Testi grecoromani sul tema del Meeting per l’amicizia tra i popoli (Rimini, agosto 2021): Il coraggio di dire Io
a cura di M.Consuelo Cristofori e Giulia Regoliosi
Autocoscienza del compito
Hes. Theog. 22-34
αἵ νύ ποθ’ ῾Ησίοδον καλὴν ἐδίδαξαν ἀοιδήν,
ἄρνας ποιμαίνονθ’ ῾Ελικῶνος ὕπο ζαθέοιο.
τόνδε δέ με πρώτιστα θεαὶ πρὸς μῦθον ἔειπον,
Μοῦσαι ᾿Ολυμπιάδες, κοῦραι Διὸς αἰγιόχοιο·
“ποιμένες ἄγραυλοι, κάκ’ ἐλέγχεα, γαστέρες οἶον,
ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα,
ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι.”
ὣς ἔφασαν κοῦραι μεγάλου Διὸς ἀρτιέπειαι,
καί μοι σκῆπτρον ἔδον δάφνης ἐριθηλέος ὄζον
δρέψασαι, θηητόν· ἐνέπνευσαν δέ μοι αὐδὴν
θέσπιν, ἵνα κλείοιμι τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα,
καί μ’ ἐκέλονθ’ ὑμνεῖν μακάρων γένος αἰὲν ἐόντων,
σφᾶς δ’ αὐτὰς πρῶτόν τε καὶ ὕστατον αἰὲν ἀείδειν.
(Le Muse) un giorno insegnarono ad Esiodo un canto bello, / mentre pascolava le greggi sotto il divino Elicona. / Questo discorso anzitutto mi fecero le dee, le Muse Olimpie, figlie di Zeus Egioco: / “Pastori campagnoli, esseri vili, solo ventre, / noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, / ma sappiamo, quando vogliamo, il vero cantare”. / Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare, / e a me diedero come scettro un ramo d’alloro fiorito / dopo averlo staccato, mirabile: e mi ispirarono il canto / divino, perché celebrassi ciò che sarà e ciò che è, / e mi ordinarono di inneggiare alla stirpe dei beati immortali, / e di cantare loro stesse all’inizio e alla fine sempre.
Arch. 1 W
εἰμὶ δ’ ἐγὼ θεράπων μὲν ᾿Ενυαλίοιο ἄνακτος
καὶ Μουσέων ἐρατὸν δῶρον ἐπιστάμενος
Io sono il servo del signore Enialio
e conosco l’amabile dono delle Muse
Una personale creazione
Alcm. 39 P
Fέπη τάδε καὶ μέλος Ἀλκμάν
εὖρε γεγλωσσαμέναν
κακκαβίδων ὄπα συνθέμενος
Queste parole e la musica Alcmane
trovò componendo in linguaggio
la voce delle pernici
Her. I, 1
῾Ηροδότου Ἀλικαρνησσέος ἱστορίης ἀπόδεξις ἥδε, ὡς μήτε τὰ γενόμενα ἐξ ἀνθρώπων τῷ χρόνῳ ἐξίτηλα γένηται, μήτε ἕργα μεγάλα τε καὶ θωμαστά, τὰ μὲν Ἕλλησι, τὰ δὲ βαρβάροισι ἀποδεχθέντα, ἀκλεᾶ γένηται, τά τε ἄλλα καὶ δι᾿ ἣν αἰτίην ἐπολέμησαν ἀλληλοισι.
Di Erodoto di Alicarnasso questa è l’esposizione dell’indagine, perché le vicende umane col tempo non scompaiano e le imprese grandi e straordinarie compiute le une dai Greci, le altre dai barbari, non restino senza fama, e in particolare anche per quale causa entrarono in guerra fra loro.
Orgoglio di poeta
Pind. V Nem. 1 segg.
