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Ambrogio e la Milano del suo tempo: aspetti archeologici e artistici

by Mariapina Dragonetti

di Marco Sannazaro

(da Zetesis, 1998, n. 2)


  Nella settimana che precede la Pasqua del 386, Milano vive il drammatico confronto tra l’imperatore Valentiniano II e il vescovo Ambrogio. All’imperatore che, istigato dalla madre Giustina, esigeva una basilica da destinare al culto ariano e aveva inviato i soldati a circondare le principali chiese cittadine, si appone la ferma resistenza del presule e dei suoi fedeli che occupano per più giorni alcune basiliche.
In quell’occasione, racconta Paolino, il biografo di Ambrogio: «Furono introdotti il canto antifonato e gli inni e cominciarono ad essere celebrate le vigilie» (1); ciò avvenne, aggiunge Agostino «perché il popolo non crollasse per il tedio e l’afflizione» (2).
Ambrogio così commenta l’avvenimento: «Dicono che il popolo è stato ammaliato dall’incantesimo dei miei inni. Proprio così, non lo nego: è un grande canto magico (gioca sul doppia significato di carmen), il più potente di tutti. Che cosa infatti, potrebbe essere più forte della confessione della Trinità, quale ogni giorno il popolo canta ad una sola voce? A gara tutti vogliono proclamare la loro fede, tutti hanno imparato a lodare in versi il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Sono dunque diventati tutti maestri, quelli che a malapena potevano essere discepoli» (3).

 Il più antico ritratto di S.Ambrogio, un mosaico del V secolo conservato nella chiesa di San Vittore a Milano

Cesare Pasini, che qui riprendo, nota che Ambrogio può essere considerato quale effettivo fondatore dell’innologia occidentale; prima di lui infatti si conoscono sola inni composti da Ilario di Poitiers (º 367) che tuttavia, per la loro forma involuta e la densità tematica paiono non aver goduto di grande fortuna. Quelli di Ambrogio, invece, offrono pregnanza contenutistica e ricchezza poetica in una veste apparentemente semplice e immediata; la fortuna popolare degli inni ambrosiani è repentina, come ricorda lo stesso vescovo nel passo sopra citato (4). Ma potremmo ricordare anche l’episodio in cui Monica, madre di Agostino, a Cassiciacum, pochi mesi dopo gli avvenimenti ri­cordati, è già in grado di citare a memoria un verso dell’inno ambrosiano Deus creator omnium (5).

“Gli inni sono concepiti da Ambrogio come strumento di catechesi: uno strumento che facili­ta la comunicazione da parte del vescovo e l’apprendimento da parte dei suoi ascoltatori, senza peraltro smarrire i contenuti della fede, ma piuttosto esponendoli in forma concisa, limpida, dottri­nalmente calibrata, e, elemento non trascurabile, poeticamente incisiva. Attraverso i carmina, coral­mente cantati nell’assemblea dei fedeli, tutti potevano capire, e persino proclamare con espressioni appropriate, temi e concetti che mai si sarebbero peritati di affrontare in un compiuto discorso teologico” (6).

Sono partito da queste considerazioni sugli inni per evidenziare come Ambrogio si riveli, si direbbe oggi, un grande comunicatore, capace di trasmettere messaggi, di convincere, di stimolare partecipazione, di coinvolgere le masse. Sa ben utilizzare gli strumenti catechetici immediatamente a sua disposizione, i sermoni, innanzitutto, da cui derivano quasi tutte le sue opere, ma sa anche inventarne di nuovi, come gli inni, e utilizzare ogni possible veicolo di comunicazione.
Le realizzazioni urbanistiche e artistiche volute dal vescovo vanno viste sotto questa luce? Anch’esse trasmettono messaggi pregnanti in forme semplici e facilmente percepibili e assimilabili da tutti?
Uno specifico interesse per la costruzione di edifici sacri è attestato già dai primi anni del pontificato di Ambrogio e continua per tutta la sua vita. Nel 375 o 378, nell’orazione funebre recitata per la morte del fratello Satiro, Ambrogio ricorda che questi lo aveva aiutato in fabricis ecclesiae (7). Nel De officiis, scritto probabilmente verso il 388-389, Ambrogio prospetta tre casi nei quali gli sembra legittimo recuperare fondi alienando i tesori della Chiesa: «nessuno può lagnarsi se i prigionieri sono stati riscattati; nessuno può biasimare se il tempio di Dio è stato edificato; nessuno può indignarsi se sono stati ampliati gli spazi per seppellire i resti dei fedeli; nessuno può dolersi se è garantito il riposo dei defunti nelle sepolture dei cristiani. In questi tre casi è lecito spezzare, fondere, vendere i vasi della Chiesa, anche se consacrati» (8).
Vendere i tesori della chiesa per riscattare i prigionieri era nell’uso e sanzionato dalla tradizione, ma gli altri utilizzi prospettati da Ambrogio appaiono “meno convenzionali” e c’è chi suppone che, con queste parole, il vescovo intendesse replicare a chi aveva criticato le modalità di attuazione dei suoi ambiziosi programmi edilizi nel suburbio (9).
Nella stessa opera il presule afferma: «Per il sacerdote è sommamente conveniente ornare il tempio di Dio con un congruo decoro, perché la casa di Dio risplenda anche di quest’atto di culto” (10), assimilando quindi ad atto liturgico la realizzazione dell’apparato ornamentale dell’edificio sacro.
Le realizzazioni edilizie ambrosiane sembrano dunque oltrepassare la semplice necessità di dotare i fedeli milanesi di adeguati spazi di riunione: Michelangelo Cagiano de Azevedo, nel 1963, presentando un contributo su “Sant’Ambrogio committente di opere d’arte”, partiva proprio dalla considerazione che Ambrogio mostra un interesse diretto per le opere d’arte e che nelle realizzazioni da lui volute si osserva una sua peculiare impronta (11).

