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Cercare l’essenziale

by Mariapina Dragonetti

Raccolta di testi greci e latini in margine al tema del Meeting internazionale per l’amicizia fra i popoli 2024

a cura di Consuelo Cristofori


“Se non siamo alla ricerca dell’essenziale,
allora cosa cerchiamo?
(Cormac McCarthy, “Il passeggero”)


1. La scontentezza per la nostra vita ci spinge a ricercare altro: qualche cosa che ci renda felici.
Che cosa cerchiamo allora?

Orazio, Satira I, 1, vv. 1-22 
La μεμψιμοριρία, la scontentezza per la nostra sorte

Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
contentus vivat, laudet diversa sequentis?
‘o fortunati mercatores’ gravis annis
miles ait, multo iam fractus membra labore;                                5
contra mercator navim iactantibus Austris:
‘militia est potior. quid enim? concurritur: horae
momento cita mors venit aut victoria laeta.’
agricolam laudat iuris legumque peritus,
sub galli cantum consultor ubi ostia pulsat;                                  10
ille, datis vadibus qui rure extractus in urbem est,
solos felicis viventis clamat in urbe.
cetera de genere hoc—adeo sunt multa—loquacem
delassare valent Fabium. ne te morer, audi,
quo rem deducam. si quis deus ‘en ego’ dicat                               15
‘iam faciam quod voltis: eris tu, qui modo miles,
mercator; tu, consultus modo, rusticus: hinc vos,
vos hinc mutatis discedite partibus. eia,
quid statis?’ nolint. atqui licet esse beatis.
quid causae est, merito quin illis Iuppiter ambas                            20
iratus buccas inflet neque se fore posthac
tam facilem dicat, votis ut praebeat aurem?

Come mai, Mecenate, nessuno è contento del proprio mestiere, / che se lo sia scelto o l’abbia avuto dal caso,/ e invidia chi segue strade diverse? / «Che fortunati i mercanti!», esclama il vecchio soldato, / le ossa rotte dai lunghi disagi; «Beati i soldati!», / risponde il mercante, appena la nave è sbattuta dal vento;/ «chi ha sorte migliore? Si va, si combatte /e nel giro di un’ora arriva la morte o l’allegra vittoria». / Dal cliente svegliato al primo canto del gallo, / l’avvocato invidia la sorte del contadino. Questi, /strappato dai campi e portato in città per qualche cauzione, / dichiara che solo è felice chi vive nell’urbe. Tanti altri / esempi ci sono, da stancare quel chiacchierone di Fabio. / In breve, ascolta la conclusione. Se a questa gente / un Nume dicesse: «Va bene, sono pronto a darvi ciò che volete: / tu eri soldato, sarai mercante; tu, sin qui avvocato, / ora sarai contadino; si faccia il cambio, voi da una parte, / voi dall’altra. Ma che succede? Nessuno si muove?». / Non se la sentono. E potrebbero essere felici. / A questo punto, non avrebbe ragione Giove a sdegnarsi, /sbuffare, e proclamare che d’ora in avanti / mai più darà retta ai desideri degli uomini?   /(trad. di G. Manca)

2. Come sfuggire all’inquietudine? da un male che non si può guarire?

Lucrezio, III, vv. 1053-1075
Dal taedium vitae nasce una corsa affannosa e senza meta

Si possent homines, proinde ac sentire videntur
pondus inesse animo, quod se gravitate fatiget,
e quibus id fiat causis quoque noscere et unde                    1055
tanta mali tam quam moles in pectore constet,
haut ita vitam agerent, ut nunc plerumque videmus
quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper,
commutare locum, quasi onus deponere possit.
exit saepe foras magnis ex aedibus ille,                                1060
esse domi quem pertaesumst, subitoque revertit,
quippe foris nihilo melius qui sentiat esse.
currit agens mannos ad villam praecipitanter
auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans;
oscitat extemplo, tetigit cum limina villae,                           1065
aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit,
aut etiam properans urbem petit atque revisit.
hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,
effugere haut potis est: ingratius haeret et odit
propterea, morbi quia causam non tenet aeger;                  1070
quam bene si videat, iam rebus quisque relictis
naturam primum studeat cognoscere rerum,
temporis aeterni quoniam, non unius horae,
ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis
aetas, post mortem quae restat cumque manendo.            1075

Se gli uomini potessero, come è chiaro che sentono il peso / che grava loro nell’animo e li tormenta e li opprime, /conoscere anche le cause per le quali ciò avviene, /e perché quel fardello di pena sussista immutato nel cuore,     / non trarrebbero la vita così, come ora per lo più li vediamo /non sapere che cosa ciascuno desideri, e sempre cercare / di mutare luogo nell’illusione di trovare sollievo./ Spesso dai sontuosi palazzi irrompe all’aperto colui / che in casa è stato preso dal tedio, ma tosto vi torna / come chi s’è avveduto che fuori non c’è nulla di meglio./ Di furia, spronando i cavalli, accorre alla sua fattoria / ansioso come dovesse recare soccorso alla casa che brucia, /ma appena toccate le soglie, ben presto sbadiglia / o inerte si rifugia nel sonno e cerca l’oblio, /o anche in gran fretta ritorna a vedere la città che ha lasciato. / Così ognuno fugge se stesso, ma a questi di certo, come accade, / non riesce a sfuggire e, suo malgrado, vi resta attaccato e lo odia, / poiché, malato, non afferra la causa del male. / Se potesse distinguerla con chiarezza, lasciata da parte ogni cosa, /in primo luogo cercherebbe di conoscere le leggi della natura, /poiché non di un’ora soltanto è posto in questione lo stato, /ma del tempo perpetuo nel quale i mortali dovranno passare, / qualunque sia, dopo morti, l’età che li attende.

