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E. Corti, Catone l’antico

by Mariapina Dragonetti

Ares, Milano 2005

di Lucia Prestipino


L’interesse di Eugenio Corti per la storia, che connota tutte le sue opere, si esprime anche attraverso questa biografia romanzata, o “romanzo per immagini”, che pone a tema un periodo storico inconsueto per l’autore. Il fascino di un personaggio come Catone “l’antico”non scaturisce soltanto dalla sua appartenenza a un mondo di per sé suggestivo in quanto lontano nel tempo; Catone è soprattutto l’incarnazione di quell’insieme di valori che costituiscono l’ethos della tradizione romana e una delle radici della cultura occidentale; di questa tradizione egli fu testimone fedele e coerente in un’epoca in cui profondi cambiamenti e l’emergere di nuove personalità cominciavano a mettere in discussione un’antica e consolidata visione del mondo. La biografia di Catone, uomo poliedrico, soldato, console, censore, oratore, storico, profondo conoscitore del diritto, ma soprattutto contadino legato alla terra e alle sue origini, a partire dai diciassette anni d’età (216 a.C.) fino alla morte (149 a.C.), introduce il lettore in un momento capitale della storia della Roma repubblicana, dalla sconfitta di Canne alla distruzione di Cartagine, passando attraverso le guerre di conquista in Occidente e in Oriente.

La tecnica compositiva è molto particolare: non si tratta di una narrazione, ma del succedersi di brevi scene dialogate raggruppate in episodi cronologicamente ordinati e datati. La struttura è tuttavia complicata dall’inserimento di parti narrative di contenuto strettamente storico-informativo, definite “medaglioni” o “contaminationes”. Dei tre medaglioni, due sono dedicati ad Annibale e uno a Scipione l’Africano, mentre le sei contaminationes contengono brevi sintesistoriche o l’analisi di specifici aspetti socio- culturali e istituzionali di Roma antica (la composizione della società, le magistrature, il rapporto tra Roma e la Grecia, l’inconciliabiltà tra Roma e Cartagine…). Non mancano note a piè di pagina, talune consistenti, che offrono informazioni più dettagliate su singoli aspetti, come l’esercito, o riportano citazioni tratte dagli autori antichi. A causa di questa struttura composita, le cui parti non appaiono ben amalgamate tra loro, l’opera presenta una forma e una scrittura ibride, a metà tra la sceneggiatura e il taglio didascalico, per cui la lettura non è sempre agevole, benché i contenuti risultino nel complesso interessanti e i personaggi delineati con finezza e con una certa profondità.

Le fonti, sia antiche che moderne, sono esplicitamente dichiarate in una nota preliminare: l’autore dà conto del lungo lavoro di lettura e approfondimento, ma avverte anche dei limiti imposti dall’enorme quantità del materiale, del quale confessa di aver esplorato solo una parte, spera la più importante, con l’intento precipuo di rispettare i fatti storici e di rimanere fedele a quanto testimoniato dagli autori antichi, Polibio, Livio, Plutarco, Cornelio Nepote, Cicerone e Catone stesso, frequentemente indicati e citati nel testo. Il punto più debole della ricostruzione storica è costituito dagli studi moderni, che sono ristretti ad opere fondamentali ma decisamente datate, come la Storia Romana del Mommsen e del De Sanctis o le monografie di F. Della Corte e di J. N. Robert, e questo probabilmente spiega una certa tendenza alla semplificazione in alcuni giudizi.

 Pur avvertendosi la mancanza di una competenza specifica, è pienamente condivisibile l’ottica con cui Corti legge le vicende della storia antica, spesso poste a confronto con quelle della storia più recente: egli scorge in esse la presenza misteriosa ma certa di un progetto trascendente che guida la storia verso esiti non casuali, attraverso, nonostante e oltre i progetti umani. La vittoria su Annibale è un evento decisivo per le sorti future dell’Italia e dell’Europa: l’affermazione di una cultura e di una civiltà rispetto ad un’altra ad essa irriducibile significa la progressiva civilizzazione dell’Occidente nel segno di una humanitas che prepara la civiltà cristiana. Quest’ultima nella visione dell’autore si pone come il naturale compimento della civiltà greco-romana, la supera inverandone fino in fondo le premesse, assimilandone i valori e correggendone gli aspetti più disumani. In questa luce i grandi protagonisti del periodo preso in esame suscitano la sincera ammirazione dell’autore per le loro doti straordinarie e nel contempo si muovono sullo sfondo di un disegno provvidenziale il cui significato può essere decifrato retrospettivamente e a grande distanza di anni. C’è tuttavia un personaggio, definito sulla scorta del Mommsen “una vera natura profetica”, che agisce nel suo tempo consapevole di essere fattore di un progetto più ampio: in Scipione l’Africano l’autore è convinto di cogliere “la singolare percezione di essere strumento della divinità allorché doveva prendere decisioni importanti”. In lui operava “l’illuminata constatazione che fu in seguito propria di altri grandi responsabili delle sorti umane, per esempio nell’epoca moderna del maresciallo francese Foch: – Quando in un momento storico acquistiamo d’improvviso una vista chiara della situazione, capace di determinare conseguenze enormi… si è costretti a riconoscere di essere caduti nelle mani di una forza provvidenziale, e che la nostra decisione vittoriosa si debba a una volontà non nostra, ad una volontà superiore e divina. Non siamo mai noi a prendere le grandi decisioni.”