Home Recensione libri A. Del Ponte, Per le nostre radici, carta d’identità del Latino

A. Del Ponte, Per le nostre radici, carta d’identità del Latino

by Mariapina Dragonetti

pref. di S. Settis, Novara, Aracne editrice 2018,

A cura di Massimo Roncoroni e Renzo Talamona


Premessa esplicativa

Questo testo di Andrea Del Ponte è un acuto pamphlet che si inserisce nel vivo della questione “tutela conservativa e promozionale” dell’eredità classica greca e latina; due radici essenziali e vitali dell’albero civiltà europea e della sua storia, insieme con quello ebraico e cristiano della stessa e vettore decisivo dotato di punto d’applicazione di valenza universale.
Se così, si innesta nella vexata quaestio circa funzione, senso, significato e valore della presenza del liceo classico italiano: un unicum nella storia mondiale della scuola, imperniato sullo studio quinquennale di storia, lingua e pensiero greco e latino.
Altri testi di genere consimile sono stati pubblicati in questi anni, compreso quello di Maurizio Bettini, il quale si chiede a che cosa servano oggi Greci e Romano-Latini e mette in dubbio, dal punto di vista antropologico, la valenza delle radici della civiltà greca e latina come fattore tuttora vitale della civiltà europea ormai globalizzata a livello mondiale.
Non a caso lo stesso Bettini nel 2011 ha pubblicato un saggio per “Il Mulino” intitolato Contro le radici, con il quale intende porsi in garbata quanto specifica polemica proprio e soprattutto il testo di Del Ponte qui in esame, intitolato non a caso Per le nostre radici le quali costituiscono la nostra carta di identità di figli della civiltà latina e della sua lingua, della quale l’italiano, come le altre lingue romanze, costituisce uno specifico dialetto.
Apologia, dice Del Ponte, affrontata con “robusto impianto storicistico” nel senso di “storicamente fondata”. Storia e storicità, le quali sono l’esatto contrario dello storicismo da noi ampiamente diffuso in sede ideologica. Questo, infatti, annullerebbe nel divenire storico inteso come assoluto, ogni “permanenza del classico” che qui si intende invece difendere con adeguata nozione di causa. Storia e storicità, come ben sa Del Ponte, al contrario, preservano l’esperienza umana radicandola in una tradizione di beni veri, meritevoli di essere tramandati con adeguato beneficio di inventario: ktema eis aei, possesso per sempre, per dirla con Tucidide, acquisto durevole capace di tesoreggiare l’umana esperienza sfidando gli insulti del tempo.
Il saggio di Del Ponte, nel suo incisivo procedere, è imperniato sulla concreta dialettica storia umana/tradizione classica: intentio profundior fontaliter considerata,che anima il CLE, Centro di Latinità Europea, del quale Del Ponte è presidente della sezione italiana e che trova nella Pontificia Università Salesiana un partner di rilievo.
Il testo in esame si articola in tre capitoli rispettivamente dedicati: il primo, alla questione radici storiche e attualità della latinità storica e linguistica, considerata nelle sue attuali varianti romanze; il secondo, al dibattito sull’utilità del latino e sul suo valore nell’epoca presente e futura; il terzo, presenta una antologia di scritti afferenti alla latinità sia diacronica che sincronica.
Per quanto riguarda il secondo, circa l’utilità del Latino in ogni tempo, Del Ponte cita varie e svariate testimonianze in senso spazio-temporale: da quella di Monaldo Leopardi che vede nel latino uno scudo contro” Il secol superbo e sciocco delle magnifiche sorti e progressive”, a quella di Luciano Canfora che ne vede l’utilità per la formazione di un’adeguata coscienza storica ed etico-politica, o del matematico Giorgio Israel che vede nelle lingue classiche un tesoro per la formazione della mente umana. Esse infatti, non essendo più parlate, sono state studiate e approfondite dal punto di vista storico e logico-linguistico mettendo così in evidenza una sorta di grammatica e sintassi generativa universale, per dirla con l’acuto linguista Noam Chomsky, sulla scorta del quale Roberto Busa, pioniere della linguistica informatica e computazionale, oltre che latinista di valore, parlerà di logica e ontologia generative del pensare-parlare- dire-fare umani collegando in concreto parole-concetti- cose. Da parte sua Paola Mastrocola, appassionata docente liceale e intelligente autrice di testi felicemente polemici sulle attuali derive scolastiche, come La scuola spiegata al mio cane sul burocraticismo scolastico tutto teso a compulsivo programmare e valutare, o Togliamo il disturbo sulla fine della professione docente ridotto a speaker sottopagato della comunicazione di massa in qualità di banale facilitatore della cosiddetta società della conoscenza in forma di supermarket.
E’ chiaro che in tale condizione non ha più senso alcun giudizio di merito e capacità degli allievi ridotti ad utenti e consumatori di pubblici servizi, insieme con i loro genitori, e nemmeno dei docenti, meri erogatori passivi dei medesimi senza più alcuna responsabilità morale quanto a diritto-doveri di natura etica e intellettuale, ma solo autorizzati al loquimini nobis placentia: parlateci di ciò che ci piace, ché al supermercato tutti sono invitati ad acquistare ciò che più pare e piace, senza alcun distinzione di capacità e merito. Il che è istituzionalizzato nell’attività promozionale delle scuole nelle varie open day di rito autunnale.
Ultimo riferimento è di nuovo alla proposta Bettini che, mancipia del de/costruzionismo francese nega qualsiasi valore oggettivo a un canone di testi esemplari universalmente validi, giacendo tutti sul medesimo piano: tutti costruibili, de-costruibili, ricostruibili a piacere a mo’ di meccano o Lego secondo i gusti soggettivi dei diversi fruitori.
Nella terza parte Del Ponte presenta un’antologia simpaticamente occasionale di autori di lingua latina del periodo soprattutto classico. In essa i testi più rilevanti sono quelli di Ammiano Marcellino sui barbari che violano i Limina romani, di Sallustio Crispo sulla corruzione a Roma, di Gregorio di Tours sulla decadenza dell’impero, di Cicerone nelle lettere ai familiari, di Petronio sul Satyricon, testo quanto mai attuale con i Trimalcione di turno, di Ugo di San Vittore sul tema del Didascalikon, di Tacito e di Seneca sulla deriva psicopatologica di Claudio, trasformato in zucca, e di Svetonio ancora su Claudio.
Notevole tra queste la valenza attuale del passo di Tacito sia sulla storia, sia sulla questione dell’educazione a Roma che, nelle sue modalità fondamentali, coglie a livello etimologico, semantico e pragmatico le caratteristiche essenziali dell’istruire educando. Non meno stimolante la proposta del passo di Svetonio su Claudio. L’immagine dell’imperatore romano esce impietosamente definita, e a ragione Del Ponte rileva la sconcertante attualità di questo ritratto nei suoi aspetti aneddotici e ridicolizzanti.

