El ojo Dindymenio, 1993, trad. ital. L’occhio di Cibele, ed. Net, 2005
Il romanzo, di un autore uruguaiano trapiantato a Cuba, è ambientato ad Atene a partire dai prodromi della guerra del Peloponneso fino alla peste e s’incentra intorno alla ricerca di un’ametista, appartenuta inizialmente ad una statua frigia di Cibele e poi riutilizzata nel Partenone. Nella vicenda sono coinvolti privatamente e politicamente personaggi storici quali Pericle, Aspasia, Alcibiade, Socrate, Nicia e moltissimi altri, nonché diversi personaggi d’invenzione, soprattutto nell’ambito degli schiavi e della prostituzione. La scrittura è molto complessa: mescola diversi registri quali lo stile epistolare, la parlata d’imitazione barbara, il dialogo socratico, il flusso narrativo mutuato da García Marquez (impossibile per un autore latinoamericano sottrarvisi), e diversi piani temporali. Si aggiunga il continuo variare di nomi e soprannomi, che rende difficile seguire un plot già molto confuso e francamente piuttosto noioso.
Ma l’intento dell’autore sembra essere al fondo un altro, seguendo la caratteristica già notata per i gialli d’ambientazione greca: in questo caso la figura essenziale è quella di una sorta di santone, non è mai chiaro quanto in buona fede o quanto cialtrone, creatore di una nuova religione che costituisce un’evidente parodia blasfema di quella ebraico-cristiana. Un libro quindi decisamente sgradevole.