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Davvero Dio può aver creato le tenebre?

by Mariapina Dragonetti

Lo statuto delle tenebre e l’esegesi di Isaia 45,7
nel De opificio mundi (II, 6-8) di Giovanni Filopono

di Emanuele Maffi

in Zetesis 2024/1


Nel Proemio (pp. 72, 13-74, 5) del De opificio mundi[1] Giovanni Filopono, dopo essersi attribuito il merito di aver scritto due trattati filosofici a sostegno della creazione del cosmo (De aeternitate mundi contra Proclum e De aeternitate mundi contra Aristotelem), afferma di essere stato accusato da alcuni esegeti della Sacra Scrittura, come Teodoro di Mopsuestia e, soprattutto, Cosma Indicopleuste,[2] di aver trascurato le parole di Mosè riguardo alla creazione del mondo. Filopono è stato inoltre accusato di non basarsi sulla verità della Scrittura ma unicamente sulla scienza e sulla filosofia greca per spiegare la generazione del cosmo[3]. Per contrastare queste accuse, egli ha seguito il percorso tracciato da Basilio di Cesarea nelle sue omelie sull’Esamerone e ha scritto il De opificio mundi, un commento al primo libro della Genesi.
Lo scopo di quest’opera è, in particolare, esaminare le parti del racconto mosaico della creazione del mondo che erano state omesse da Basilio e che sono ancora ritenute incoerenti con i fenomeni osservati (I, 1, 76, 4-12).[4] In quest’opera, Filopono utilizza un metodo esegetico che evita le interpretazioni spesso arbitrarie comunemente trovate nell’esegesi allegorica, così come il semplicistico letteralismo confinato a un’aderenza pedante alla formulazione letterale della verità rivelata. Egli impiega un approccio esegetico definito da Ottobrini come “letteralismo critico”.[5] Pur rispettando la formulazione letterale del testo sacro, questo metodo mira a estrarre gli argomenti intrinseci impiegando concetti e strumenti della filosofia greca.
L’analisi di Filopono sullo statuto ontologico dell’oscurità primordiale è particolarmente interessante all’interno di questo contesto perché il Commentatore dimostra la sua capacità di utilizzare un termine (παρυπόστασις) che ha un significato specifico nel neoplatonismo tardivo, in particolare nelle opere di Proclo. per spiegare l’origine e la natura delle tenebre, giustificando così la validità degli argomenti presenti nella lettera del testo. L’indagine sulla natura dell’oscurità costituisce una convincente illustrazione del modo in cui il bagaglio filosofico di Filopono diventa uno strumento essenziale per lui in quanto esegeta delle Sacre Scritture. Nel caso specifico preso in considerazione, egli è chiamato a fornire un’interpretazione adeguata del capitolo 45,7 del Libro di Isaia, in cui Dio dichiara: «Io faccio la luce e creo le tenebre; io faccio la pace e creo il male».

I.   Tenebra primordiale e luce primordiale: alcune osservazioni introduttive

Il primo riferimento che Filopono fa allo statuto delle tenebre si trova in De opificio I, 5; in questo capitolo, egli spiega che, secondo la Scrittura, il cielo e la terra costituiscono gli elementi estremi del cosmo entro i quali sono situati gli elementi intermedi – aria, acqua e fuoco. Questa comprensione dei tre elementi all’interno del cielo e della terra è immediatamente confermata in Gn 1, 2 (LXX), «E le tenebre erano sopra la faccia dell’abisso»: questo è possibile, secondo Filopono, solo se si interpreta le tenebre come aria non illuminata e l’abisso come acqua.

T1 (De opificio mundi I, 5, 96, 5-11)

E infatti sia l’uso sia l’abitudine di tutti sia la Divina Scrittura chiamano la condizione notturna dell’aria e soprattutto la sua opacità e il suo totale silenzio a motivo della privazione della luce conseguente all’aria in cui suscita anche la luce presso di noi, ebbene chiamano conseguentemente tenebra l’aria completamente senza luce. Propriamente, infatti, tenebra è la mancanza e la privazione della luce.

È importante notare che Dio, in questo contesto, non sta creando le tenebre; sta, invece, generando gli elementi fondamentali del cosmo. Tuttavia, si potrebbe sostenere che, come risultato di un altro processo generativo (quello attraverso il quale Dio crea il cielo e la terra, includendo aria, acqua e fuoco al loro interno), le tenebre primordiali giungano all’esistenza. Il testo sacro afferma che le tenebre erano sopra l’abisso, conducendo così Filopono a dedurre la necessità che l’aria doveva essere già stata creata; le tenebre, altrimenti, non avrebbero potuto esistere, poiché dipendono, riguardo la loro esistenza, dalla presenza dell’aria.

Tuttavia, poiché la luce non era ancora stata generata, i corpi trasparenti potevano esistere solo in uno stato di tenebra, determinato dalla completa assenza di luce. Le tenebre primordiali acquistano la loro esistenza nel momento stesso in cui aria e acqua sono create perché possono esistere solo in presenza dei altri corpi e in particolare dell’aria. Definendo la tenebra primordiale come l’assenza e la privazione della luce nell’aria (ἡ τοῦ φωτὸς ἀπουσία καὶ στέρησις) e come qualcosa che viene ad esistere solo quando vengono generate l’aria e l’acqua, Filopono sembra lasciar chiaramente intendere che le tenebre primordiali non siano generate da una causa agente o di per sé. Per giunta, essendo caratterizzate da assenza e privazione, le tenebre non sembrano appartenere alla categoria delle entità generate da una causa propria. Tuttavia, nel primo libro, dopo aver stabilito che l’aria e l’acqua sono inizialmente comprese all’interno del cielo e della terra e generate insieme a loro, Filopono riporta la sua attenzione sull’altro elemento primordiale, il fuoco. La discussione riguardante la natura delle tenebre è momentaneamente messa da parte, ma sarà ripresa più avanti, specificamente nel sesto capitolo del Libro II. Il titolo del capitolo è notevolmente significativo: Le tenebre non sono né sostanza né qualità, ma solamente l’assenza di luce, il suo opposto.[6] All’inizio di questo capitolo, Filopono fa riferimento a De op. I, 5, sostenendo che se Mosè, affermando «E le tenebre erano sulla faccia dell’abisso» (Gn 1:2 LXX), intendeva significare le tenebre come aria non illuminata, allora ne consegue logicamente che «esiste una distinzione tra l’esistenza dell’aria e la sua illuminazione o non-illuminazione, che è chiamata tenebre». Ciò implica che la luce sia un attributo dell’aria ma non necessariamente una sua qualità essenziale, poiché l’aria può esistere senza essere illuminata. Proprio come nel caso delle tenebre, la presenza della luce non è un requisito essenziale per l’esistenza dell’aria. Tuttavia, ciò non significa che luce e tenebre condividano una natura simile che differisce solo nelle proprietà opposte, come, per esempio, il caldo e il freddo.
Diventa quindi essenziale approfondire brevemente la complicata questione riguardante lo statuto della luce primordiale nel De opificio mundi, così da chiarirne la natura e distinguerla strutturalmente dalla tenebra. La questione è complessa e presenta alcune difficili sfide concettuali; tuttavia, Filopono sembra individuare una luce primordiale, generata nel primo giorno della creazione immediatamente dopo la formazione del cielo e della terra e dei quattro elementi[7]. Questa luce differisce dalla luce attuale che agisce nell’universo dopo la creazione dei luminari (il sole, la luna e le stelle) nel quarto giorno. La luce primordiale  infatti viene portata all’essere dalla potenza divina come una forma incorporea, esistente temporaneamente senza la sua materia corrispondente, vale a dire senza la sostanza dei luminari. Questa luce, fatta esistere dal comando divino, richiede aria e acqua come mezzo per diffondersi in tutto il cosmo. Filopono spiega la diffusione della luce nel primo giorno come segue: « Ma come anche nella nostra esperienza ciò che proviene dal sole si trova nei corpi diafani senza il corpo solare, avendo bensì come supporto gli stessi corpi diafani, parimenti al dire di Dio: “Sia fatta la luce” (Gn 1, 3 LXX), quanto fa il sole mediante i corpi diafani illuminandoli, altrettanto fece questo divino comando in essi, comandando che la luce splendesse come su supporti.» (De op. 216, 6-11). Generata come una forma immateriale dei luminari, la luce si diffonde gradualmente in tutto il cosmo come una qualità intangibile su mezzi quali l’aria e l’acqua, dotandoli di chiarezza e trasparenza.[8] Quando, nel quarto giorno, Dio crea i luminari composti di materia e di luce come loro forma essenziale, il sole diventa la fonte continua e immutabile che emette luce. Questa luce, a sua volta, si diffonde nell’aria e nell’acqua, apparendo e scomparendo a seconda dell’emisfero, ossia a seconda del fatto che il sole si trovi sopra o sotto l’orizzonte terrestre. Grazie a questa comprensione generale non solo di cosa sia e di come sia stata creata la luce primordiale ma anche di come la luce attuale sia fornita dai luminari, possiamo procedere a esaminare l’analisi di Filopono sullo statuto delle tenebre. Da quanto emerso in De opificio I, 5, la tenebra primordiale non sembra esistere per mezzo di una sua propria causa efficiente ma piuttosto in modo accidentale, come effetto derivato da azioni causali finalizzate a generare altri elementi; ciò indica che la sua esistenza manchi di pianificazione deliberata o predefinita.