Converrà innanzi tutto precisare il corpus architettonico-artistico riconducibile alla committenza di questo vescovo.

La Basilica Apostolorum, oggi S. Nazaro, che risultava già consacrata nel 386, e la Basilica Martyrum, oggi S. Ambrogio, consacrata nel giugno di quello stesso anno e pensata inizialmente anche come mausoleo del presule, sono ricordate dallo stesso Ambrogio in una lettera alla sorella Marcellina (12).

Il battistero di S. Giovanni alle Fonti, di cui restano tracce archeologiche, può essere attribuito sicuramente al vescovo grazie alle indagini di scavo condotte nell’autunno del 1996 che hanno offerto sicuri elementi di datazione (13).

La basilica di S. Simpliciano, uno dei monumenti paleocristiani milanesi che si è meglio conservato nelle sue strutture originarie, pur in mancanza di elementi cronologici stringenti e certi, viene generalmente attribuita, in base alle caratteristiche architettaniche superstiti, alla fine del IV sec., e può ben essere ambrosiana. L’opinione corrente ritiene che, iniziata da Ambrogio, sia stata completata dal successore Simpliciano (morto nel 401) (14).
Infine, S. Dionigi, chiesa oggi scomparsa, è attribuita al vescovo dalle tradizioni medievali, ma non ci sono elementi certi per accettare o rifiutare questa ipotesi (15).