Plutarco, De tranquillitate animi, 2, 466 b
Un morbus che spinge a fuggire dalla realtà

ἀλλ’ ὥσπερ οἱ δειλοὶ καὶ ναυτιῶντες ἐν τῷ πλεῖν, εἶτα ῥᾷον οἰόμενοι διάξειν, ἐὰν εἰς γαῦλον ἐξ ἀκάτου καὶ πάλιν [c] ἐὰν εἰς τριήρη μεταβῶσιν, οὐδὲν περαίνουσι τὴν χολὴν καὶ τὴν δειλίαν συμμεταφέροντες αὑτοῖς, οὕτως αἱ τῶν βίων ἀντιμεταλήψεις οὐκ ἐξαιροῦσι τῆς ψυχῆς τὰ λυποῦντα καὶ ταράττοντα· ταῦτα δ’ ἐστὶν ἀπειρία πραγμάτων, ἀλογιστία, τὸ μὴ δύνασθαι μηδ’ ἐπίστασθαι χρῆσθαι τοῖς παροῦσιν ὀρθῶς. ταῦτα καὶ πλουσίους χειμάζει καὶ πένητας, ταῦτα καὶ γεγαμηκότας ἀνιᾷ καὶ ἀγάμους· διὰ ταῦτα φεύγουσι τὴν ἀγορὰν εἶτα τὴν ἡσυχίαν οὐ φέρουσι, διὰ ταῦτα προαγωγὰς ἐν αὐλαῖς διώκουσι καὶ παρελθόντες εὐθὺς βαρύνονται.

Come quei pusillanimi che navigando soffrono il mal di mare e credono di poter stare meglio se da una scialuppa passeranno su un vascello, e poi da questo su una trireme, ma non ottengono nessun risultato e portano sempre con sé la loro bile e la loro pusillanimità, così il cambiare modo di vivere non toglie all’anima le cause che l’affliggono e la turbano. Inesperienza delle cose del mondo, irriflessione, il non potere o non saper fare buon uso dei beni di cui disponiamo: ecco i difetti che tempestano ricchi e poveri, che tormentano sposati e celibi; per causa loro si fugge la vita pubblica, ma poi non si sopporta l’inattività; si cerca di farsi strada a corte, ma, una volta arrivati, subito se ne prova fastidio.

A. Come sfuggire dal male? Desiderio e mito

Orazio, Epodo XVI, vv. 1-10; vv. 39-66
Le guerre civili ed il rifugio nelle Isole dei Beati

Altera iam teritur bellis civilibus aetas,
      suis et ipsa Roma viribus ruit;
quam neque finitimi valuerunt perdere Marsi
      minacis aut Etrusca Porsenae manus,
aemula nec virtus Capuae nec Spartacus acer                       5 
      novisque rebus infidelis Allobrox
nec fera caerulea domuit Germania pube
      parentibusque abominatus Hannibal:
inpia perdemus devoti sanguinis aetas
      ferisque rursus occupabitur solum:                                 10
………………….
vos, quibus est virtus, muliebrem tollite luctum,
     Etrusca praeter et volate litora.                                        40
nos manet Oceanus circum vagus: arva beata
      petamus, arva divites et insulas,
reddit ubi cererem tellus inarata quotannis
      et inputata floret usque vinea,
germinat et numquam fallentis termes olivae                      45
      suamque pulla ficus ornat arborem,
mella cava manant ex ilice, montibus altis
      levis crepante lympha desilit pede.
illic iniussae veniunt ad mulctra capellae
      refertque tenta grex amicus ubera                                 50
nec vespertinus circumgemit ursus ovile
      nec intumescit alta viperis humus;
pluraque felices mirabimur, ut neque largis
      aquosus Eurus arva radat imbribus,
pinguia nec siccis urantur semina glaebis,                            55
      utrumque rege temperante caelitum.
nulla nocent pecori contagia, nullius astri
      gregem aestuosa torret impotentia.
non huc Argoo contendit remige pinus
      neque inpudica Colchis intulit pedem,                            60
non huc Sidonii torserunt cornua nautae,
      laboriosa nec cohors Vlixei.
Iuppiter illa piae secrevit litora genti,
      ut inquinavit aere tempus aureum,
aere, dehinc ferro duravit saecula, quorum                          65
      piis secunda vate me datur fuga.