II.   Lo statuto della tenebra: somiglianze tra i commenti di Filopono alla opere di Aristotele e il  De opificio mundi

L’indagine sullo statuto delle tenebre inizia con una domanda di fondamentale importanza: che cosa definisce la natura delle tenebre? Si possono considerare un tipo specifico di ousia o una qualità?

T2 (De opificio mundi, II, 6, 200, 15-202,2)

Ora, per quanto ci riguarda, la ricerca verta sulla tenebra nell’aria sia che esista una qualità che le venga attribuita come la luce e l’eccesso di caldo e il freddo – che non sia infatti sostanza è patente – ovvero se non sia nessuna di queste due, cioè né sostanza né qualità ma solo privazione e assenza della luce che è il suo opposto, come ciò che è insipiente, come ciò che è inimico, il senza casa, il non-uomo, l’illetterato, l’incolore e così via: infatti tutti questi nomi mostrano solo l’assenza dell’opposto

In questo passaggio, Filopono respinge decisamente l’ipotesi che le tenebre siano una sostanza senza avvertire la necessità di ulteriori discussioni al riguardo. Nelle righe precedenti, egli fa solo uno sbrigativo riferimento alla «speculazione empia dei Manichei», la cui erronea dottrina è considerata una prova sufficiente per escludere la sostanzialità delle tenebre[9]. Ciò che Filopono considera cruciale è piuttosto dimostrare che le tenebre non possono essere considerate una qualità inerente all’aria, a differenza del calore, del freddo e della luce. Recuperando la nozione di στέρησις che egli aveva precedentemente esaminato nei suoi commentari alle opere di Aristotele, Filopono sottolinea che l’opposizione tra luce e tenebre non dovrebbe essere percepita come un contrasto tra qualità contrarie. Invece, egli la pone come una relazione basata sulla contrapposizione tra  habitus (o stato) e privazione. Questa prospettiva scoraggia l’attribuzione alle tenebre dello status di qualità, poiché una qualità non può essere caratterizzata in termini di  privazione. All’interno di questa cornice, in De opificio II, 6, 204, 1 ss., Filopono enumera alcuni termini (insipido, senza casa, senza amici, privo di saggezza, non umano, non qualificato) i cui significati derivano dall’assenza e dalla negazione dell’habitus. Il senza amici non è un individuo che possiede qualità contrarie all’amicizia, poiché ciò caratterizzerebbe un nemico, ma piuttosto qualcuno privo di amici. Allo stesso modo, l’analfabeta non è qualcuno con attributi contrari all’intelligenza, ma qualcuno privo di conoscenze specifiche. Allo stesso modo, il non illuminato – come conclude Filopono in 204, 14-18 – non possiede qualità opposte alla luce, ma è invece l’essere privo di luce: questa condizione di assenza di luce è definita tenebra, così come l’assenza di vista è denominata cecità, e l’assenza di udito è chiamata sordità. Alcuni di questi termini, tratti dal lessico della privazione, sono presenti anche in  in Cat. 180, 12 ss. In quel contesto, Filopono li ha impiegati per lo stesso scopo: illustrare che questi termini derivano esclusivamente dalla negazione della presenza dell’habitus e, quindi, indicano solo la privazione. Nel De opificio, Filopono sta riprendendo e approfondendo osservazioni che aveva precedentemente svolto nel suo commento alle Categorie, come risulta evidente da una breve analisi di un rilevante brano di questo commento (in Cat. 180, 1-20). In questo passo, Filopono inizialmente sostiene che « anche se ci fosse una privazione più specifica che è opposta a un certo habitus, non sarebbe opposta come essere, ma come non essere secondo la negazione dell’habitus»[10] (in Cat. 180, 10-13). Il commentatore illustra poi questo punto con degli esempi in cui la presunta specie di privazione deriva esclusivamente dalla negazione dell’habitus o stato: l’insipienza, opposta alla saggezza, e la mancanza di denti, opposta all’avere denti, sono termini generati solo dalla negazione di un preciso habitus. Come correttamente afferma Granata qui «Filopono vuol escludere in ogni modo che la privazione sia essere e lo fa anche con l’ausilio del lessico della privazione. Egli ricorda che le privazioni dell’habitus sono significate da nomi che derivano dalla negazione dell’habitus e, quindi, significano il non essere».[11]
In questo modo, Filopono risolve l’aporia da cui era partita la sua analisi: anche se, in modo inappropriato, si potessero identificare specie di privazione, queste specie non apparterrebbero al regno degli enti esistenti. Tali specie infatti non potrebbero opporsi alle specie appartenenti al genere ‘habitus’ all’interno degli enti esistenti perché ciò che è erroneamente considerato specie del genere ‘privazione’ può esistere a livello linguistico, ma, a livello ontologico, è propriamente la sola assenza di un habitus specifico in un recipiente o in qualcosa che è toccato da questa assenza.[12]
Dal commentario di Filopono alle Categorie, risulta evidente che la privazione non può essere considerata l’opposto dell’habitus. Piuttosto, è meglio intenderla come l’assenza o la negazione dell’ habitus all’interno di un’entità o di un sostrato specifico. Questa interpretazione deriva dalla stessa definizione di privazione come non-essere (τὸ μὴ ὄν) o causa del non-essere (τοῦ μὴ εἶναι αἰτία).[13]
Inoltre, poiché la privazione è descritta come l’assenza di un habitus, non può essere indagata isolatamente perché, propriamente parlando, è un non-essere, ma va esaminata solo in relazione agli enti esistenti.[14] Pertanto, le στερήσεις « giustamente sono dette degli organi <che le accolgono> e non degli habitus: infatti, le affezioni sono dei corpi che soggiacciono agli habitus e non degli habitus» (pp. 180, 25-27).[15] Quest’idea è applicato direttamente all’oscurità in De opificio I,5 e II,6: l’oscurità non è né una sostanza né una qualità; piuttosto, essa rappresenta l’assenza di una determina forma e attività nell’aria. Prendendo in prestito il lessico della privazione che aveva già impiegato nel suo commentario alle Categorie, Filopono sottolinea che la sua analisi della natura dell’oscurità nel De opificio mundi trova il suo fondamento filosofico proprio nei suoi commentari alla filosofia di Aristotele.
Sia nel suo commentario alle Categorie che nel suo commentario su De anima, Filopono approfondisce argomenti che vengono successivamente utilizzati nel De opificio per chiarire il vero significato delle parole di Mosè. Questi argomenti ruotano principalmente attorno alla nozione di privazione come assenza di forma, sottolineando specificamente che la tenebra, in quanto privazione, è un non-essere (non è né una ousia né una qualità) perché manca di forma (εἶδος), potenzialità (δύναμις) e attività propria (ἐνέργεια). Questo è evidente anche nel seguente passaggio tratto dall’In De anima:

T3 (In De an. 341, 37-342, 7 Hayduck)

Così il buio è in un certo senso un contrario, e in un altro senso non è un contrario, e allo stesso modo sotto un certo rispetto una privazione, sotto un altro non lo è. Se infatti qualcuno dice che privazione è qualcosa che non ritorna alla forma [cioè lo stato positivo di possesso], la tenebra non è una privazione bensì un contrario. Ma se uno dicesse che la “privazione”, come è stato detto nella Fisica [1.7], è solamente l’assenza di forma, di qualcosa che può anche ritornare alla forma, allora la tenebra sarebbe una privazione. Inoltre, se qualcuno dovesse dire che i contrari sono cose che sono dotate di forma e hanno [ciascuno] la loro potenzialità e attività, la tenebra non è contraria alla luce; perché non ha forma né un potenza propria né una attività propria. Ma se uno dicesse che semplicemente sono contrari tutte le cose che si trasformano l’una nell’altra, allora la tenebra sarebbe contraria alla luce[16].

In questo brano, non solo viene presentata la nota tesi per cui la tenebra è la privazione della luce, ma vengono esaminate anche le condizioni in virtù di cui la tenebra costituisce un tipo di privazione. La tenebra rappresenta uno stato di privazione non permanente perché, ad esempio, l’aria può perdere la sua luminosità e poi riacquistarla. Non a caso in De opificio II, 7, Filopono distingue tre classi di privazione: la prima consiste in privazioni che preesistono alle sostanze (l’uomo è creato dal non-uomo), la seconda include privazioni che le seguono (come qualcuno che era vedente e diventa cieco), e la terza, come indicato in T3, comprende privazioni che possono esistere in entrambi i modi in tempi diversi (ad esempio, una persona non qualificata in un primo momento manca della competenza, poi la acquisisce, e successivamente può perderla). La tenebra appartiene a quest’ultima classe di privazioni; infatti «prima che la luce fosse creata, l’aria era non illuminata; ma anche una volta che sia stata creata, poiché il sole scende sotto l’orizzonte, l’aria illuminata torna a essere non illuminata» (II, 7, 206, 13-15).[17] È interessante notare che in De opificio II, 7, Filopono non solo utilizza ma anche amplia un quadro di possibili distinzioni all’interno del concetto di privazione, un quadro che aveva precedentemente delineato nei suoi commentari alle opere di Aristotele. Inoltre, in T3, Filopono chiarisce perché la relazione tra oscurità e luce costituisce una relazione di contrarietà. Questa relazione tra oscurità e luce è percepita come una contrarietà debole perché entrambe sono considerate contrarie solo nel senso che possono trasformarsi l’una nell’altra, non perché l’oscurità possieda una forma e una potenzialità opposta a quella della luce. Questa idea, come è noto, corrisponde al tipo di contrarietà descritta sia nel commentario alle Categorie sia in De opificio mundi come l’opposizione che caratterizza il legame tra habitus  e privazione.

III.   Gli argomenti di De opificio mundi II, 6 contro la tesi per cui la tenebra è una qualità

Se è vero che il De opificio riprende la definizione di tenebra, già proposta nei commentari ad Aristotele, è altrettanto vero che nel suo commentario al primo libro della Genesi, Filopono sottolinea, con molta più forza rispetto ai suoi precedenti commentari, il fatto che la tenbra non possa avere una causa efficiente-produttrice. Filopono afferma esplicitamente in II, 6, 200, 10-12: « […] cerchiamo qui se, come Dio ha dato a esistere la luce dicendo “Sia creata la luce” (Gn 1, 3 LXX), così anche ci sia della tenebra di per sé un creatore». Inoltre, l’argomentazione successiva a questo brano serve ad affermare che l’oscurità non può essere considerata una qualità in quanto è priva di una causa produttrice intrinseca. A sostegno di questa tesi, il commentatore presenta due argomenti convincenti. Il primo argomento può essere articolato come segue: se la relazione tra luce e oscurità fosse considerata un’opposizione simile a quella tra caldo e freddo, dovrebbero esserci cause produttrici dell’oscurità accanto alle cause efficienti della luce (come, ad esempio, il sole, la luna e il fuoco) che sono molteplici e percettibili. Queste cause produttrici della tenebra dovrebbero anche essere molteplici ed evidenti. Tuttavia, non esiste una causa evidente e percepibile di per sé della tenebra. La buona ragione di ciò risiede nell’impossibilità di sostenere la necessità di una causa produttrice per qualcosa che è in sé assenza o privazione: una forma di non-essere infatti non può avere una causa produttrice. Filopono articola questo punto a p. 202, 9-12:

T4 (De opificio, II, 6, 202, 7-12)

Se dunque sono qualità opposte la luce e le tenebre come il caldo e il freddo, il bianco e il nero, dacché è evidente la causa efficiente di ciascuna delle due qualità contrarie, come il fuoco o il sole del riscaldarci e la neve, il ghiaccio e l’acqua dell’intorpidirci; se così si contrappone alla luce la tenebra, sarebbe stato assolutamente necessario che, come le cause efficienti della luce sono chiaramente sole luna stelle e questo fuoco che è presso di noi, così bisognava che anche della tenebra ci fosse e apparisse una causa efficiente.

È essenziale sottolineare che verso la fine di questo primo argomento contro la tenebra come qualità, Filopono utilizza per la prima volta il verbo παρυφίστημι, indicando il particolare modo di esistenza che sembra essere associato alle tenebre[18]. Solo poche righe dopo, il commentatore usa il sostantivo παρυπόστασις per descrivere precisamente il tipo di esistenza dell’oscurità. Poiché lo stato ontologico dell’oscurità è un aspetto centrale di quest’opera, approfondirò a breve il significato di questo verbo e del sostantivo a esso correlato in questo contesto. In De opificio 202, ll. 13-22, Filopono presenta il secondo argomento. Quando due qualità sono contrarie, di solito accade che una svanisca gradualmente e venga sostituita dalla qualità opposta. Ad esempio, vicino al fuoco o al sole, il nostro corpo si riscalda ed espelle il freddo, mentre in mezzo al gelo e alla neve accade il contrario. Se la relazione tra luce e oscurità fosse analoga a quella tra caldo e freddo, allora sarebbe necessario che le cause efficienti delle tenebre rimuovessero progressivamente e gradualmente la luce dall’aria e introducessero l’oscurità al suo posto. Tuttavia, poiché, nell’opposizione tra oscurità e luce, tale processo non avviene, Filopono conclude che questa relazione non può rappresentare una opposizione tra qualità contrarie.