Per alcuni di questi edifici la tradizione manoscritta ha tramandato testi epigrafici attribuiti ad Ambrogio che ne celebrano la fondazione, forniscono una interpretazione in chiave simbolica, oppure fungono da corredo didascalica per l’apparato decorativo. Si tratta dei carmi epigrafici Condidit Ambrosius Qua sinuata cavo per S. Nazaro; Octachorum sanctos per il battistero; di distici che commentavano scene del Vecchio e Nuova Testamento dipinte o a mosaico in una delle basiliche cittadine, probabilmente S. Ambrogio (16).
Purtroppo se per gli inni disponiamo di edizioni recenti e assai affidabili, in particolare quella curata da Jean Fontaine (17), che discutono a fondo i problemi di autenticità a meno di questi componimenti, per i testi epigrafici attribuiti ad Ambrogio la discussione critica ristagna da diversi anni e comunque l’attribuzione al vescovo di alcuni di questi carmi epigrafici è messa da molti in discussione, rendendo quindi talora arrischiata una loro utilizzazione esplicita per comprendere l’attività ambrosiana. Sicuramente riconducibili all’iniziativa ambrosiana sono invece i due pannelli lignei, residuo della decorazione della porta originaria della Basilica Martyrum, con scene del ciclo di Davide, ora conservati nel museo della basilica. Il ciclo iconagrafico che si sviluppava sulle ante della parta, così come è possibile ricostruirlo, rimanda da vicino a un’opera del vescovo (Apologia prophetae David ad Theodosium Augustum) e come questa doveva trattare del rapporto tra potere dello Stato e sfera del sacro (18).
Gli studi recenti sui monumenti ambrosiani hanno cercato di chiarire filologicamente l’esatto carattere planimetrico e architettonico delle strutture di questi edifici e di precisarne la cronologia, là dove è stato possibile effettuare nuove verifiche di scavo come nel battistero di S. Giovanni alle Fonti. Hanno inoltre indagato il rapporto tra questi edifici e il resto della città: l’inserirsi di questa edilizia cristiana, di committenza ambrosiana, nel tessuto di un’urbanistica romana che, se presenta una precisa fisionomia di origine antica, conosce però in quegli stessi anni evoluzioni e radicali trasformazioni.
In effetti anche una migliore comprensione archeologica dell’aspetto di Milano in età romana, che si sta attuando in questi ultimi decenni, favorita da una più attenta tutela del bene archeologico e da tecniche di indagine e scavo più raffinate, aiuta una più chiara comprensione della progettualità edilizia ambrosiana (19).
È un confronto che investe gli spazi e i tipi architettonici: gli spazi perché nella scelta dei luoghi in cui fa nascere nuove chiese il vescovo tiene conto del ruolo e della funzione dei quartieri e di complessi architettonici posti nelle vicinanze, i tipi perché Ambrogio reinterpreta tipi edilizi familiari al suo tempo e diffusi nella stessa città.
Ambrogio è certo dotato di una forte sensibilità urbanistica: cito un passo poco noto che mostra la sua capacità di comprendere e segnalare due tra i più significativi caratteri dell’edilizia tardoantica: biasimando i luxuriosi dice che «rendono curvi gli spazi delle loro case (sinuant spatia domorum) e con successive aggiunte le ingrandiscono congiungendo diverse abitazioni fra loro» (20); osserva cioè la spezzarsi del razionale equilibrio della città romana, basato su geometrie ortagonali e isolati regolari, e l’affermarsi di una nuova distribuzione degli spazi, che ha come momento essenziale l’edilizia palaziale e il grande sviluppo della linea curva con un’ampia diffusione di aule basilicali dotate di absidi, di edifici a pianta circolare e centrale, di strutture polilobate etc. (21).
Se vogliamo esplicitare alcune tendenze che paiono riconoscibili nei progetti ambrosiani, possiamo sottolineare la forte esigenza di connotare in senso cristiano la città, di modificarne l’aspetto in modo fisicamente tangibile.
La tradizione milanese, in realtà abbastanza tardi (tra fine XII e prima metà del XIII, con Benzo d’Alessandria e Galvano Fiamma) recepirà questa idea quando, attribuendo ad Ambrogio le quattro basiliche extramuranee di S. Ambrogio, S. Nazaro, S. Simpliciano e S. Dionigi, ne rileverà la disposizione ai vertici di una simbolica croce che attraversa la città: circa civitatem in modum crucis quattuor ecclesias construxit (22).
Nell’affermare la sua progettualità Ambrogio deve tener conto, ovviamente, delle caratteristiche della città ed in particolare del fatto che Milano si era e si stava caratterizzando in senso fortemente monumentale per rispondere alle esigenze residenziali e simboliche connesse con la presenza della corte e dell’imperatore.
Il poeta Ausonio in quegli stessi anni, ci fornisce una descrizione tutta laica della città:

«A Milano ogni cosa è degna di ammirazione, vi è profusione di ricchezze e innumerevole sono le case signarili; la popolazione è di grandi capacità, eloquente e affabile. La città si è ingrandita ed è circondata da una duplice cerchia di mura; vi sono il circo dove il popolo gode degli spettacoli, il teatro con le gradinate a cuneo, i templi, la rocca del palazzo imperiale, la zecca, il quartiere che prende il nome dalle celebri terme Erculee. I cortili colonnati sono adorni di statue marmoree. Le mura sono circondate da una cintura di argini fortificati. Le sue costruzioni sono una più imponente dell’altra come se fossero tra sé rivali, e non ne sminuisce la grandezza nemmeno la vicinanza con Roma»(23).

La progettualità ambrosiana deve confrontarsi con la realtà di una città imperiale. E’ un incontro-scontro così come incontro-scontro è il rapporto tra Ambrogio e gli stessi imperatori.
L’intervento urbanistico di Ambrogio talora risulta complementare a quella imperiale, altre volte alternativa. Schemi e moduli dell’arte di potenza imperiale vengono utilizzati in chiave rinnovata. È un atteggiamento che è frequente nell’arte paleocristiana, che prende spesso a prestito temi iconografici, stili, modi, dell’arte aulica, mettendoli al proprio servizio (24), ma che in Ambrogio sembra assumere un carattere particolarmente insistente.