Una seconda generazione si logora per le guerre civili, / con le sue stesse forze Roma precipita; / quella che non riuscirono a distruggere i Marsi vicini, / né l’esercito etrusco del minaccioso Porsenna, / la rivalità di Capua, il forte Spartaco, / gli Allobrogi volubili e ansiosi di rivolte, / né la gioventù germanica dagli occhi azzurri, / né Annibale esecrato dai genitori, / saremo noi a distruggerla, generazione empia, figlia di un sangue/ maledetto e questo suolo sarà di nuovo occupato / dalle fiere;
…………………………………
Voi che avete coraggio, smettete il lamento muliebre, / e volate al di là delle spiagge d’Etruria. / Ci aspetta l’Oceano che circonda la terra: / dirigiamoci dunque alle terre felici, alle isole / dove il suolo dà messi ogni anno senz’essere arato, / dove senz’essere potata cresce la vite, / dove germoglia l’olivo senza mancare alle attese, / e il fico scuro adorna il suo albero, /il miele sgorga dal leccio cavo, e dall’alto dei monti / sgorga lieve l’acqua con corso sonoro. / Da sé le caprette si affacciano al secchio per farsi mungere, / e il gregge porge amichevolmente le poppe. / A sera non va gemendo l’orso attorno all’ovile, / non si gonfia in alto la terra per la presenza di vipere, / e altre cose ammireremo felici: che l’Euro / acquoso non spazzi i campi di pioggia, / che i germi non si brucino dentro le zolle aride, / perché l’uno e l’altro tempera il re degli dei. / Nessun contagio nuoce al bestiame, e nessun astro / brucia le greggi con la calura eccessiva. / Là non è mai arrivata coi rematori la nave Argo, / né vi ha messo piede la donna impudica della Colchide, / non volsero qui le vele i marinai fenici, / e neanche la ciurma temprata di Ulisse. / A gente pia Giove ha assegnato quei lidi, / da quando macchiò col bronzo l’età dell’oro / e poi indurì le generazioni col ferro, da cui vi è concessa / una fuga felice, e io ne sono il profeta.

B. Come sfuggire dal male? l’imperturbabilità del sapiente

Lucrezio, II, vv. 1-61; vv. 1-19
Il sapiente e la tempesta

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;                          5
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,                           10
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentes, o pectora caeca!
qualibus in tenebris vitae quantisque periclis                       15
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
ergo corpoream ad naturam pauca videmus                        20
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint
gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,                    25
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae                        30
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti                                35
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi                             40
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et opum vi constabilitas,
ornatas armis statuas pariterque animatas,
his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores                        45
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.
quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus,
re veraque metus hominum curaeque sequaces
nec metuunt sonitus armorum nec fera tela
audacterque inter reges rerumque potentis                        50
versantur neque fulgorem reverentur ab auro
nec clarum vestis splendorem purpureai,
quid dubitas quin omnis sit haec rationis potestas,
omnis cum in tenebris praesertim vita laboret?
nam vel uti pueri trepidant atque omnia caecis                   55
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
inter dum, nihilo quae sunt metuenda magis quam
quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei                                     60
discutiant, sed naturae species ratioque.

È dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare, / guardare da terra il grande travaglio di altri; / non perché l’altrui tormento procuri giocondo diletto, / bensì perché t’allieta vedere da quanti affanni sei immune. / È dolce anche guardare le grandi contese di guerra / ingaggiate in campo, senza alcuna tua parte di pericolo Ma nulla è più dolce che abitare là in alto i templi sereni / del cielo saldamente fondati sulla dottrina dei sapienti, / da dove tu possa abbassare lo sguardo sugli altri e vederli / errare smarriti cercando qua e là il sentiero della vita, / gareggiare d’ingegno, competere per nobilità di sangue, / e sforzarsi giorno e notte con straordinaria fatica / di giungere a eccelsa opulenza e d’impadronirsi del potere. / O misere menti degli uomini, o animi ciechi! / In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli / si trascorre questa breve vita! Come non vedere / che null’altro la natura ci chiede con grida imperiose, / se non che il corpo sia esente dal dolore, e nell’anima goda / d’un senso gioioso sgombra d’affanni e timori? / Dunque vediamo che al nostro corpo necessitano / ben poche cose che possano lenire il dolore / e in tal modo offrano anche molti soavi piaceri; / talvolta è più gradevole – la stessa natura non soffre / se all’interno dei palazzi non vi sono auree statue / di giovani che reggono con la destra fiaccole accese / per fornire in tal modo luce ai notturni banchetti, / e se l’edificio non brilla d’argento e non risplende d’oro, / né le cetre fanno echeggiare i dorati riquadri dei soffitti – / quando tuttavia fra amici adagiati su molle erba / lungo il corso d’un ruscello sotto i rami d’un alto albero / con modesti agi ristorano gradevolmente le membra, / soprattutto se il tempo sorride e la stagione dell’anno / cosparge ovunque le verdeggianti erbe di fiori. / Né le ardenti febbri si dileguano prima dal corpo, / se tu puoi rigirarti fra drappi trapunti e rosseggiante porpora, / piuttosto che se devi giacere su una coltre plebea. / Dunque poiché i tesori, la nobiltà, la gloria del regno / nulla giovano al nostro corpo, devi stimare / del pari che nulla giovano anche al nostro animo; / a meno che per caso al vedere le tue legioni irrompere / fervide in campo suscitando fantasmi di guerra / rafforzate da forti riserve e da squadroni di cavalli, / allo schierarle equipaggiate d’armi e pari di bellicosi spiriti, / e allo scorgere la flotta veleggiare rapida e spaziare sulle acque, /le superstizioni religiose atterrite da tali spettacoli / non fuggano pavide dal tuo animo, e i timori della morte / lascino allora il cuore libero e scevro da affanni. / Ma se tali argomenti ci appaiono ridicoli e degni di scherno, /e in realtà il timore degli uomini e i persistenti affanni / non temono il fragore delle armi né i colpi mortali, / e si aggirano audacemente fra i re e i potenti della terra, / né hanno alcuna reverenza per il fulgore dell’oro / oppure del luminoso splendore d’una veste purpurea, / come puoi dubitare che questo potere sia tutto della ragione / poiché la vita è sempre e interamente travagliata dalle tenebre? / Infatti come i fanciulli nelle tenebre temono / e hanno paura di tutto, così nella luce noi talvolta / temiamo cose che non sono affatto più spaventose / di quelle che i fanciulli paventano nelle tenebre immaginandole imminenti. È dunque necessario che questo terrore dell’animo e queste tenebre / siano dissipate non dai raggi del sole né dai fulgidi dardi / del giorno, bensì dall’evidenza della dottrina naturale.