T5 (De opificio mundi, 202, 13- 204,3)

E quanto ai contrarii, considera il nostro corpo quando è freddo, al sopraggiungere di calore da parte del sole o del fuoco o di qualche altra causa, il freddo è rimosso progressivamente dal calore e lo stesso calore invade il nostro corpo. Così dunque bisognava che anche le cause efficienti della tenebra rimovessero la luce dall’aria e vi generassero la tenebra. Ma qui non vale nulla di simile, bensì l’assenza di un principio illuminante puramente da sola dà sussistenza alla tenebra come anche la nube, sottentrando al sole, fa ostacolo ai raggi solari e l’aria diventa non illuminata per la loro mancanza: ciò è chiamato tenebra. Di qui è chiaro che la luce e la tenebra si contrappongono vicendevolmente non come i contrari ma soltanto come l’abito e la privazione, in cui la privazione non è null’altro che la sola assenza dell’abito.

Ancora una volta, come nel caso della discussione sulle tenebre, troviamo un precedente per questi due argomenti nel commentario di Filopono al De anima  e precisamente alla pagina 342, 10-16. Anche in questo testo, Filopono fornisce prove sull’impossibilità che la tenebra abbia una forma (εἶδος) o sia una qualità (ποιότης) a partire proprio dal fatto che  essa manchi di una causa efficiente propria.

T6 (in De an. 342, 7-15 Hayduck)

E che la tenebra non sia una forma dovrebbe essere chiaro anche dal seguente ragionamento. La causa della luce è il sole o il fuoco o la luna o qualcosa di simile, mentre non vediamo nulla che sia causa delle tenebre, ma è sufficiente la semplice assenza di ciò che illumina per l’esistenza delle tenebre. Ma l’oscurità non è nemmeno una qualità dell’aria, come si potrebbe eventualmente supporre. Se fosse una qualità dell’aria, perché non è visibile alla luce? Perché scompare immediatamente alla presenza della luce? Nessuna qualità si separa dal suo soggetto in modo istantaneo. Ma se l’oscurità è l’assenza dell’attività che illumina, ne consegue che la luce è un’attività. Ma nessuna attività è un corpo, quindi la luce non è un corpo.

Non è difficile notare che gli elementi fondamentali di entrambi gli argomenti presentati nel De opificio si ritrovano già all’interno di questo brano. Il primo argomento nel De opificio si basa sul fatto che la luce ha cause evidenti e osservabili, mentre la tenebra manca di tali cause: l’assenza di cause evidenti e osservabili per la tenebra, come è stabilito nel commentario al De anima, contraddice la possibilità che l’oscurità possieda una sua forma propria e distinta. Il secondo argomento nel De opificio si basa sul principio che nessuna qualità può svanire istantaneamente quando emerge la qualità opposta. Generalmente, nelle discussioni sul passaggio da una qualità all’altra, il passaggio da uno stato all’altro è percepito come graduale. Tuttavia, nel commentario al De anima, il passaggio pressoché immediato e brusco dalla tenebra alla luce contraddice l’idea che l’oscurità sia una qualità e conduce il commentatore a sostenere la validità della tesi contraria, ossia che la tenebra non è una qualità. Nel De opificio, l’assenza di un passaggio graduale dalla luce all’oscurità rafforza ulteriormente l’affermazione di Filopono secondo cui la tenebra manca di causalità per se stessa. Per illustrare questo punto Filopono fornisce l’esempio di una nuvola che oscura la luce del sole con l’intento di mostrare la formazione istantanea delle tenebre. Proprio a causa di tale istantaneità consegue che il buio manchi di una propria causa produttiva. Filopono considera questo esempio degno di nota, poiché istanze simili sono riportate anche in De opificio II, 8, come si vedrà a breve.

IV. De opificio mundi II, 8 e la  corretta esegesi di Isaia45,7

In questo capitolo, Filopono cerca di chiarire la corretta interpretazione del Libro di Isaia 45,7: «Io sono colui che ha formato la luce e creato l’oscurità, colui che porta la pace e causa la calamità». Il problema principale, nell’adottare una lettura semplicistica e letterale di questo versetto, è piuttosto evidente: se tutte le cose create da Dio possiedono un’ousia (come indicato a p. 208, 3: οὐσίωται), e se Dio è veramente il creatore dell’oscurità e del male, come affermato dal profeta, allora Dio, la causa primaria e l’abile artefice dell’intero universo, diventa apparentemente il creatore del male e dell’oscurità, trasformandoli in ousiai. Questa lettura, tuttavia, contraddice la natura intrinsecamente buona di Dio. Per comprendere la soluzione di Filopono a questo dilemma, occorre mettere in luce le fondamenta filosofiche della soluzione elaborata dal commentatore.

T7 (De opificio, II, 8, 208, 10-210, 4)

Come colui che ha fatto la tenda o qualsiasi apertura luminosa, attraverso cui la luce si spanda in una casa, se la schermasse si potrebbe dire che egli ha creato la tenebra all’interno – non avendola purtuttavia prodotta di per sé ma con l’azione di schermare l’accesso alla luce e si dice che ha creato la sua privazione, cioè la tenebra, per accidente – parimenti anche chi ha creato prima della luce i corpi diafani, in cui hanno luogo sia la luce stessa sia la sua privazione che è la tenebra, conseguentemente si potrebbe dire che abbia creato anche la tenebra stessa, per il fatto che i corpi diafani non sono ancora illuminati. Ed è di nuovo chiaro che non di per sé è stata creata ma per accidente (καὶ δῆλον πάλιν, ὅτι μὴ καθ’ αὑτὸ γέγονεν ἀλλὰ κατὰ συμβεβηκός): i corpi diafani, infatti, per il fatto di non essere ancora illuminati si trovano a essere non luminosi, come anche chi abbia spento una lampada nottetempo si potrebbe dire che nella casa in cui era la lampada abbia creato la tenebra non di per sé bensì, come ho detto, accidentalmente (ποιῆσαι σκότος οὐ καθ’ αὑτό, ἀλλ’ ὡς εἶπον κατὰ συμβεβηκός). Qualcuno potrebbe dire che anche l’assenza del medico sia per lui causa di malattia o del fatto che il paziente non goda di buona salute e che il fatto che non ci sia il maestro sia causa dell’ignoranza del discepolo. Chiaro che per accidente entrambi sono causa l’uno della malattia, l’altro dell’ignoranza del discepolo; così anche chi ha creato i corpi diafani prima che la luce fosse creata, si potrebbe dire abbia creato la tenebra. Identicamente, colui che ha creato anche gli elementi di schermo si potrebbe dire aver creato la tenebra per accidente. Non esistendone ancora l’abito, infatti, è necessario che ce ne sia la privazione nei recipienti (ἐν τοῖς δεκτικοῖς).

