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Conclusioni

by Mariapina Dragonetti

di Tiziano Lorenzo Vezzoli

Conclusioni di La tenebra e la luce nelle Metamorfosi di Apuleio


Nella nostra analisi circa i temi della luce e della tenebra non potevamo non prendere inizio dal libro undicesimo, in quanto il contrasto che si avverte fra la prima e l’ultima parte del romanzo investe direttamente il problema della luce di cui appunto ci occupiamo.

 J. W. Waterhouse (1849-1917), Psiche entra nel giardino di Cupido, olio su tela, 109 x 71 cm., 1904, Harris Museum and Art Gallery, Preston, Lancashire, UK

Ad un superficiale approccio la “tenebrosità” dei primi dieci libri sembra armonizzarsi a stento con il “libro di Iside”: è stato nostro particolare interesse dimostrare che questo contrasto in verità risulta solo apparente e che di luce si può parlare, secondo le particolarità dei casi specifici, fin dall’inizio delle Metamorfosi, arrivando poi fino all’ultima parte del romanzo in cui Apuleio si fa entusiasta divulgatore della liturgia isiaca – tralasciando l’intreccio narrativo ormai giunto alla sua lysis.

Ci si è anche voluti dedicare con particolare cura all’analisi dell’incipit del primo libro. È qui che il contrasto luminosità – tenebra ci appare direttamente legato alle vicende di Lucio e alla sua nascita, come se il valore narratologico della luce, emerso con prepotenza nel libro di Iside, venisse ripreso da Apuleio – nella particolarissima ottica di cui è sintomo l’at iniziale – per dirci che a questo valore, nei libri che seguiranno, sarà strettamente legato a quello della oscurità e della tenebra. Questo infatti si verifica puntualmente nella storia di Lucio – di cui è riflesso il quadro magnifico della favola di Eros e Psiche – tanto che sembra di poter dire che la rilettura à rebours dell’opera si è dimostrata una scelta di particolare profitto.

A questo punto ci stato è possibile entrare direttamente nel gioco voluto da Apuleio e così la dialettica luce-tenebra ha acquistato corpo e forma, venendo a delinearsi attraverso i temi dell’accecamento (suddiviso in oscuro e luminoso), della vigilia (con Telifrone totus oculeus im­ma­gine di Lucio) e del rapporto dì ~ notte. In quest’ultima parte abbiamo potuto riscoprire le figuras  in alias imagines conversas dell’incipit: il sole dell’ora sesta, il mezzogiorno, si è rivelato sorprendentemente come immagine della notte e della goetìa, mentre d’altra parte la notte ci è apparsa come il momento in cui i personaggi vivono esperienze paradossali, in tutto e per tutto “oniriche” ma per ciò stesso più reali delle visioni diurne.

Proprio l’analisi delle vicende di Aristomene e Socrate, insieme a quelle di Telifrone, ci ha dimostrato come fosse ingannevole la luce del sole e quanto fossero reali, invece, gli avvenimenti della notte. Per trovare una degna conclusione a quanto siamo andati scoprendo nel romanzo non ci resta dunque che tornare all’undicesimo libro e alla visione mistica di Iside, che si manifesta a Lucio come luce divina, ma nel cuore di una notte oscura, come la luce di una luna salvatrice

La nostra ricerca però ha dato ulteriori risultati. Abbiamo visto che nei primi dieci libri delle Metamorfosi la luna era quasi completamente assente: dalle streghe (che possono precipitare la luce nelle profondità del Tartaro) ai briganti (che grazie all’assenza della luna portano a termine i loro misfatti) la luna era elemento inserito in un quadro goetico e marcatamente negativo. Ricordiamo anche la scena ben nota di IV, 29, dove la luna sorveglia Carite e Lucio e li consegna, traditrice, ai ladroni. Il passo è stato approfonditamente analizzato da G. Mazzoli che (1) rileva come essa appaia «quale baricentro semantico tra l’allusività egizia dell’incipit (il prologo definisce il libro papyrus Aegyptia argutia Nilotici calami inscripta) e la rivelazione isiaca del finale, costituito dall’intero libro XI» (2). Carite infatti aveva promesso a Lucio di ricoprirlo di gioielli come di un manto di stelle. La promessa ha un valore particolare che supera il contesto del Charite-Komplex per investire tutto il significato del romanzo. Così G. Mazzoli: «Questa è una solenne profezia che prende senso solo se ci spostiamo dalla sfera contingente al valore assoluto della dimensione isiaca». Dunque, per comprendere il significato delle parole di Carite dobbiamo tornare al libro undicesimo, all’immagine di Lucio dopo l’iniziazione (XI, 24) quando questi compare ad instar solis exornato … con il capo cinto da una corona palmae candidae foliis in modum radiorum praesistentibus. La luna che aveva sorvegliato i movimenti di Carite e Lucio è anche all’origine della conversione di Lucio e della sua salvezza, in quanto lo sguardo di Lucio riconosce in essa, dopo essersi purificato, l’immagine augusta e regale della dea Iside: Augustum specimen deae praesentis statui deprecari (XI, 1). Il plenilunio si sradica così dal contesto goetico e negromantico divenendo simbolo sacro e mistico di Iside: la luce che abbiamo visto emer­gere quasi inaspettatamente dal prologo delle Metamorfosi, come patria genitrice di Lucio (e che nel cuore del romanzo si è rivelata in forma enigmatica attraverso la bella fabella) si manifesta ora apertamente come attributo della dea Iside. L’inizio coincide dunque con la fine e Iside si pone come principio e termine teleologico del romanzo: «Io sono ciò che è stato, che è e che sarà» (3).

 S. Secondo Parmense – Rocca dei Rossi. Soffitto con leggenda di Apuleio (XVI secolo).

Note

(1) Carite promette di eternare la scena della fuga (Asino vectore virgo regia fugiens captivitatem) in una depicta imago votiva.

(2) G. Mazzoli, L’oro dell’asino, art. cit., p. 79.

(3) Plut., De Iside et Osiride, 354 c.