larga misura cristiani, e precisamente appartenenti alla Chiesa nestoriana, sparsa in diverse città d’Oriente fino in territorio indiano, ma viva soprattutto in Siria, dov’era il suo centro di Hira. In seno alla pax islamica i Nestoriani costituivano una minoranza, e come tali avvertivano la duplice esigenza di conservare sì la propria lingua, la propria fede, la propria tradizione, però anche di sopravvivere e di veder pubblicamente riconosciuta la propria dignità. Alla comunità musulmana essi sono in grado di prestare il loro servizio quali eccellenti poliglotti e interpreti di greco e di persiano: lingue, queste, che conoscevano soprattutto i più colti, mentre la quasi totalità possedeva l’arabo – la lingua dei conquistatori – e il siriaco – la lingua, di ceppo semitico, nella quale sono stati scritti i testi della Patristica e della letteratura cristiana.
E’ giusto ricordare che, oltre ai cristiani, sebbene in misura minore, svolsero attività di traduzione anche ebrei della diaspora e mandei, questi ultimi limitatamente a opere astronomiche.
Si pone a questo punto una domanda: perché gli Arabi accolsero e tradussero dei greci quasi esclusivamente i trattati filosofico-scientifici, trascurando il vasto giacimento letterario, che invece desterà l’interesse più vivo degli umanisti europei dal Quattrocento in poi?
Per tentare una risposta soddisfacente, mi riallaccio a un contributo che qualche anno fa su questa precisa questione offrì p. Vincenzo Poggi S.J., dal titolo eloquente: Perché nel Medioevo Tucidide non fu tradotto in arabo? Ovvero, da un altro punto d’osservazione, perché quello che a noi pare essere la vera eredità dei Greci, il loro patrimonio culturale distintivo, e cioè il pensiero storico, la poesia, la letteratura generaliter, non venne accolta, se non in parte assolutamente irrilevante, in arabo?
Occorre ricordare che per i Musulmani l’arabo è la lingua in cui al Profeta è stato comunicato il Corano, il sacro testo disceso increato dal ciclo, la cui sacralità e metafisica trascendenza non dipende da Allah, ma è autonoma. Di tale sacralità evidentemente partecipa la lingua araba stessa. Per l’arabo, infatti, i Musulmani nutrono una speciale venerazione: in arabo i poeti già prima dell’avvento della rivelazione maomettana avevano composto liriche d’amore che possono avvicinarsi a quelle greche (Francesco Gabrieli, p. es., ha accostato, per temi trattati, per la bellezza delle immagini e per l’ardore guerresco, il bandito del deserto Shanfara al caustico Archiloco); e in arabo, dopo la rivelazione coranica, poeti d’amore, narratori, storici, scrittori di hadīth (الحديث) (raccolte di tradizioni orali sulla vita e sui discorsi del profeta dell’Islam) hanno lasciato pagine bellissime. Per tutte queste ragioni è così incarnato e radicato nel Vicino Oriente il culto dell’arabo come della lingua più suadente, più soave, più nobile che si possa pensare. Gli Arabi dunque non vollero farsi tradurre opere letterarie per non inquinare e neppure influenzare la loro specifica tradizione letteraria e linguistica. A questa tesi s’accompagna quella di Gabrieli, che sostiene che gli Arabi vollero apprendere dai Greci quanto v’era – o, almeno, quanto essi sentivano – di universale nell’ellenismo: il pensiero filosofico e scientifico, appunto.
Delle traduzioni dal greco gli scienziati arabi si servirono ampiamente per incrementare le proprie cognizioni e rielaborarle in nuovi sistemi: si pensi soltanto al progresso delle matematiche e dell’astronomia o alla speculazione logico-metafisica di un Averroè o di un Avicenna. E quel benemerito califfo che fu al-Ma’mun fece addirittura costruire due osservatorii astronomici alla periferia di Baghdad nonché un grande centro di studi dotato di biblioteca chiamato “Casa della sapienza” e celebre nel Medioevo. E studiosi e traduttori vi lavoravano fianco a fianco, i primi a formulare teorie e calcolare distanze planetarie, i secondi al delicato compito di coniare in arabo termini tecnici delle varie discipline ignoti prima d’allora e rimasti nella lingua fino ai giorni nostri.
Il più importante gruppo di traduttori, al quale soprattutto resta legato il destino del sapere greco nel mondo musulmano, è quello legato alla figura di Hunayn ibn Ishaq. Si tratta per l’esattezza di una famiglia di nestoriani di origine siriaca: attorno al capostipite Hunayn lavoravano il figlio, il nipote e altri discepoli, che – secondo la concezione tradizionale della famiglia araba – completavano il clan. Merita di essere descritto il procedimento che essi seguivano nel tradurre. Lavoravano, per così dire, “a più mani”: non tutti infatti conoscevano il greco alla perfezione come Hunayn, che in gioventù aveva soggiornato anche alla scuola di medicina di Alessandria e vi aveva studiato, in originale, i trattati di Galeno e Ippocrate; ma tutti conoscevano il siriaco e l’arabo, per i motivi già esposti. Ecco quindi il lavoro d’équipe; uno traduceva, poniamo, dal greco in siriaco e un altro dal siriaco all’arabo. Il che si giustifica anche per la differente destinazione di tali versioni: quelle in arabo per i califfi e gli altri dignitari musulmani, quelle in siriaco per docenti e studiosi cristiani. Tale prassi di traduzione si riprodurrà del resto qualche secolo più tardi a Toledo, nella Spagna non ancora riconquistata dai Reyes Católicos, dove si cimenteranno su questi medesimi testi arabi volgendoli in latino grandissimi traduttori quali Gerardo da Cremona e Michele Scoto, o ancora quelli radunati dall’arcivescovo Raimondo de Sauvetat per la versione latina del Corano.
Hunayn ibn Ishaq e la sua scuola furono prodigiosi: Hunayn soprattutto, del quale si contano oltre duecento opere scientifiche tradotte in arabo e/o in siriaco, era sì esperto di medicina e medico lui stesso, ma seppe agevolmente passare con pari maestria ad altri campi della scienza: tradusse, oltre a Galeno e Ippocrate, Aristotele, Platone, Porfirio, Euclide, per citare i nomi più noti.
Oggi, nelle università, è crescente un certo interesse per il grande fenomeno che nella storia è stato il travaso di cultura greca in ambito musulmano: è un interesse non soltanto di specialisti di cose orientali, ma anche di storici, di studiosi del mondo classico e medioevale, che sperano così di acquisire nuovo materiale per meglio comprendere certi nodi anche della civiltà europea e mediterranea, come avveniva la comunicazione e lo scambio d’idee, di lingue, di libri: basti pensare a Dante, che alla scuola di ser Brunetto studia il trattato di astronomia di Alfagano, naturalmente in latino.