Seneca, De tranquillitate animi, 2, 13 sg.
Non si può fuggire da se stessi

13 Inde peregrinationes suscipiuntur uagae et litora pererrantur et modo mari se, modo terra experitur semper praesentibus infesta leuitas: “Nunc Campaniam petamus.” Iam delicata fastidio sunt: “Inculta uideantur, Bruttios et Lucaniae saltus persequamur.” Aliquid tamen inter deserta amoeni requiritur, in quo luxuriosi oculi longo locorun horrentium squalore releuentur: “Tarentum petatur laudatusque portus et hiberna caeli mitioris et regio uel antiquae satis opulenta turbae…. Iam flectamus cursum ad Vrbem: nimis diu a plausu et fragore aures uacauerunt, iuuat iam et humano sanguine frui.” 14 Aliud ex alio iter suscipitur et spectacula spectaculis mutantur. Vt ait Lucretius:  «Hoc se quisque modo semper fugit». Sed quid prodest, si non effugit? Sequitur se ipse et urget grauissimus comes.

13. Per questo si intraprendono peregrinazioni in lungo e in largo e si attraversano lidi inospitali e ora per mare ora per terra fa prova di sé la loro incostanza sempre nemica del presente: “Ora andiamo in Campania.”Subito i luoghi raffinati vengono a noia: “Si vada a vedere luoghi selvaggi, visitiamo le balze del Bruzio e della Lucania.” Tuttavia in mezzo ai luoghi desolati si cerca qualcosa di piacevole, in cui gli occhi abituati al lusso possano trovar sollievo dal prolungato spettacolo di squallore dei luoghi aspri: “Rechiamoci a Taranto, al suo porto elogiato e al soggiorno invernale di un clima più mite e a una terra abbastanza ricca anche per la popolazione di un tempo.”… “Ormai volgiamo la rotta verso Roma”: troppo a lungo le orecchie sono restate libere dagli applausi e dal chiasso, ormai fa piacere godere della vista del sangue umano. 14. Si intraprende un viaggio dietro l’altro e si alternano spettacoli a spettacoli. Come dice Lucrezio, «in questo modo ciascuno fugge sempre se stesso». Ma a che gli serve, se non riesce a sfuggirsi? Sempre si segue e si incalza da solo, compagno di viaggio insopportabile.

C. Come sfuggire dal male? la dimenticanza di ciò che ci affligge

Orazio, Ode I, 9, vv. 1 sgg.
Dimenticanza nel vino e nell’amore di una donna

Vides ut alta stet nive candidum
Soracte nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto.
Dissolve frigus ligna super foco                                             5
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina
o Thaliarche, merum diota.
Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido                                           10
deproeliantes, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras, fuge quaerere et,
quem Fors dierum cumque dabit, lucro
adpone nec dulces amores                                                    15
sperne, puer, neque tu choreas,
donec virenti canities abest
morosa. Nunc et campus et areae
lenesque sub noctem susurri
composita repetantur hora,                                                  20
nunc et latentis proditor intimo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.

Tu vedi come si levi bianco per la neve profonda / il Soratte, come non sostengano più il peso / i boschi affaticati e per il gelo / penetrante i ruscelli si siano fermati. / Scaccia il freddo, ponendo legna sul focolare / in abbondanza e più generosamente del solito / versa, o Taliarco, vino puro / di quattro anni dall’anfora sabina a due anse./ Lascia tutto il resto agli dei: non appena essi / hanno placato i venti che si combattono sul mare / ribollente, né i cipressi / né gli antichi frassini si agitano più./ Che cosa avverrà domani, non chiedertelo e / qualunque giorno la Sorte concederà, mettilo / dalla parte dei guadagni e non disprezzare / i dolci amori, finché sei giovane, né le danze, / finché da te nel fiore degli anni è lontana la canizie / fastidiosa. Ora il Campo Marzio, le piazze / e i bisbigli sommessi sul far della notte / vanno cercati all’ora concordata, / ora la gradita risata che da un angolo nascosto / rivela la ragazza lì nascosta / e il pegno strappato alle braccia / o al dito che fa poca resistenza.

Orazio, Ode I, 11
Tu ne quaesieris…

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare                     5
Tyrrhenum, sapias: vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

Tu non chiedere, non è lecito saperlo, quale termine  a me, quale a te gli dei abbiano assegnato, o Leuconoe, e non consultare / i calcoli babilonesi.Quanto è meglio accettare qualsiasi cosa sarà!  Sia che Giove ci abbia assegnato più inverni, sia che questo, che sfianca il mare Tirreno scagliandolo contro le opposte scogliere che lo circondano, sia l’ultimo, filtra il vino e  taglia una speranza troppo lunga, poiché è breve lo spazio della vita. Mentre parliamo il tempo invidioso sarà già fuggito: cogli il giorno, il meno possibile fiduciosa nel futuro.