Οὐκ ἀνδριαντοποιός εἰμ’, ὥστ’ ἐλινύσοντα ἐργά-
ζεσθαι ἀγάλματ’ ἐπ’ αὐτᾶς βαθμίδος
ἑσταότ’· ἀλλ’ ἐπὶ πάσας
ὁλκάδος ἔν τ’ ἀκάτῳ, γλυκεῖ’ ἀοιδά,
στεῖχ’ ἀπ’ Αἰγίνας διαγγέλλοισ’, ὅτι
Λάμπωνος υἱὸς Πυθέας εὐρυσθενής
νίκη Νεμείοις παγκρατίου στέφανον,
οὔπω γένυσι φαίνων τερείνας
ματέρ’ οἰνάνθας ὀπώραν.
Io non sono uno scultore, che fabbrichi statue
immobili sul loro basamento
fisse: ma sopra ogni imbarcazione
e ogni nave, dolce canto,
parti da Egina, annunciando
che Pitea figlio di Lampone dalla grande forza
ha vinto la corona del pancrazio nei giochi Nemei,
pur non mostrando ancora sulle guance
la pubertà che fa spuntare tenera lanugine.
Leon. Tar., AP 7, 715
Πολλὸν ἀπ᾿ Ιταλίης κεῖμαι χθονὸς ἔκ τε Τάραντος
πατρης· τοῦτο δέ μοι πικρότερον θανάτου.
Τοιοῦτος πλανίων ἄβιος βίος· αλλά με Μοῦσαι
ἔστερξαν, λυγρῶν δ᾿ ἀντὶ μελιχρὸν ἔχω.
Οὔνομα δ᾿οὐκ ἤμυσε Λεωνίδου· αὐτά με δῶρα
κηρύσσει Μουσέων πάντας ἔπ᾿ ἠελίους.
Molto lontano dalla terra d’Italia giaccio e da Taranto
mia patria: questo è per me più amaro della morte.
Tale è la vita non-vita degli erranti: ma le Muse
mi amarono, e in cambio dei dolori ho la dolcezza del miele.
Il nome di Leonida non è caduto: i doni stessi
delle Muse mi annunciano per tutti i soli.
Hor. Carm. III, 30
Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo impotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei
vitabit Libitinam: usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine Pontifex.
Dicar qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens,
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens, Melpomene, comam
Ho innalzato un monumento più eterno del bronzo
e più alto delle Piramidi, sede di re,
che né la pioggia divoratrice, né l’Aquilone prepotente
potrebbero distruggere o un’innumerevole
serie di anni e il fuggire del tempo.
Non morirò del tutto e molta parte di me
eviterà la dea delle esequie: sempre io crescerò
rinnovandomi nella fama dei posteri, finché sul Campidoglio
salirà con la silenziosa vergine il Pontefice.
Si dirà di me, dove strepita il violento Ofanto
e Dauno povero d’acqua su agresti
genti regnò, da umile divenuto potente,
che io per primo ho portato la poesia eolica
alla metrica italica. Accogli l’orgoglio
richiesto dai meriti e a me d’alloro delfico
cingi propizia, Melpomene, i capelli.
Preferenze
Arch. 114 Ω
οὐ φιλέω μέγαν στρατηγὸν οὐδὲ διαπεπλιγμένον
οὐδὲ βοστρύχοισι γαῦρον οὐδ’ ὑπεξυρημένον,
ἀλλά μοι σμικρός τις εἴη καὶ περὶ κνήμας ἰδεῖν
ῥοικός, ἀσφαλέως βεβηκὼς ποσσί, καρδίης πλέως.
Non mi piace un comandante alto né che procede a grandi passi
né fiero dei suoi riccioli né tutto ben rasato,
ma possa io averne uno piccolo e visibilmente sorto
nelle gambe, ma fermamente saldo sui piedi e pieno di coraggio.