In T7, Filopono utilizza due metafore – analoghe, per scopo e funzione, a quella di una nuvola che blocca la luce del sole generando così il buio – per illustrare come potrebbe essere sorta la tenebra primordiale nel processo creativo divino. Proprio come in una tenda, se l’ingresso della luce è ostruito per qualsiasi motivo, l’oscurità è generata accidentalmente, non di per sé, perché l’atto di schermare l’apertura della tenda non è la causa diretta della generazione dell’oscurità. Qui la causa di per sé è chiaramente intesa da Filopono nei termini della causa produttrice o agente: il falegname è la causa agente del tavolo sul quale ora sta il mio computer perché è colui che ha diretto tutte le sue azioni alla costruzione di un tavolo che prima non esisteva. In questo senso si chiarisce meglio l’esempio proposto da Filopono: l’azione che genera l’oscurità non è mai diretta ed efficiente come quella del falegname che fabbrica il tavolo. La tenebra non viene posta in essere da una causa agente che opera intenzionalmente e attivamente per produrla viene a esistere collateralmente in seguito ad azioni finalizzate a generare altri fenomeni. Allo stesso modo, all’inizio della creazione, il cosmo si trovò accidentalmente nell’oscurità: essa era sorta come un effetto non diretto e non intenzionale dovuto alla presenza dei corpi diafani creati direttamente da Dio prima della creazione della luce. L’altra metafora presentata da Filopono rispecchia la precedente: qualcuno che spegne una lampada di notte in una casa ha causato l’oscurità non di per sè (p. 208, 12, 22; cfr. p. 208, 19) ma per accidens (p. 208, 14, 19-20 e 26-27). Il buio è un effetto involontario all’interno di un processo causale diretto che non è materialmente orientato alla produzione delle tenebre. Quindi, è errato affermare che l’oscurità sia stata prodotta intenzionalmente e di per sé.
A livello linguistico, Filopono sottolinea l’inadeguatezza e l’approssimazione di questa modalità espressiva. Ciò è evidente dall’uso della particella ἄν accompagnata dalla forma ottativa del verbo λέγω, che appare cinque volte in una singola pagina.[19] Questi casi indicano che le affermazioni successive non sono del tutto corrette, ma piuttosto appartengono a un linguaggio inappropriato che è diventato prevalente nell’uso comune. In particolare, i due casi di «λέγοιτο ἄν» nelle pagine 210, 1-2 sono degni di nota, poiché stabiliscono un confronto tra le azioni di Dio e l’atto di qualcuno che crea l’oscurità in una tenda bloccando la luce. Questo suggerisce che il creatore dei corpi diafani prima dell’esistenza della luce potrebbe aver involontariamente prodotto la tenebra. Allo stesso modo, l’individuo responsabile della creazione degli elementi schermanti potrebbe essere considerato come colui che ha accidentalmente generato l’oscurità.
Nel tentativo di dissociare qualsiasi intenzione diretta di Dio nell’atto di creare l’oscurità, Filopono presenta anche due analogie basate sul linguaggio comune ordinario. Si potrebbe argomentare che l’assenza di un medico è la causa della malattia di un paziente, proprio come l’assenza di un insegnante risulta essere il motivo dell’ignoranza di uno studente. Tuttavia, è cruciale riconoscere l’ambiguità insita in questa modalità espressiva: l’assenza del medico si configura come mero fattore accidentale e mai come causa diretta della malattia del paziente. La causa efficente della malattia risiede in un agente patogeno come un virus o un batterio. Allo stesso modo, l’assenza dell’insegnante non è la causa diretta dell’ignoranza dello studente; piuttosto, la causa principale di questa ignoranza può essere ricondotta alla distrazione dello studente o alla sua mancanza di studio.
I quattro esempi presentati in T7 dimostrano che nel linguaggio ordinario è possibile attribuire un ruolo causale a qualcosa senza distinguere tra causalità diretta, efficiente e primaria (καθ’αὑτό) e causalità accidentale e secondaria (κατὰ συμβεβηκός). Questa mancanza di distinzione potrebbe essere la ragione per cui anche Isaia si è espresso in questo modo nel versetto in esame.
In questo contesto, Filopono sembra giustificare il versetto del profeta: Dio ha creato le tenebre solo nel senso di un evento accidentale, e in nessun modo intenzionalmente. Ciò è avvenuto durante un processo causale volto a creare non la tenebra, ma piuttosto l’aria e altri corpi diafani prima dell’introduzione della luce. Inoltre, l’uso frequente di λέγειν nell’ottativo con la particella ἄν suggerisce che la frase «creare la tenebra» appartenga a un gergo inappropriato che è diventato accettabile per motivi di economia terminologica.
È utile ricordare che in II, 6, l’oscurità non era stata considerata una qualità, a differenza della luce, appunto perché mancava di una causa efficiente propria. Per l’assenza di una causa καθ’αὑτό, infatti,  Filopono aveva attribuito un’esistenza “parahypostatica” alla tenebra. In De opificio p. 202, 11-12, il Commentatore aveva chiaramente collegato il fatto che l’assenza di una causa efficiente dell’oscurità implicava che l’assenza di luce fosse l’unica ragione per l’esistenza dell’oscurità. Tuttavia, proprio perché è un effetto di una assenza o di una privazione, l’oscurità era considerata una παρυπόστασις. Inoltre, considerando quanto sostenuto in II, 8, si può suggerire provvisoriamente che παρυπόστασις rappresenti una forma specifica di esistenza ossia l’esistenza di qualcosa che è venuto ad essere accidentalmente e collateralmente. Tuttavia, un breve esame del significato del termine ci aiuta a comprendere meglio perché Filopono lo abbia utilizzato in questo contesto.

V.   Il significato di παρυπόστασις in Proclo e Filopono

Preliminarmente, va sottolineato che Filopono prende in prestito il termine παρυπόστασις dal vocabolario di Proclo, che impiega questo concetto per indicare il tipo specifico di esistenza attribuito al male[20]. A partire dal Capitolo 40 di De malorum subsistentia,[21] Proclo si addentra nel problema del male da una prospettiva causale.[22] Concludendo una lunga analisi che inizia con l’illustrazione delle quattro modalità di causalità di Aristotele, egli afferma che nessuna delle forme di causalità di Aristotele è adatta a spiegare l’esistenza del male. Di conseguenza, il male assume la forma di esistenza parassitaria (παρυπόστασις).[23] Questo punto è cruciale poiché indica che nel pensiero di Proclo, e nel tardo Neoplatonismo in generale, la nozione di ‘παρυπόστασις’ può essere adeguatamente compresa solo all’interno di un contesto che analizza le cause proprie ed efficienti (o cause καθ’αὑτό) di qualcosa. Nel Capitolo 50, infatti, quando Proclo discute il concetto di ‘παρυπόστασις’, lo contestualizza immediatamente come la modalità di essere priva della propria causa generativa. Ciò diventa evidente in De malorum subsistentia 50, 3-11.

T8 (De malorum subsistentia, 50, 3-11)

Infatti non può esistere in altro modo ciò che non procede da una causa principale di qualsiasi tipo, non possiede un termine definito in virtù del quale si possa porre in relazione con qualcos’altro, non può avere in quanto tale una crescita dell’essere, mentre ogni realtà che esiste deve derivare da una causa secondo natura – infatti è impossibile che qualcosa venga all’essere senza una causa – e tendere nell’ordine a cui appartiene verso un qualche fine. In quale classe di cose dovremmo, dunque, collocare il male? Forse appartiene agli esseri che esistono accidentalmente e a causa di qualcos’altro, e non da un principio proprio? (trad. Paparella).