Orazio, Epodo XIII 
Rapiamus occasionem de die

Horrida tempestas caelum contraxit et imbres
      nivesque deducunt Iovem; nunc mare, nunc siluae
Threicio Aquilone sonant. rapiamus, amici,
      Occasionem de die dumque virent genua
  et decet, obducta solvatur fronte senectus.                       5
      tu vina Torquato move consule pressa meo.
cetera mitte loqui: deus haec fortasse benigna
      reducet in sedem vice. nunc et Achaemenio
perfundi nardo iuvat et fide Cyllenea
       levare diris pectora Sollicitudinibus,                               10
nobilis ut grandi cecinit Centaurus alumno:
      ‘invicte, mortalis dea nate puer Thetide,
te manet Assaraci tellus, quam frigida parvi
      findunt Scamandri flumina lubricus et Simois,
unde tibi reditum certo Subtemine Parcae                           15
      rupere, nec mater domum caerula te revehet.
illic omne malum vino cantuque levato,
     deformis aegrimoniae dulcibus adloquiis.’

Minacciose all’orizzonte / si addensano le nuvole / e una bufera di neve / ci travolge; / dal nord il vento / urla tra gli alberi e sul mare. / Prendiamoci, amici miei, / ciò che dà la vita / e se  reggono le forze con decoro, / sgombriamo la fronte / rannuvolata dall’età. / E tu versati un po’ di vino dell’anno in cui nacqui;/ non dire altro: /forse, mutando la sorte, / un dio volgerà tutto al meglio. / Qui non rimane che profumarci di essenze orientali / e con la musica / allontanare dal cuore / l’inquietudine del domani. / Sono parole di Chirone, / il suo congedo per Achille: / «ragazzo invincibile, / nato mortale da una dea, / la terra di Assàraco, / solcata dalle acque rapide e gelide / del Simoenta e del torrente Xanto, / ti attende. Ma con trama infallibile / le Parche t’impediranno il ritorno / e neppure tua madre, / azzurra di mare, / potrà ricondurti in patria. / Laggiú ogni dolore  / dovrai consolare col vino, / col canto, / teneri conforti /all’angoscia che ci sfigura».

3. Che cosa può darci una vita placida e serena, nella quale gli affanni del mondo non riescano a raggiungerci?

A. La vita della campagna

Orazio, Satira II, 6, vv. 1-15
Preghiera a Mercurio

Hoc erat in votis: modus agri non ita magnus,
hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons
et paullum silvae super his foret. Auctius atque
di melius fecere. Bene est. Nil amplius oro,
Maia nate, nisi ut propria haec mihi munera faxis.               5
Si neque maiorem feci ratione mala rem
nec sum facturus vitio culpave minorem,
si veneror stultus nihil horum: “O si angulus ille
proximus accedat, qui nunc denormat agellum!
O si urnam argenti fors quae mihi monstret, ut illi               10
thesauro invento qui mercennarius agrum
illum ipsum mercatus aravit, dives amico
Hercule!”; si, quod adest, gratum iuvat, hac prece te oro:
pingue pecus domino facias et cetera praeter
ingenium, utque soles, custos mihi maximus adsis. 15

Questo il mio desiderio: / un pezzo di terra non tanto grande, / dove ci fossero un orto e vicino a casa / una fonte d’acqua perenne / con qualche albero che la sovrasti. / Piú e meglio fecero gli dei. Bene. / Nient’altro ti chiedo, figlio di Maia, / se non che questi doni / tu me li assicuri per sempre. /Se è vero che non ho mai accresciuto il patrimonio / con mezzi disonesti / e non penso d’impoverirlo /per incuria o depravazione; / se è vero che non sono così sciocco / da mettermi a pregare: / «Magari potessi avere quell’angolo di terra che ora s’incunea nei confini del mio campicello!» /Potesse la sorte indicarmi un’urna di monete, / come a quel bracciante che, trovato un tesoro, / e arricchitosi col favore di Ercole, / il campo in cui lavorava arò da padrone»; /se quello che posseggo mi piace e m’appaga, / questa è la preghiera ch’io ti rivolgo: /impingua al padrone il gregge e tutti i suoi beni, / tranne l’ingegno e, com’è consuetudine, /veglia su di me, tu che piú di tutti mi proteggi.

Orazio, Satira II, 6, vv. 60-67
La fabula dei due topi

Perditur haec inter misero lux non sine votis:
o rus, quando ego te adspiciam? Quandoque licebit                        60
nunc veterum libris, nunc somno et inertibus horis
ducere sollicitae iucunda oblivia vitae?
O quando faba Pythagorae cognata simulque
uncta satis pingui ponentur oluscula lardo?
O noctes caeneque deum, quibus ipse meique                    65
ante Larem proprium vescor vernasque procaces
pasco libatis dapibus!

E in sciocchezze del genere / va in fumo la giornata, / mentre sospiro: / campagna mia, quando ti rivedrò? / E quando mi sarà dato / di assaporare il dolce oblio degli affanni che procura la vita, / ora sui libri degli antichi, / ora nel sonno e nelle ore di riposo? /O quando potrò sedermi davanti a un piatto di fave, / quelle che Pitagora ritiene parenti, / nsieme a una quantità di verdure / condite con grasso di lardo? / O notti e cene divine! / mangiare con gli amici / davanti al proprio focolare, / mentre con gli avanzi appena assaggiati / in mezzo ai lazzi / si nutrono gli schiavi.