Arch. 5 Ω
᾿Aσπίδι μὲν Σαΐων τις ἀγάλλεται, ἣν παρὰ θάμνωι,
ἔντος ἀμώμητον, κάλλιπον οὐκ ἐθέλων·
αὐτὸν δ’ ἐξεσάωσα. τί μοι μέλει ἀσπὶς ἐκείνη;
ἐρρέτω· ἐξαῦτις κτήσομαι οὐ κακίω.
Uno dei Sai si vanta dello scudo, che presso un cespuglio
lasciai senza volerlo, oggetto senza difetti,
ma ho salvato me stesso. Che cosa m’importa di quello scudo?
Vada in malora: presto me ne procurerò uno non peggiore.
Sapph. 16 V
ο]ἰ μὲν ἰππήων στρότον οἰ δὲ πέσδων
οἰ δὲ νάων φαῖσ’ ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔ]μμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν’ ὄτ-
τω τις ἔραται· εἰς] ἔρον ἦλθε.
πά]γχυ δ’ εὔμαρες σύνετον πόησαι
π]άντι τ[ο]ῦ̣τ’, ἀ γὰρ πόλυ περσκέ̣θ̣ο̣ι̣σ̣α
κ̣άλ̣λο̣ς̣ [ἀνθ]ρ̣ώπων ᾿Ελένα [τὸ]ν ἄνδρα
[]τ̣ὸν̣ [ ].στον
κ̣αλλ[ίποι]σ̣’ ἔβα ‘ς Τροΐαν πλέοι̣[σα
κωὐδ[ὲ πα]ῖδος οὐδὲ φίλων το[κ]ήων
π̣ά[μπαν] ἐμνάσθη, ἀλλὰ παράγ̣α̣γ̣’ α̣ὔταν
[ ]σαν
[ ]αμπτον γὰρ [
[ ]…κούφως τ[ ]οη.[.]ν̣
..]μ̣ε̣ νῦν ᾿Ανακτορί[ας ὀ]ν̣έ̣μναι-
σ’ οὐ ] παρεοίσας,
τᾶ]ς <κ>ε βολλοίμαν ἔρατόν τε βᾶμα
κἀμάρυχμα λάμπρον ἴδην προσώπω
ἢ τὰ Λύδων ἄρματα †κανοπλοισι
[ μ]άχεντας.
Alcuni una schiera di cavalieri, altri di fanti,
altri di navi dicono che sulla nera terra
sia la cosa più bella, io invece
ciò che uno ama.
Ed è facilissimo farlo capire
a ognuno, infatti colei che di gran lunga era superiore
in bellezza alle altre persone, Elena, il marito
eccellente lasciando
andò per mare a Troia
e né della figlia né dei cari genitori
si ricordò assolutamente, ma la travolse…
E me ora ha fatto ricordare Anattoria
che è assente,
e preferirei vedere il suo amabile incedere
e il luminoso splendore del suo volto
piuttosto che i carri dei Lidi e in armi
i combattenti.
Nosside, AP 5, 170
῞Αδιον οὐδὲν ἕρωτος· ἃ δ᾿ ὄλβια, δεύτερα πάντα
ἐστίν· ἀπὸ στόματος δ᾿ἐ7πτυσα καὶ τὸ μέλι.
Τοῦτο λέγει Νοσσίς· τίνα δ᾿ἁ Κύπρις οὐκ ἐφίλασεν,
ουζκ οἶδεν κήνας᾿ἄνθεα ποῖα ῥόδα.
Nulla è più piacevole dell’amore: e tutte le cose felici
sono secondarie; dalla bocca ho sputato anche il miele.
Questo dice Nosside: e chi Cipride non ha amato
non sa quali fiori siano le rose di lei.
Tib. I, 1, 1-6; 53-58
Divitias alius fulvo sibi congerat auro
et teneat culti iugera multa soli;
quem labor adsiduus vicino terreat hoste,
martia cui somnos classica pulsa fugent.