Secondo Proclo, il male non può essere collocato nelle ipostasi perché questa parola denota un termine che appartiene a quegli esseri «che procedono da cause verso un fine». È meglio collocare il male nella classe delle παρυπόστασις che, al contrario, denota il modo di esistenza di «esseri che non appaiono attraverso cause in conformità con la natura né risultano in un fine definito» (DMS 50, 22-23). Pertanto, affinché un effetto esista propriamente (κυριῶς), deve derivare da una causa che naturalmente agisce verso un obiettivo specifico e definito. In tali casi, esiste una connessione intrinseca e fondamentale tra la causa e il suo effetto. Ogni volta che un effetto è generato senza intenzioni predeterminate o manca di un legame naturale e intrinseco con la causa efficiente, è descritto come esistente in modo parassitario, esistente accanto e in maniera dipendente (παρά) dall’effetto inteso[24]. Opsomer e Steel osservano acutamente che l’argomento di Proclo è fondato sulla distinzione di Aristotele tra causalità per sé e causalità per accidente[25]. È evidente che lo stesso discorso si può attribuire a Filopono. Attraverso l’analisi di T7, è emerso chiaramente che l’interpretazione di Filopono di Isaia 45,7 si basava sostanzialmente sull’assenza di differenziazione, nel linguaggio quotidiano, tra causalità diretta e primaria (καθ’αὑτό) e causalità accidentale e secondaria (κατὰ συμβεβηκός). Si può pertanto affermare che in II, 6, Filopono ha gettato le basi per dimostrare due capitoli dopo (II, 8) che Dio non è in alcun modo la causa per sé (καθ’αὑτό) delle tenebre. Proprio perché le tenebre mancano di una causa primaria, non possono essere considerate né una sostanza né una qualità. Pertanto, come ha concluso Filopono in II, 6 (in perfetta continuità con Proclo), le tenebre possono esistere solo in modo parassitario, cioè come un risultato prodotto accidentalmente e incidentalmente. In questo contesto, diventa meglio comprensibile il significato soprattutto dei primi due dei quattro esempi presentati in II, 8. Essi evidenziano il fatto che, all’interno di un processo causale produttivo orientato sia materialmente sia intenzionalmente a generare un fenomeno specifico (o ipostasi), può emergere un fenomeno non intenzionale e collaterale. L’esistenza di questo fenomeno è ovviamente collegata al fenomeno intenzionale che si intende realizzare. L’azione di spegnere una lampada e quella di usare dei materiali per schermare un fascio di luce non è un’azione in sé considerabile come causa efficiente direttamente produttrici dell’oscurità, alla maniera in cui invece è considerata tale l’azione del falegname che produce il tavolo; mentre le azioni del falegname infatti costituiscono un insieme di procedure volte alla fabbricazione del tavolo, le azioni di spegnere la luce e schermare un fascio luminoso non posseggono una relazione materiale ed efficiente diretta con la produzione dell’oscurità, per la valida ragione che la tenebra (a differenza del tavolo) è qualcosa che propriamente non è. Ciò significa che la tenebra si genera come effetto indiretto all’interno di un processo causale diretto alla produzione di un altro fenomeno. La stessa cosa si può dire per De opificio I, 5. Anche all’inizio della creazione, Dio intende creare il cielo e la terra, insieme a corpi diafani come l’aria e l’acqua, ma non intende creare in alcun modo le tenebre; le tenebre, invece, sono l’effetto collaterale, indiretto e accidentale del processo poetico divino volto a creare corpi diafani. Nel momento stesso in cui Dio crea l’aria insieme ad altri corpi, le tenebre appaiono immediatamente, poiché le tenebre non sono altro che la privazione di luce nell’aria. Ora, poiché questo fenomeno collaterale e accidentale è precisamente definito come παρυπόστασις, la traduzione più appropriata di questo termine nel De opificio mundi sembra essere necessariamente quella di “esistenza collaterale” o “parassitaria”.[26] Questa traduzione forse ha il merito di preservare sia il carattere di sottoprodotto accidentale delle tenebre sia la natura non intenzionale del processo che le ha generate. Inoltre, classificando le tenebre come una παρυπόστασις, Filopono riesce ad attribuire uno status ontologico alla privazione, specificamente a qualcosa che è, per definizione, causa di non-essere. Nel contesto delle tenebre, la privazione acquisisce esistenza, sebbene incidentalmente, poiché può essere concettualizzata «sotto il segno della negazione relativa dell’essere […] presentandosi come un tipo di non-essente relativo, esistente ma non ipostatico»[27].

VI. Conclusione

L’indagine di Filopono sulla natura “parahypostatica” delle tenebre rappresenta un’importante punto di intersezione dei principali contenuti filosofici che influenzano il pensiero del commentatore alessandrino. Il termine παρυπόστασις, infatti, trova il suo posto all’interno del quadro neoplatonico, al quale Filopono appartiene. Tuttavia, vale la pena notare che i filosofi neoplatonici sviluppano questo concetto attraverso l’utilizzo di concetti chiave filosofici aristotelici. In primo luogo, come sottolineato da Opsomer e Steel, le radici del significato neoplatonico del termine παρυπόστασις risiedono nella distinzione aristotelica tra cause primarie e in sé e cause secondarie e accidentali. In secondo luogo, come evidenziato da Loredana Cardullo, l’adozione, prima da parte di Proclo e poi da parte di Filopono, della distinzione aristotelica tra materia e privazione è certamente uno dei fattori chiave che giocano un ruolo cruciale nella riflessione neoplatonica sulla natura parassitica del male[28]. Nel caso di Filopono ciò che è particolarmente intrigante, sia rispetto a Proclo sia rispetto a Simplicio[29], è il fatto che egli attribuisca una natura “parahypostatica” non solo al male ma anche alle tenebre. E attraverso questa nozione egli spiega la loro formazione all’interno di un quadro demiurgico e creazionista, come si addice ad un commentario filosofico a Genesi I[30].
Filopono utilizza il quadro filosofico e concettuale offerto dal neoplatonismo e dell’aristotelismo per condurre un’esegesi del passo genesiaco che eviti di ricorrere a interpretazioni allegoriche. Invece, fornisce argomenti razionali capaci di giustificare sia l’origine dei fenomeni sia il loro status ontologico all’interno della creazione. È inoltre degno di nota che, all’interno del corpus di Filopono, il sostantivo παρυπόστασις appaia esclusivamente nel De opificio mundi, in cui viene impiegato prima per denotare il modo di esistenza delle tenebre e poi, successivamente, quello del male. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che questo termine venga specificatamente usato in contesti in cui sono esaminati l’origine, la formazione e la natura degli enti. Nel contesto di un quadro “cosmopoietico”, in cui deve essere determinato lo status ontologico di tutto ciò che esiste nel cosmo, il termine παρυπόστασις è indispensabile. Esso connota un modo di esistenza di qualcosa che, in sé, è una sorta di non-essere. La nozione di παρυπόστασις indica infatti l’esistenza accidentale e collaterale di un fenomeno, come le tenebre, che è indubbiamente presente e visibile nel mondo ma non è una vera e propria ipostasi e quindi non ha una causa produttrice di per sé. Come menzionato in precedenza, le tenebre, per definizione, rappresentano una forma di non-essere, (precisamente una στέρησις τοῦ φωτός), e un non-essere non può avere una causa per sé. Il termine παρυπόστασις sintetizza la reciproca commistione di neoplatonismo e aristotelismo che informa la riflessione di Filopono. Da un lato, Filopono impiega un termine che è diventato parte del vocabolario specifico della filosofia neoplatonica, usandolo in un modo essenzialmente coerente con Proclo. Dall’altro lato, la giustificazione teorica fornita dal commentatore per questo termine è radicata in un quadro concettuale aristotelico, che influisce in modo significativo sulla struttura complessiva dei suoi argomenti.
In conclusione, la caratterizzazione delle tenebre come παρυπόστασις ha un triplice scopo. In primo luogo, essa spiega perché le tenebre appaiono in Gn I, 2, quando Dio crea i cieli, la terra e gli elementi fondamentali. In secondo luogo, questa caratterizzazione della tenebra assolve Dio dall’accusa di esserne il principio creatore, chiarendo al contempo l’interpretazione del Capitolo 45, 7 di Isaia. Infine, questa modalità di para-esistenza delle tenebre sottolinea indirettamente che la luce primordiale, in quanto forma, può essere portata all’esistenza solo da Dio[31]. In questo modo, la creazione del cosmo descritta nella Genesi non appare come un atto illogico, ma piuttosto come un processo ordinato in cui i fenomeni trovano la loro collocazione ontologica propria e una loro spiegazione razionale. Proprio come all’origine del cosmo, prima che fosse creata la luce primordiale, la tenebra iniziale circondava i corpi diafani senza che Dio l’ avesse mai creata, esistendo però solo come παρυπόστασις, cioè come effetto collaterale della generazione del cielo, della terra e dei corpi diafani. Allo stesso modo, all’interno del ciclo regolare del cosmo, le tenebre non sorgono da una causa efficiente diretta, ma si manifestano ogni volta che la luce generata dai corpi celesti, in particolare il sole e la luna, è assente. Filopono è pienamente consapevole di non aver risolto tutte le incertezze riguardanti la creazione del cosmo. Questa consapevolezza diventa evidente nelle affermazioni riportate in II, 13, 220, 4-13: qui il commentatore sottolinea l’impossibilità per gli esseri umani di comprendere appieno tutte le scelte e le ragioni di Dio nella genesi del mondo. Tuttavia, questo riconoscimento non scoraggia Filopono. Al contrario, poche righe dopo, afferma con fiducia di aver ripetutamente dimostrato che il cosmo potrebbe essere stato effettivamente creato da Dio nel modo descritto nel racconto della Genesi. La credibilità di questa affermazione deriva dall’armonia perfetta tra l’ordine divino descritto nelle Scritture e i principi ontologici della filosofia e della scienza greca. Questi principi forniscono un quadro razionale per descrivere i fenomeni del cosmo e la loro specifica natura ontologica. Da questa prospettiva, la spiegazione della natura “parahypostatica” delle tenebre serve come esempio convincente dell’approccio usato da Filopono nel suo De opificio mundi: un’opera di esegesi delle Sacre Scritture realizzata con l’indispensabile supporto di solide basi filosofiche.