Orazio, Ode II, 6, vv. 1-24
Ille angulus …  ille locus … la valle di Taranto

Septimi, Gades aditure mecum, et
Cantabrum indoctum iuga ferre nostra, et
barbaras Syrtes, ubi Maura semper
aestuat unda;
Tibur, Argeo positum colono,                                                5
sit meae sedes utinam senectae,
sit modus lasso maris et viarum
militiaeque.
Unde si Parcae prohibent iniquae,
  dulce pellitis ovibus Galaesi                                                 10
flumen et regnata petam Laconi
rura Phalanto.
Ille terrarum mihi praeter omnes
angulus ridet: ubi non Hymetto
  mella decedunt, viridique certat                                         15
baccha Venafro:
ver ubi longum tepidasque praebet
Iuppiter brumas, et amicus Aulon
fertili Baccho minimum Falernis
invidet uvis.                                                                            20
Ille te mecum locus et beatae
postulant arces; ibi tu calentem
debita sparges lacryma favillam
vatis amici.

Tu saresti disposto, Settimio, a seguirmi / a Cadice in mezzo ai Cantabri, intolleranti / del nostro dominio, o alle Sirti barbare, / dove ribollono sempre le acque mauriche; / ma Tivoli invece, fondata dai coloni greci, / io vorrei che fosse la casa della mia vecchiaia, / il riposo per la mia stanchezza / di mare, di viaggi, di guerra. / E se me lo nega il destino / iniquo, andrò allora sul Galeso, / il fiume caro alle pecore, o nelle terre / su cui regnò lo Spartano Falanto. Mi ride più / di tutti quell’angolo /di terra dove il miele / non è inferiore all’Imetto, /le olive al verde Venafro, / dove Giove offre primavere lunghissime e tiepidi / inverni, e Aulone propizio / fertile di vino non ha da invidiare / le uve che fanno il Falerno. / Ti richiedono questo mio luogo / le colline felici; qui un giorno / cospargerai / di debito pianto le ceneri / ardenti del tuo amico poeta.

B. L’amicizia

Orazio, Ode II, 17, vv. 1-16
Per l’amico Mecenate, malato e lamentevole, un’amicizia eterna

Cur me querellis exanimas tuis?
Nec dis amicum est nec mihi te prius
     obire, Maecenas, mearum
     grande decus columenque rerum.

A! te meae si partem animae rapit                                         5
maturior vis, quid moror altera,
     nec carus aeque nec superstes
     integer? Ille dies utramque

ducet ruinam. Non ego perfidum
dixi sacramentum: ibimus, ibimus,                                         10
     utcumque praecedes, supremum
     carpere iter comites parati.

Me nec Chimaerae spiritus igneae
nec, si resurgat centimanus gigas,
     divellet umquam: sic potenti                                              15
     Iustitiae placitumque Parcis.

Perché mi fai morire coi tuoi lamenti? Non piace /né a me, né agli dei che tu muoia prima, /Mecenate, mia gloria / grande e sostegno. / Se una violenza precoce mi porta via / te, la metà del mio cuore, che aspetto, / io parte superstite, non più integra /e non più amato come prima? Quel giorno / porterà ad entrambi la fine. Ho giurato / e manterrò; andremo, andremo / insieme dovunque tu mi precedi, /pronti a compiere l’ultimo viaggio. / Da te non mi strapperà l’alito in fiamme /della Chimera, e neanche, se risuscitasse, / il gigante dalle cento braccia: è questo che vogliono / la possente giustizia e le Parche.

Orazio, Ode II, 7, vv. 23-28
Per il ritorno di un compagno d’armi dalla guerra: dulce mihi furere est amico

                                 .Quis udo
           deproperare apio coronas

curatve myrto? Quem Venus arbitrum                            25
dicet bibendi? Non ego sanius
     bacchabor Edonis: recepto
           dulce mihi furere est amico.

…Su, chi si occupa / delle corone di umido apio, / o di mirto? Chi Venere elegge /arbitro del convito? Voglio impazzare / più follemente dei Traci: mi è dolce /folleggiare per l’amico che ho ritrovato.

C. L’amore

Orazio, Ode III, 9
La riconciliazione degli amanti, l’amore per sempre

‘Donec gratus eram tibi
nec quisquam potior bracchia candidae
     cervici iuvenis dabat,
Persarum vigui rege beatior.’
     ‘Donec non alia magis                                                         5
arsisti neque erat Lydia post Chloen,
     multi Lydia nominis,
Romana vigui clarior Ilia.’
     ‘Me nunc Thressa Chloe regit,      
dulcis docta modos et citharae sciens,                                   10
     pro qua non metuam mori,
si parcent animae fata superstiti.’
     ‘Me torret face mutua
Thurini Calais filius Ornyti,
     pro quo bis patiar mori,                                                     15
si parcent puero fata superstiti.’
     ‘Quid si prisca redit Venus
diductosque iugo cogit aeneo,
     si flava excutitur Chloe
reiectaeque patet ianua Lydiae?’                                            20
     ‘Quamquam sidere pulchrior
ille est, tu levior cortice et inprobo
     iracundior Hadria,
tecum vivere amem, tecum obeam lubens.’