Me mea paupertas vita traducat inerti,
dum meus adsiduo lucea tigne focus
……………….
Te bellare decet terra, Messalla, marique,
ut domus ostile praeferat exuvias;
me retinent formosare vincla puellae,
et sedeo duras ianitor ante fores.
Non ego laudari curo, mea Delia; tecum
dum modo sim, quaeso, segnis inersque vocer.
Un altro raccolga per sé ricchezze d’oro fulvo
e possieda molti iugeri di terra coltivata;
e un’assillante angoscia lo spaventi per la vicinanza del nemico,
e la tromba guerriera risuonando gli metta in fuga il sonno.
Io sia condotto dalla mia povertà attraverso una vita inerte,
purché il mio focolare risplenda di fuoco sempre acceso.
…………………………
A te si addice combattere, Messalla, per terra e per mare,
perché la tua casa metta in mostra trofei nemici;
io sono trattenuto incatenato da una bella ragazza
e siedo come un guardiano davanti alla porta crudele.
Io non mi curo di essere elogiato, mia Delia; con te
purché io stia, prego, sia pur chiamato pigro e inetto.
Accontentarsi di ciò che si è
Verg. Georg. II, 476 segg.
Me vero primum dulces ante omònia Musae,
quarum sacra fero ingenti percussus amore,
accipiant caelique vias et sidera monstrent,
defectus solis varios lunaeque labores,
unde tremor terris, qua vi maria alta tumescant
obicibus ruptis rursusque in se ipsa residant,
quid tantum Oceano properent se tingere soles
hiberni, vel quae tardis mora noctibus obstet.
Sin has ne possim naturae accedere partis
frigidus obstiterit circum praecordia sanguis,
rura mihi et rigui placeant in vallibus amnes,
flumina amem silvasque inglorious. O ubi campi
Spercheosque et virginibus bacchata lacaenis
Taygeta! O qui me gelidis convalli bus Haemi
sistat et ingenti ramorum protegat umbra!
Io anzitutto vorrei che le Muse dolci sopra ogni cosa,
di cui porto le sacre insegne colpito da grande amore,
mi accogliessero e mi mostrassero le vie del cielo e le stelle,
le varie eclissi del sole e le fasi della luna,
l’origine del terremoto, per quale forza i mari profondi si gonfino
spezzati gli ostacoli, e poi ritornino in se stessi,
perché tanto si affrettino a bagnarsi nell’Oceano i soli
d’inverno, e quale indugio ostacoli le lente notti.
Ma se mi impedisce di accostarmi agli aspetti della natura
il sangue freddo intorno al cuore,
mi piacciano i campi e le acque che irrigano le valli,
ami i fiumi e i boschi, senza fama. Oh dove sono le pianure
e lo Spercheo e il Taigeta percorso dalle vergini spartane nei riti bacchici!
Qualcuno mi ponga nelle gelide vallate dell’Emo
e mi protegga con la grande ombra dei rami!
Confessare i propri limiti
Hor. Ep. I, 8
Celso gaudere et bene rem gerere Albinovano
Musa rogata refer, comiti scribaeque Neronis.
Si quaeret quid agam, dic multa et pulcra minantem
vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando
contuderit vitis oleamve momorderit aestus,
nec quia longinquis armentum aegrotet in agris;
sed quia mente minus validus quam corpore toto
nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum,
fidis offendar medicis, irascar amicis,
cur me funesto properent arcere veterno,
quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam,
Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam.
Post haec, ut valeat, quo pacto rem gerat et se,
ut placeat iuveni percontare utque cohorti.
Si dicet ‘Recte’, primum gaudere, subinde
praeceptum auriculis hoc instillare memento:
“Ut tu fortunam, sic nos te, Celse, feremus.
