(Per il centenario della morte di Giosue Carducci riproduciamo un breve articolo di M. Morani apparso sul quotidiano “Avvenire” del 27 luglio 1985, in occasione del 150° anniversario della nascita del poeta, col titolo redazionale Quel romantico nazional-pagano che fu tanto provinciale. Il testo qui presentato corregge alcuni errori di stampa e reintegra un breve passaggio che era stato omesso nella redazione stampata).
Quale peso abbia avuto la cultura classica nel mondo poetico di Giosue Carducci è argomento ancora difficile da precisare: del resto il giudizio stesso su questo poeta sembra ancor oggi, a centocinquanta anni dalla nascita, incerto e provvisorio, tanto egli trovò in pari misura critici disposti all’esaltazione assoluta e critici tesi a rilevare solamente le ombre della sua produzione letteraria, fino ad un giudizio totalmente e inappellabilmente negativo.
Certo alla formazione della personalità carducciana contribuirono tematiche d’ispirazione romantica accanto a filoni di provenienza neoclassica, ed anzi un esame analitico della sua opera poetica condotto secondo una prospettiva cronologica proverebbe quanto il poeta si sia sforzato nel tentativo di emanciparsi progressivamente da un’imitazione troppo servile dei modelli classici. È però vero che anche la lettura delle opere scritte durante la maturità dà al lettore moderno un’impressione spesso insoddisfacente: quando legge o richiama i poeti o i temi dell’antica Grecia e di Roma, Carducci sembra legato a una visione riduttiva della classicità, una visione che fa del mondo antico, soprattutto dell’Ellade, un’oasi di pace e di serenità, ignorando totalmente là problematica umana e le spinte irrazionali che soprattutto la cultura greca conobbe, tanto che la produzione artistica tesa alla creazione di forme perfette e ideali fu nella Grecia antica momento finale di una composizione spesso difficile e dolorosa di contrastanti tensioni passionali. Ma rimproverare il Carducci per questa sua lettura riduttiva sarebbe ingiusto per più di un motivo.
Anzitutto, la visione che egli ebbe del mondo classico corrisponde alla concezione tradizionale che dell’antica Grecia aveva la cultura italiana del suo tempo: anziché rimproverare il poeta, dovremmo piuttosto notare una certa chiusura e grettezza dell’ambiente culturale italiano, in cui gl’ideali romantici penetrarono in forma attenuata e in cui soprattutto giunse con molto ritardo quel rinnovamento di metodo e quel rigore interpretativo che diede vita alle scienze filologiche. La lettura che Carducci fa dei classici è ancora sostanzialmente ancorata a quel neoclassicismo di maniera che troviamo in molti autori (nella letteratura come nelle arti figurative) del Sette-Ottocento italiano, e che si riflette in certi giudizi o in certe imitazioni facilmente reperibili in Vincenzo Monti o nello stesso Leopardi: una lettura esposta ai rischi della ripetitività e della retorica, in cui il valore formale viene esaltato a scapito dell’intelligenza del contenuto e che finisce per privilegiare gli epigoni o i minori dei generi letterari antichi, i vari Mosco e Frontone, lasciando in disparte i grandi e i creatori.
Carducci è dunque inserito nella cultura del suo tempo, e sarebbe un nonsenso pretenderlo superiore ad essa, ed è anche vero che la visuale neoclassica non era stata ancora scossa e messa in crisi dalle nuove interpretazioni nietzschiane, che avevano additato in Dioniso, e non più in Apollo, l’elemento vivificatore dell’arte greca. Il Carducci stesso era poi conscio dell’angusto limite entro cui si muoveva la cultura classica del suo tempo: nel 1867, quando il Ministero per punizione decretò di trasferirlo dalla cattedra d’italiano a Bologna a una cattedra di latino all’università di Napoli, il poeta protestò richiamando la propria incapacità ad assumere l’insegnamento di latino, in quanto la sua pratica filologica era ben lungi dall’essere completa.
Anche certi atteggiamenti che troviamo nelle sue prose danno adito a perplessità: polemizza con Lombroso che vorrebbe togliere il latino dalle scuole italiane, ma poi fa un uso chiaramente strumentale del paganesimo antico, e nell’ode “Alle fonti del Clitumno” la rievocazione (peraltro molto bella, da un punto di vista poetico) dell’Umbra romana apre solamente alla polemica anticristiana, dai toni accesi e forzati, dell’ultima parte del componimento: una visione che non doveva appagare neppure il poeta stesso che, una volta eliminate le intemperanze anticlericali dell’inno “A Satana”, mostra nella maturità una sensibilità più inquieta e tormentata di fronte al problema religioso. Quando è chiamato a pronunziare un discorso per l’inaugurazione di un monumento a Virgilio a Pietole, esalta soprattutto il carattere di italianità e di universalità della sua poesia, mostrandosi anche qui legato a una certa atmosfera di nazionalismo esasperato aleggiante negli ultimi decenni del secolo scorso, e destinata ad accrescersi fino alle più tragiche conseguenze nei primi decenni del secolo nostro. Anche in questo caso dunque, Carducci segue la temperie culturale dei suoi tempi, senza saperne uscire.
In che sta dunque il positivo del classicismo carducciano? Crediamo che le suggestioni della cultura antica non vadano ricercate né in certe affermazioni un po’ programmatiche né in certe innovazioni metriche, di cui pure sarebbe ingiusto dimenticare il peso che ebbero, e non soltanto presso i contemporanei, aiutando la poesia italiana a liberarsi da certi schemi formali ormai superati o addirittura opprimenti.
Più profondamente nuove sembrano certe rielaborazioni poetiche di matrice greca: si rilegga ad esempio il “Cerilo“, nato da una rilettura di un frammento di Alcmane; oppure alcune descrizioni rievocative, come quelle che troviamo nell’ode “Dinanzi alle terme di Caracalla”. Ma più ancora di questo, meriterebbero forse di essere studiate alcune tematiche rinvenibili in alcune composizioni della maturità, in cui troviamo delle riprese, probabilmente inconsapevoli, di tematiche proprie dei tragici greci. Si rilegga ad esempio “Miramar“: la morte di Massimiliano d’Asburgo, del puro, forte, bello Massimiliano, pare introdurre quella tematica della maledizione familiare che è propria delle tragedie di Eschilo: qualche anno dopo, nella “Ninnananna di Carlo V”, il poeta riprenderà con maggior ricchezza di particolari quest’idea della dinastia su cui pesa fin dall’origine la tara della pazzia, della furia e della vertigine. Ma in “Miramar” è il “nepote di Carlo quinto” ad essere “devota vittima”: non gli altri membri della famiglia sono stati destinati alla morte precoce; è il “biondo imperatore”, visto nella sua innocenza, nella sua “maschia possanza”, nella sua giovinezza ricca di speranze d’amore e di potenza, ad essere vittima finale, in luogo de gl'”infami avoli … di tabe marcenti”. E una tematica analoga troviamo nell’ode “Per la morte di Napoleone Eugenio“; la morte e la rovina che si abbatte quasi implacabile sulla dinastia di Napoleone è riassunta nella visione di Letizia Bonaparte, fantasma che si aggira nella solitaria casa d’Ajaccio protendendo invano le braccia per sapere notizie dei suoi figli e nipoti; Letizia è una “còrsa Niobe”, che paga, nello sterminio totale della sua discendenza, una colpa di hybris, direbbero gli antichi Greci, una pretesa di potere eccessivo che ha finito per scatenare contro l’intera famiglia l’ira degli dèi, pronti a vendicarsi fino alla distruzione totale della discendenza: “tutti giacquer, tutti a lei lontano”.