Finché ti piacevo e nessun / giovane desideravi che ti cingesse / con le braccia il collo d’avorio, / io piú del re di Persia vivevo felice. / ‘Finché tu piú non t’infiammasti / per un’altra e a Lidia non preferisti Cloe, / la fama di Lidia anche quella / di Ilia, madre dei romani, superava.’ / Regina mia è ora Cloe, / che dolci armonie canta e suona con la cetra: / per lei di cuore morirei, / se lasciasse il destino l’anima mia vivere. /’D’amore uguale al suo io ardo / per Càlais, che di Òrnito da Turi è figlio: / per lui due volte morirei, /se lasciasse il destino il mio ragazzo vivere.’ /‘E se l’antico amore torna, / riunendoci nuovamente sotto il suo giogo? Se cacciassi la bionda Cloe e riaprissi la porta alla reietta Lidia?’/ ‘Lui è piú bello d’una stella, / tu piú leggero del sughero e piú irritabile / dell’Adriatico malfido, / ma con te vorrei vivere, con te morire.’

Archiloco, fr. 71 D.; 118 W.
L’amore per Neobule

εἰ  γὰρ  ὣς ἐμοὶ  γένοιτο χεῖρα  Νεοβούλης  θιγεῖν

Oh se potessi così toccare Neobule con la mano

Saffo, fr. 16 L. P.; 27a D. 
Per Anattoria lontana

Ο]ἰ μὲν ἰππήων στρότον οἰ δὲ πέσδων
οἰ δὲ νάων φαἶσ’ ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔ]μμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν’ ὄτ-
τω τις ἔραται·

πά]γχυ δ’εὔμαρες σύνετον πόησαι
π]άντι τ[ο]ῦτ’, ἀ γὰρ πόλυ περσ[κέθοισ]α
κάλ]λος [ἀνθ]ρώπων Ἐλένα [τὸ]ν ἄνδρα
τὸν] [πανάρ]ιστον

καλλ[ίποι]σ’ ἔβα ‘ς Τροΐαν πλέοισα
κωὐδ[ὲ πα]ῖδος οὐδὲ φίλων τοκήων
πάμπαν] ἐμνάσθ[η], ἀ[λλὰ] παράγαγ’ αὔταν
Κύπρις ἔραι]σαν

[εὔθυς εὔκ]αμπτον γὰρ [ἔχοισα θῦμο]ν
[ἐν φρέσιν] κούφως τ[ὰ φίλ΄ ἠγν]όη[ε]ν̣
ἄ με] νῦν Ἀνακτορί[ασ ὀνὲ]μναι-
σ’ οὐ] παρεοίσας,

τᾶ]ς [κ]ε βολλοίμαν ἔρατόν τε βᾶμα
κἀμάρυχμα λάμπρον ἴδην προσώπω
ἢ τὰ Λύδων ἄρματα [κἀν ὄπλοισι]
πεσδομ]άχεντας.

Alcuni dicono che sulla terra nera la cosa più bella /sia un esercito di cavalieri, altri di fanti, / altri di navi, io invece ciò di cui uno / è innamorato; / ed è assolutamente facile farlo intendere / a chiunque: perché colei che di gran lunga superava / in bellezza ogni essere umano, Elena, abbandonato / il suo sposo impareggiabile / traversò il mare fino a Troia / né si ricordò della figlia / e degli amati genitori: lei… / … disviò /(Cipride), che inflessibile (ha la mente)… / facilmente… / (così) ella ora mi ha fatto ricordare di Anattoria / lontana, / di cui vorrei contemplare il seducente passo /  e il luminoso scintillio del volto / ben più che i carri dei Lidi e i fanti / che combattono in armi.

4. Che cosa desiderano e cercano gli altri uomini? Ed io, che cosa cerco?

Saffo, fr. 16 L. P. – 27a D.
Per Anattoria lontana

(cfr. sopra)

Orazio, Ode I, 1, vv. 1-28
Le altre scelte degli uomini “comuni”

Maecenas atavis edite regibus,
o et praesidium et dulce decus meum,
sunt quos curriculo pulverem Olympicum
collegisse iuvat metaque fervidis
evitata rotis palmaque nobilis                                                  5
terrarum dominos evehit ad deos;
hunc, si mobilium turba Quiritium
certat tergeminis tollere honoribus;
illum, si proprio condidit horreo
quicquid de Libycis verritur areis.                                           10
Gaudentem patrios findere sarculo
agros Attalicis condicionibus
numquam demoveas, ut trabe Cypria
Myrtoum pavidus nauta secet mare.
Luctantem Icariis fluctibus Africum                                        15
mercator metuens otium et oppidi
laudat rura sui; mox reficit rates
quassas, indocilis pauperiem pati.
Est qui nec veteris pocula Massici
nec partem solido demere de die                                           20
spernit, nunc viridi membra sub arbuto
stratus, nunc ad aquae lene caput sacrae.
Multos castra iuvant et lituo tubae
permixtus sonitus bellaque matribus
detestata. Manet sub Iove frigido                                           25
venator tenerae coniugis inmemor,
seu visa est catulis cerva fidelibus,
seu rupit teretis Marsus aper plagas.