Musa, ti prego, porta i miei saluti e auguri a Celso Albinovano, / compagno e segretario di Nerone./ Se chiederà come sto, digli che prometto molte belle cose, / ma non vivo bene né rettamente; non perché la grandine / abbia abbattuto le viti e la calura bruciato l’olivo, / né perché in campi lontani sia ammalato un armento; / ma perché, meno sano di mente che in tutto il corpo, / non voglio sentire niente, imparare niente, che tolga il mio male; / mi offendo con i medici fidati, mi arrabbio con gli amici / perché insistono a volermi allontanare dal funesto torpore; / perseguo ciò che mi ha fatto male, evito ciò che sono certo mi gioverebbe; / a Roma amo Tivoli, a Tivoli Roma, capriccioso. / Poi chiedigli come sta, come gestisce la faccenda e se stesso, / in che rapporti sia col giovane e con la coorte. / Se dirà “Bene” ricordati anzitutto di rallegrarti, poi / di istillare nell’orecchio questa raccomandazione: / “Come tu ti comporterai con la fortuna, Celso, così noi con te”.
Autonomia di pensiero
Aesch. Agam, 750 segg.
παλαίφατος δ’ ἐν βροτοῖς γέρων λόγος
τέτυκται, μέγαν τελε-
σθέντα φωτὸς ὄλβον
τεκνοῦσθαι μηδ’ ἄπαιδα θνῄσκειν,
ἐκ δ’ ἀγαθᾶς τύχας γένει
βλαστάνειν ἀκόρεστον οἰζύν.
δίχα δ’ ἄλλων μονόφρων εἰ-
μί. τὸ δυσσεβὲς γὰρ ἔργον
μετὰ μὲν πλείονα τίκτει,
σφετέρᾳ δ’ εἰκότα γέννᾳ.
οἴκων γὰρ εὐθυδίκων
καλλίπαις πότμος ἀεί.
φιλεῖ δὲ τίκτειν ῞Υβρις
μὲν παλαιὰ νεά-
ζουσαν ἐν κακοῖς βροτῶν
῞Υβριν τότ’ ἢ τόθ’, ὅτε τὸ κύριον μόλῃ
φάος τόκου, δαίμονά τ’ ἔταν,
ἄμαχον ἀπόλεμον ἀνίερον,
Θράσος, μελαίνα μελάθροισιν ῎Ατα,
εἰδομένα τοκεῦσιν.
Δίκα δὲ λάμπει μὲν ἐν
δυσκάπνοις δώμασιν,
τόν τ’ ἐναίσιμον τίει [βίον].
τὰ χρυσόπαστα δ’ ἔδεθλα σὺν πίνῳ χερῶν
παλιντρόποις ὄμμασι λιποῦσ’,
ὅσια προσέβατο δύναμιν οὐ
σέβουσα πλούτου παράσημον αἴνῳ·
πᾶν δ’ ἐπὶ τέρμα νωμᾷ.
C’è un vecchio detto ripetuto dall’antichità fra i mortali: / che la felicità di un uomo, / divenuta grande e giunta a compimento / genera figli e non muore senza prole, / ma dalla buona sorte per la stirpe / germoglia dolore insaziabile. /Diversamente dagli altri ho un pensiero solo mio. /E’ l’opera empia / che ne genera un’altra più grande dopo di sé / simile alla sua stirpe. / Dalle case rette nella giustizia / proviene una sorte ricca di bella prole sempre. / Ma suole un’antica colpa / partorire una nuova colpa / fra le disgrazie dei mortali / prima o dopo, / quando giunge / il giorno stabilito del parto, e la dea / invincibile inespugnabile, empia , / la nera Ate insolente nelle case / simile ai genitori.
Dike invece risplende / nelle case fumose / e onora chi è retto. / Ma lascia le sedi cosparse d’oro con mani impure, / volgendo altrove lo sguardo, / e si reca in dimore pie / senza onorare una potenza / di ricchezza falsamente insignita di lode: / e tutto porta a compimento.
Sen. Ep. 33, 7 segg.