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[1] L’edizione di riferimento più recente del De opificio mundi è quella di Scholten (1997), che sarà utilizzata per la paginazione in questo studio. È inoltre necessario ricordare l’importante edizione moderna del De opificio mundi a cura di Reichardt (1897). La traduzione inglese dei passaggi tratti dal De opificio mundi è mia. Per realizzare questa traduzione, ho fatto ampio affidamento sulla versione italiana gentilmente fornita da Tiziano Ottobrini per il progetto del gruppo PRIN 2017 ‘Racconti di creazione: luoghi di interculturalità dinamica’. Ho apportato le modifiche necessarie alla traduzione di Ottobrini dove lo ritenevo necessario. Inoltre, ho consultato la traduzione proposta da Congourdeau-Rosset (2004).

[2] Nel VI secolo, uno dei principali esegeti che si oppose con veemenza a un’interpretazione delle Scritture eccessivamente legata alle dottrine filosofiche fu Cosma Indicopleuste, autore della Topografia Cristiana e originario di Antiochia. La critica di Cosma a questo tipo di esegesi è discussa in Congourdeau-Rosset (2004), pp. 19-25. Sebbene non la citi esplicitamente, Filopono nel De opificio mira a confrontarsi con l’opera di Cosma, che egli percepisce come un esempio di esegesi eccessivamente letteralistica incapace di dimostrare la compatibilità del racconto della Genesi con i fenomeni naturali che governano il cosmo. Per un’analisi approfondita dei principali aspetti della disputa tra Filopono e Cosma, si vedano Congourdeau (2016), pp. 150-152, e Ottobrini (2020), pp. 46-55. Per quanto riguarda il ruolo di Cosma, cfr. Wolska (1962), e anche l’edizione critica della Topografia Cristiana per le Sources Chrétienne pubblicata in tre volumi dalla stessa autrice. Il riferimento specifico è al primo volume, Wolska (1968), pp. 264-265.

[3] Per una precisa analisi della biografia e della cronologia delle opere di Filopono cfr. MacCoull (1995), pp. 47-60, e la dettagliata voce dedicata a Filopono in Giardina (2012), 455-502.

[4] Su ciò cfr.  Congourdeau (2016), pp. 152-153 e 158-159.  Per quanto riguarda il metodo e gli scopi del recupero dell’Esamerone di Basilio in Filopono si veda Ottobrini (2019), pp. 75-100 e (2020), pp. 46-51.

[5] Cfr. Ottobrini (2019), p. 77-93 e Ottobrini (2020), p. 81 e pp. 89-95.

[6] Nel testimone manoscritto conservato a Vienna, sono presenti 136 titoli, distribuiti uniformemente nei sette libri dell’opera, che fungono da riepilogo della questione e dei contenuti esplorati. Per quanto riguarda la potenziale attribuzione di questi titoli a Filopono, si veda Ottobrini (2020), pp. 57-58 e  nn. 35 e 36. Ottobrini osserva che, sebbene l’ipotesi che i titoli siano stati aggiunti da un lettore successivo sia plausibile, «un’indagine più circostanziata mostra che i tituli sono costruiti con materiale lessicale prelevato dai capitoli stessi dell’opera, per cui si dovrà prospettare un’autenticità almeno indiretta (o autoschediastica)» (n. 35).

[7] Una dettagliata disanima sulla natura della luce primordiale nel De opificio mundi, si trova in in Muller-Jourdan (2021).

[8] Muller Jourdan (2021), pp. 271-309 si addentra nelle aporie irrisolte all’interno dell’indagine di Filopono sulla relazione tra la luce primordiale e il fuoco primordiale. Muller Jourdan osserva che nel De opificio, la luce primordiale è talvolta considerata la causa formale dei luminari, in quanto la sua creazione precede quella dei luminari. In altre contesti, è percepita come la luce diffusa nell’aria ma non completamente avvolgente il corpo diafano. Secondo l’autore, questa luce primordiale rappresenta una fase preparatoria che precede l’istituzione concreta delle leggi e delle regole cosmiche. Una volta creati i luminari, queste leggi diventano irrevocabili.

[9] Filopono ritorna sula questione dell’impossibilità per le tenebre di essere sostanza in II, 15, quando critica l’interpretazione di Teodoro di Mopsuestia. Nella prima parte del titolo del capitolo si legge: Teodoro si oppone di nuovo alle Sacre Scritture e afferma in maniera manichea che l’oscurità è una sostanza. In II, 15, il commentatore evidenzia l’errore esegetico che avvicina pericolosamente Teodoro al Manicheismo. Tuttavia, riguardo alle ragioni speculative di questo errore, Filopono presuppone e si riferisce agli argomenti sviluppati nei capitoli precedenti, e specificamente rimanda all’argomento che stiamo ora esaminando. In precedenza, nel suo commento al De Anima, in particolare alle pp. 341, 31-38 e 344, 14-29, Filopono ha discusso sull’incorporeità della luce e dell’oscurità. In questi passaggi, dimostra che come la luce non può essere corporea ma possiede solo una forma incorporea, così l’oscurità, in quanto assenza di quella forma (luce), non può a sua volta essere corporea.

[10] Cfr. in Cat. 180, 12-13: «[…] ad esempio al sapiente <è opposto> l’insipiente e a chi ha i denti lo sdentato, per il νω privativo e ὀδόντα». La traduzione di questi passi del commento alle Categorie è tratta da Granata (2016).

[11] Granata (2016), p. 502.

[12] Cfr. In Cat. 180, 15-20: «Se in qualche caso, però, si trovasse il nome posseduto da una certa privazione, come l’assenza di vista è chiamata cecità o l’assenza di luce <è chiamata> buio, siffatto nome non si predicherebbe dell’assenza dell’habitus ma dell’affezione generata in ciò che accoglie <l’habitus> o di qualcos’altro che accade in seguito all’assenza dell’habitus, ad esempio il buio è detto <tale> per il fatto che genera ombre e l’ombra è l’occultamento della luce che <si trova> nell’aria o in generale in ciò che è diafano».

[13] Cfr. In Cat. 180, 8-9.

[14] Cfr.  In Phys. 187, 23-25.

[15] Di tenore analogo è l’argomento presentato da Filopono in In Phys. 161, 1-7.

[16] La traduzione dal greco è mia; nella mia proposta di traduzione ho tenuto in particolare considerazione quella di Charlton (2005).