Apologia della conoscenza storica oggi quasi ovunque sotto attacco

“Il liceo classico ci ha corrotti” disse Luigi Berlinguer, ministro della pubblica istruzione del primo governo Prodi, esattamente 24 anni fa, il quale, non a caso con il colpo di mano di un de-cretino-legge, distrusse lo studio della storia antica e medievale nell’a.s. 1997/98 già in corso, schiacciandola sul preteso studio del ‘900, logicamente sconvolto e distrutto pure quello. La storia, infatti, come la natura non facit saltus, e sconvolgere il suo consolidato ritmo di sviluppo ( preistoria, storia antica, medioevale, moderna e contemporanea ) risulta in concreto nefasto per l’intero sviluppo esplicativo dell’umana esperienza.
Al riguardo è interessante notare, come fa Luciano Canfora, filologo classico e storico anche moderno e contemporaneo di valore, che Alexis del Tocqueville ne La democrazia in America, parte seconda, già aveva avvertito che “gli studi classici producono cittadini pericolosi” e, prima di lui, Thomas Hobbes, mirando a rafforzare lo stato assoluto inglese, consigliava di neutralizzare due pericoli per il medesimo ed entrambi da proibire:
Il primo era il celibato dei preti, così troppo liberi e indipendenti, mentre costringendoli a contrarre matrimonio, lo Stato Assoluto li legava a sé controllandoli meglio, anche per il fatto che, tenendo famiglia, erano più ricattabili dallo Stato, dal quale dipendevano in tutto e per tutto; il secondo pericolo derivava dal fatto che permettere lo studio di letteratura, pensiero e storia delle civiltà classiche, greca e latina, fornisse troppi esempi di libertà di vita, pensiero e azione, pericolosi per la formazione di giovani sudditi, atti a “credere, obbedire e combattere”, con “obbedienza pronta, cieca e incondizionata” al Leviatano dello Stato Assoluto.

Dunque partita chiusa? Per niente, anzi. Tutta la scuola di ogni ordine e grado è da restaurare e rinnovare ab imis fundamentis, non solo il Liceo Classico, del quale è auspicabile un fecondo connubio con lo Scientifico, creatura specifica della riforma Gentile del 1923. Esso deve saper così offrire, in modo concreto, con metodi efficaci (mezzi idonei ai fini) e risultati efficienti (costi ordinati ai benefici), sia conoscenze fisico-matematiche sia conoscenze delle lingue antiche, non morte, ma vive e vitali matrici della tradizione e civiltà classico-cristiana (latino, greco e, magari, ebraico), radici della civiltà europea nella sua valenza di portata universale.
Ma qui, come già anticipato, siede un convitato di pietra.
La posta in gioco infatti – nota Luciano Canfora – non è la coppia, per gli sprovveduti malfamata, delle lingue greca e latina, bensì il sapere storico come tale, in via di rimozione e censura in ogni tipo di istituzione scolastica.
Onde mentre si fa chiasso e si blatera senza senso circa l’inutilità di insegnare e imparare lingue cosiddette morte e sepolte, si mira invece a ridurre ed eliminare studio e insegnamento della storia simpliciter.
Un sapere che già un nefando imperatore della Cina del II secolo avanti Cristo considerava “pericoloso per il governo in carica”. Così, a rischio è il senso della memoria: attualità del passato come presente storico.

Postilla conclusiva sul Latino e le sue insostituibili virtù

Al riguardo ci piace concludere la presentazione di questo bel testo con le parole di Giovannino Guareschi, il quale racconta:“Questo è il mio primissimo contatto con il latino, una delle cose più pulite che esistono al mondo. Leggendo un testo di latino non si troverà mai una parola in più del necessario, una parola inutile. Non è vero che lo studio del latino non serva a nulla. E non è neppur vero che il latino sia una lingua morta. Il fatto che non lo si parli più ha un’importanza relativa: il latino è talmente vivo che, oggi, non esiste lingua parlata capace di esprimersi con tanta precisione e con così scarso numero di parole. Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un pubblico discorso e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto “sonoro”, potrà parlare un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino.” (cfr G. Guareschi, Chi sogna nuovi gerani? AutobiografiaRizzoli, Milano, 1993).