Certi profectus viro captare flosculos turpe est et fulcire se notissimis ac paucissimis vocibus et memoria stare: sibi iam innitatur. Dicat ista, non teneat; turpe est enim seni aut prospicienti senectutem ex commentario sapere. “Hoc Zenon dixit”: tu quid? “Hoc Cleanthes”: tu quid? Quousque sub alio moveris? Impera et dic quod memoria tradatur, aliquid et de tuo profer. Omnes itaque istos, numquam auctores, semper interpretes, sub aliena umbra latentes, nihil existimo habere generosi, numquam ausos aliquando facere quod diu didicerant. Memoriam in alienis exercuerunt; aliud est meminisse, aliud scire. Meminisse est rem commissam memoriae custodire; at contra scire est et sua facere quaeque nec ad exemplar pendere et totiens respicere ad magistrum. “Hoc dixit Zenon, hoc Cleanthes”: aliquid inter te intersit et librum. Quousque disces? Iam et praecipe. Quid est quare audiam quod legere possum? “Multum” inquit “viva vox facit”. Non quidem haec quae alienis verbis commodatur et actuari voce fungitur. Adice nunc quod isti qui numquam tutelae suae fiunt primum in ea re sequuntur priores in qua nemo non a priore descivit, deinde in ea re sequuntur quae adhuc quaeritur. Numquam autem invenietur, si contenti fuerimus inventis. Numquam autem invenietur, si contenti fuerimus inventis. Praeterea qui alium sequitur nihil invenit, immo nec quaerit. Quid ergo? non ibo per priorum vestigia? Ego vero utar via vetere, sed si propiorem planioremque invenero, hanc muniam. Qui ante nos ista moverunt non domini nostri sed duces sunt. Patet omnibus veritas, nondum est occupata, multum ex illa etiam futuris relictum est.
Per un adulto che ha fatto un percorso sicuro è vergognoso arraffare branetti e imbottirsi di pochissime e notissime frasi e appoggiarsi alla memoria: ormai si regga da sé. Dica queste cose, non le serbi; è vergognoso infatti per un vecchio o vicino alla vecchiaia essere saggio con un promemoria. “Questo l’ha detto Zenone”: e tu? “Questo Cleante”: e tu? Fino a quando ti muovi sotto un altro? Comanda e dì qualcosa che si tramandi a memoria, dichiara qualcosa anche di tuo. Tutti costoro, mai autori, sempre interpreti, celati sotto un’ombra altrui, penso che non abbiano nulla di nobile, non abbiano mai osato fare una volta o l’altra ciò che avevano imparato. Hanno esercitato la memoria in cose altrui; altro è ricordare, altro sapere. Ricordare è custodire una cosa affidata alla memoria; al contrario sapere è anche far proprie tutte le cose e non stare attaccato ad un modello né tante volte guardare indietro ad un maestro. “Questo l’ha detto Zenone, questo Cleante”: ci sia qualche differenza fra te e il libro. Fino a quando imparerai? Ormai insegna anche. Perché dovrei venire a sentire qualcosa che posso leggere? “Molto – si dice – fa la viva voce”. Non però quella che si affida a parole altrui e funge da voce di segretario. Aggiungi il fatto che costoro che non si affidano mai a se stessi anzitutto seguono i predecessori in un argomento su cui non vi è stato nessuno che non si sia allontanato dal predecessore, poi lo seguono in un argomento che è ancora oggetto di ricerca. Ma non si troverà mai, se ci accontenteremo di ciò che si è trovato. Inoltre chi segue un altro non trova nulla, anzi neppure cerca. E dunque? Non andrò sulle tracce dei predecessori? Io userò la via vecchia, ma se ne troverò una più vicina e più piana, l’aprirò. Coloro che prima di noi hanno smosso queste cose non sono nostri padroni, ma guide. La verità è aperta a tutti, non è ancora occupata, molto di lei resta anche ai posteri.