Mecenate, nipote di nobili etruschi, / che mi sostieni e m’intenerisci d’orgoglio, / v’è chi gode a sollevare col carro / la polvere d’Olimpia e, sfiorata la meta / con le ruote in fiamme, per la palma d’onore / si crede, come gli dei, signore del mondo; / chi si esalta se il capriccio popolare si batte / per eleggerlo alle supreme cariche di stato, / e chi se nel proprio granaio può nascondere / tutto il raccolto che si miete in Libia. / Anche con la promessa d’incredibili ricchezze / per paura del mare non sapresti indurre / a solcare su un legno di Cipro l’Egeo / chi è felice di lavorare i propri campi. / Cosí il mercante, impaurito dal mare in burrasca / per il vento, loda, è vero, la pace agreste / del suo paese, ma poi, incapace a sopportare / la mediocrità, riarma la nave in avaria. / Trovi chi non si nega un bicchiere di vecchio massico / e perde parte del giorno sdraiato / all’ombra fresca di un corbezzolo o alla sorgente / dove l’acqua d’una ninfa mormora dolcemente. / A molti piace la vita militare, lo strepito / lacerante delle trombe, e la guerra, che ogni madre / maledice. Immobile sotto un cielo livido / il cacciatore dimentica la dolce compagna, / se i cani al suo fianco hanno stanato una cerva /o se un cinghiale ha spezzato l’intrico delle reti.

A. L’immortalità data dalla gloria della poesia

 Orazio, Ode I, vv. 29-36

Me doctarum hederae praemia frontium
dis miscent superis, me gelidum nemus                                 30
Nympharumque leves cum Satyris chori
secernunt populo, si neque tibias
Euterpe cohibet nec Polyhymnia
Lesboum refugit tendere barbiton.
Quod si me lyricis vatibus inseres,                                          35
sublimi feriam sidera vertice.

L’edera che premia la fronte dei sapienti / mi associa agli dei e il fresco dei boschi, /dove coi satiri danzano agili le ninfe, /mi distingue dalla folla, se non ammutolisce /il flauto di Euterpe e non si rifiuta / Polinnia di accordare la lira di Lesbo. / Ponimi dunque fra i poeti lirici: col capo in cielo toccherò le stelle.

Orazio, Ode III, 30
Exegi monumentum aere perennius

Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo inpotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.                                         5
Non omnis moriar multaque pars mei
vitabit Libitinam; usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine pontifex.
Dicar, qua violens obstrepit Aufidus                                        10
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica                                        15
lauro cinge volens, Melpomene, comam.

Piú immortale del bronzo ho lasciato un ricordo, /che s’alza piú delle piramidi reali, /e non potrà distruggerlo morso di pioggia, / violenza di venti o l’incessante catena / degli anni a venire e il dileguarsi del tempo. / No, non sarà la fine: gran parte di me / sfuggirà alla morte. E finché sul Campidoglio / salirà con la vergine muta un pontefice, / nel futuro sempre piú fiorirò di gloria. / Cosí, dove strepita tumultuoso l’Àufido, / dove in cerca d’acqua Dauno regnò sul popolo / dei campi, si dirà che io, d’umili origini / fatto signore, per primo in ritmi italici / ho portato la poesia d’Eolia. Merito d’orgoglio per te, Melpòmene: con l’alloro / di Delfi, se vuoi, cingimi allora i capelli.

Saffo, fr. 55 L. P. – 58 D. 
Solo tenebre per chi non ha parte delle “rose della Pieria”.

κατθάνοισα δὲ κείσῃ οὐδέ ποτα μναμοσύνα σέθεν
ἔσσετ’ οὐδὲ † ποκ’ † ὔστερον· οὐ γάρ πεδέχῃς βρόδων
τὼν ἐκ Πιερίας· ἀλλ’ἀφάνης κἀν Ἀίδα δόμῳ
φοιτάσῃς πεδ’ἀμαύρων νεκύων ἐκπεποταμένα.

Tu giacerai morta né più alcuna memoria di te mai / resterà in futuro: ché tu non hai parte delle rose / della Pieria, ma anche nella casa di Ades / vagherai oscura tra le ombre dei morti, sospesa in volo lungi da qui.

5. Che cosa ci inganna e rende peggiore la nostra vita?      Curiositas ed inutile erudizione

Apuleio, Metamorfosi, I, 2
Sembra una virtù, ma è un vizio!

…duobus comitum qui forte paululum processerant tertium me facio. Ac dum ausculto quid sermonibus agitarent, alter exserto cachinno: “Parce” inquit “in verba ista haec tam absurda tamque immania mentiendo.” Isto accepto sititor alioquin novitatis: “Immo vero” inquam “impertite sermonem non quidem curiosum sed qui velim scire vel cuncta vel certe plurima; simul iugi quod insurgimus aspritudinem fabularum lepida iucunditas levigabit.”

…io mi unii, come terzo, a due viandanti che in quel momento mi passavano accanto. Tesi l’orecchio per sapere di che cosa parlassero e sentii che uno dei due, scoppiando in una gran risata, diceva all’altro: «Ma la pianti di raccontar simili balle?» Io che sono sempre smanioso di novità, intervenni: «Non è per essere un ficcanaso, ma perché mi piace sapere un po’ tutto o per lo meno quanto più è possibile, vi prego di mettermi a parte di quello che state dicendo; oltretutto ci vuol proprio qualche allegra storiella per farci sembrare meno scoscesa e impervia la strada che abbiamo davanti.»