 La basilica paleocristiana di San Simpliciano a Milano

La basilica di S. Simpliciano, è un edificio imponente, considerevole anche sul piano tecnico per quella grande e ampia navata (larga quasi 22 metri) che imponeva l’uso di travature di notevole lunghezza e che, in effetti, non si poté mantenere nei secoli successivi, quando fu trasformata in chiesa a tre navate. È stato rilevato come in molti aspetti (lo spiccato verticalismo, la luminosità determinata dai due ordini di grandi finestre, il motivo esterno ad arcature cieche) riprenda l’aula palatina di Treviri, sala delle udienze del palazzo imperiale di quella città, attribuita a Costantino (25). La stessa collocazione topografica della chiesa, sulla via per Como e la Germania, pare rimandare a quel modello. Varia, però, rispetto al prototipo laico e imperiale, oltre che la funzione, anche la planimetria che presenta un impianto a croce latina.
Αnche il battistero di S. Giovanni alle Fonti riprende uno schema laico e imperiale, quello attestato a Milano dal mausoleo imperiale di S. Vittore al Corpo: un edificio a pianta esternamente ottagonale, internamente polilobata; tipologia che in città verrà ripetuta più tardi anche nel S. Aquilino, sacello annesso a S. Lorenzo e ancora integro nelle forme originarie. Se, come è stato recentemente riproposto (26), il mausoleo imperiale può essere assegnato all’età dei Valentinianidi, si constata una pronta reazione e rielaborazione di Ambrogio. Egli utilizza, in quegli stessi anni, il medesimo tipo architettonico per un edificio religioso che ha finalità diverse, ma che intende senz’altro sollecitare nei fedeli l’immagine e la funzione del prototipo, perché cum enim mergis, mortis suscipis et sepulturae similitudinem (27).

La reintrepretazione simbolica è esplicita nell’iscrizione che Ambrogio aveva predisposto per l’edificio:

«L’edificio a otto nicchie è stato eretto per gli usi sacri e il fonte ottagono è degno di questo dono. E’ stato opportuno che su questo numero sorgesse l’aula del sacro battesimo per il quale ai popoli è stata ridata la vera salvezza nella luce di Cristo risorgente, egli che scioglie le porte della morte e suscita dalle tombe gli esanimi, e, liberando quelli che si confessano peccatori da ogni colpevole macchia, li lava nella corrente del fonte purificatore. Qui tutti quelli che vogliono deporre le colpe di una vita obbrobriosa lavino il loro cuore, presentino animo puro. Qui vengano fervidi: anche se uno oserà avvicinarsi torbido, si allontanerà più candido della neve. Qui si affrettino a venire i santi: nessun santo può esimersi da queste acque: in esse è il regno e il disegno di Dio, la gloria della sua giustizia. Che cosa più divino di questo che in un breve istante crolli la colpa di un intero popolo?» (28).

In altre circostanze Ambrogio pare affiancare agli edifici più carichi di simbologia imperiale altri che ne stravolgano il senso. Emblematico a questo proposito è il rapporto tra la Basilica Apostolorum e la via porticata conclusa dall’arco trionfale che monumentalizzava il principale accesso alla città, quello proveniente da Roma.
La chiesa, sorta per accogliere reliquie apostoliche, viene concepita con una pianta cruciforme, tipologia nuova in occidente. I significati cui la struttura architettonica intende rimandare sono esplicitamente ricordati nell’epigrafe, attribuita al vescovo, che venne collocata pochi anni dopo, quando la chiesa accolse anche i resti del martire Nazaro, ritrovati miracolosamente nei pressi:

«Ambrogio edificò questo tempio e lo consacrò al Signore con il titolo degli Apostoli e con il dono delle loro reliquie. Il tempio ha la forma della croce, il tempio rappresenta la vittoria di Cristo: la sacra immagine trionfale contrassegna il luogo. In capo al tempia è Nazario, dall’alma vita: per le reliquie del martire il suolo si innalza. Dove la croce eleva il suo sacro capo, presso la curva dell’abside, li si trova il capo del tempio e la dimora di Nazaario:  egli vincitore procura con la sua pietà una quiete eterna: a lui al quale la croce fu palma, la croce è pure riposo» (29).

Ambrogio erige dunque un monumento alla croce come simbolo della vittoria cristiana e significativamente la colloca presso un apparato architettanico, l’arco trionfale e la via porticata, che intendevano celebrare i fasti dell’impero.
Anche in questo caso i due progetti, quello laico e quello cristiano, risultano sostanzialmente coevi: se infatti la basilica viene certamente consacrata prima del giugno del 386 (la tradizione vuole che sia stata iniziata nel 382), le campagne archeologiche svoltesi in occasione della costruzione della linea 3 della Metropolitana Milanese consentano di attribuire la costruzione del portico e dell’arca all’età dei Valentinianidi (30).
Si intersecano due programmi monumentali che sviluppano il tema della vittoria partendo da presupposti antitetici: il primo che si inserisce ideologicamente e architettonicamente nel solco della antica, gloriosa e consolidata tradizione celebrativa romana, viene reinterpretato dal secondo, decisamente innovativo sul piano formale, che introduce una concezione nuova del successo e del potere accordato da Dio al principe cristiano.
Rivolgendosi all’imperatore Teodosio, vittorioso dopo la battaglia del Frigido, Ambrogio scriverà:

«Altri imperatori dopo una vittoria ordinano di preparare archi trionfali o altre insegne di trionfo, la tua clemenza predispone invece un sacrificio al Signore, desidera che i sacerdoti offrano a Dio un’offerta ed un’azione di grazie” (31).