[17] Cfr. anche In Cat. 168, 30-169, 2 in cui Filopono sostiene che nella Fisica Aristotele riconosce il fatto che non solo un habits può trasformarsi in privazione (come nel caso di diventare cieco), ma anche che dalla privazione possa generarsi un habitus: «[…] intende qui, infatti, la privazione come l’assoluta corruzione della forma e della sua potenza, mentre dice nella Fisica che non c’è una corruzione [169.1] assoluta della potenza (in quegli <scritti>, infatti, <Aristotele> vuole che anche la privazione muti verso l’habitus), ma è assenza del solo atto».

[18] Nei capitoli successivi al II, 6 (per esempio, II, 15), Filopono utilizza il verbo παρυφίστημι per denotare il modo di esistenza dell’oscurità. Ecco due esempi: 1) p. 228, 26-28: «Allora, qual è la sostanza dell’oscurità, che ha solo un’esistenza collaterale a causa dell’assenza di luce (τὸ μόνον στερήσει φωτὸς παρυφιστάμενον), come dimostrato in precedenza?»; 2) p. 230, 4-6: «Dimmi, quindi, quale sostanza è questa oscurità, o (dimmi) chi è colui che l’ha plasmata – essa, che acquisisce un’esistenza collaterale solo a causa dell’ostruzione della luce (τὸ μόνῃ τῇ ἀντιφράξει τοῦ φωτὸς παρυφιστάμενον)?».

[19] La frase «λὲγοιτο ἄν» appare quattro volte (p. 208, 11 e 17, e p. 210, 1-2), mentre in un’occasione (p. 208, 23) si trova «λεχθείη ἂν».

[20] Nel contesto del male come παρυπόστασις, tra i numerosi passaggi nel De malorum subsistentia di Proclo, cfr. 49, 7-11, 50, 1-3, e 50, 35-44. Lo stesso termine, sempre usato nel contesto dell’esplorazione della natura del male, si trova anche in Simplicio, cfr. in Epict. 35. 74, 6-31. In verità, il termine παρυπόστασις appare anche prima di Proclo, come si vede in Siriano, in Met. 107, 8-9, e 185, 20-22. Secondo Simplicio (in Cat. 418, 4-6), Giamblico aveva già sviluppato argomenti per dimostrare che il male esiste ἐν παρυποστάσει e che è il risultato di alcune deficienze che determinano le cose esistenti. Nel lessico filosofico, παρυπόστασις probabilmente ha fatto la sua apparizione con Porfirio (Sent. 42, 14 e 44, 29, 31 e 45), che, tuttavia, non associava il verbo παρύφιστημι con il processo di generazione del male e lo usava principalmente per indicare la semplice coesistenza. Lloyd (1987), 145-157, suggerisce la possibilità che il termine fosse usato dagli Stoici per denotare la relazione dei lekta, che sono incorporei, con la corporeità del linguaggio e per indicare come il tempo incorporeo accompagna il movimento dei corpi. Lloyd quindi ritiene che i Neoplatonici abbiano adottato questo termine discutendo le dottrine stoiche. Pertanto, questo potrebbe essere il contesto in cui si è sviluppato il termine παρυπόστασις: un contesto in cui questo termine si riferisce a realtà che non esistono come sostanza o qualità di una sostanza, e tuttavia, non si può dire che questa realtà sia propriamente un non-essere (cfr. Simplicio, in Cat. 8. 397, 10-12, e Siriano, in Met. 105, 19-31). Oltre a Lloyd, riguardo al significato che Proclo attribuisce al termine παρυπόστασις, si veda Abbate (1998), pp. 109-115, Opsomer-Steel (1999), pp. 249 ss, Opsomer-Steel (2003), pp. 23-28, Cardullo (2017), pp. 47-63, e (2017b), pp. 394-396, e Napoli (2020), pp. 143-168.

[21] La traduzione del De malorum subsistentia di cui mi sono servito è quella di Paparella (2004).

[22] Cfr. De malorum subsistentia, 40, 2-3: «Prima di considerare questa questione è necessario indagare le cause del male e verificare se esiste una sole e medesima causa di tutti i mali oppure no. Infatti alcuni propendono per la prima soluzione e altri per la seconda».

[23] De malorum subsistentia 49, 7-11: «E forse la soluzione migliore è negare al male qualsiasi vero principio o modello naturale o fattore che ne sia la causa; infatti la forma e la natura del male è la mancanza, l’assenza di determinazione e la privazione, tanto che il loro essere (hypostasis), come si è soliti dire, assomiglia di più ad una “quasi esistenza” (παρυπόστασις

[24] Cfr. Lloyd (1987), p. 154: «Literally the παρά- can only connote ‘additional’, but in a Neoplatonic context make this also ‘dependent’».

[25]  Cfr. Opsomer-Steel (2003), pp. 24-25. Nelle opere di Aristotele tra i passi principali in cui lo Stagirita distingue tra una causalità per se e uan causalità per accidens vanno certamente inclusi Metaph. VI,2-3 (e anche V,30; XI, 8) e Phys. II,4-6.

[26] Scholten traduce παρυπόστασις come “Bestand” (durata-stabilità) per enfatizzare che le tenebre possiedono principalmente durata temporale piuttosto che consistenza ontologica, mentre Rosset lo traduce più semplicemente come “esistenza”. Tuttavia, mi sembra che entrambi trascurino il significato del παρά che precede ὑπόστασις. Come suggerisce Lloyd (1987), pp. 155-156, in Proclo, la preposizione παρά indica non solo lo stato di essere accanto a qualcos’altro, ma anche la dipendenza, in termini di esistenza, di un certo fenomeno che manca di una propria causa da un altro fenomeno che esiste a causa della propria causa efficiente. La traduzione “esistenza collaterale” è proposta anche da Abbate (1998), p. 112, come una resa più appropriata del termine παρυπόστασις negli scritti di Proclo. Certamente, per Abbate, questa resa è valida nel Commentario alla Repubblica e, più in generale, nelle opere in cui Proclo discute la natura del male, come De malorum subsistentia: «sulla base delle ricorrenze del termine nelle altre opere di Proclo è possibile osservare come esso venga sempre usato per indicare la forma di esistenza propria del male: il vocabolo in questione, dunque, assume con Proclo una forte valenza tecnica».

[27] Cfr. Napoli (2020), p. 163.

[28] In merito al rapporto tra materia e privazione, un argomento ampiamente trattato da Filopono nel suo commento alla Fisica, si veda anche Giardina (2014), pp. 186-190

[29] In merito all’uso del termine παρυπόστᾰσις da parte di Simplicio, si veda il commento alle Categorie, pagine 416, 21-418, 17, e In Epict. 35. 74,6-31. Per ulteriori approfondimenti, si veda Cardullo (2017), pp. 391-408.

[30] Non si vuole qui affermare che Filopono sia stato il primo, e certamente non l’unico, a sostenere la tesi che l’oscurità possieda una natura para-ipostatica. Questo concetto era già circolato nei Commentari sull’Esamerone fin dal IV secolo. Come mi ha suggerito Ottobrini per lettera, nel Commentario sull’Esamerone di Eustazio di Antiochia, è scritto che l’oscurità, essendo non sostanziale (ἀνυπόστατον), oscurava il cielo avvolgendo il mondo (Migne, 18, 709 D). Inoltre, nello stesso testo (720 A), il vescovo usa il verbo παρυφίσταται per descrivere l’esistenza collaterale della luce quando il corpo luminoso è completamente schermato da qualcosa. L’argomento che qui si è provato a sostenere è che Filopono fornisca una delle giustificazioni filosofiche più complete riguardo alla natura “parahypostatica” dell’oscurità.

[31] Su questo punto cfr. Évrard (1985), 184: «l’attention que Philopon porte à l’opposition possession/privation à propos de la lumière est liée à son intérêt pour les questionnes concernant la création ex nihilo. La notion de privation lui permet de démontrer une création de ce type pour la lumière».