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Editoriale 1982-1

by Mariapina Dragonetti

a cura della Redazione


Vi sono modi di affrontare l’antico che eludono la domanda sulla persona. Accostarsi ad un testo letterario o a una opera artistica, tentare la ricostruzione di un’epoca storica o approfondire lo studio di usi e costumi di un determinato popolo, mettersi in contatto, in una parola, con tutto ciò che é documentazione ed espressione di un mondo di valori e di idee poco o tanto diverse dalle nostre, obbliga non solo a porre domande al nostro interlocutore, bensì anche a porre domande su noi stessi. Limitarsi alla prima parte, e iniziare un’analisi che eviti di coinvolgere fino in fondo la nostra persona, significa porre le premesse di uno studio che della scientificità e della completezza ha solo l’apparenza, perché in realtà è quanto di più superficiale, approssimativo, e spesso anche falso, si possa immaginare. Molta curiosità nei confronti dell’’antichità classica subisce oggi questo modo “dimezzato” di affrontare la questione: si può arrivare al massimo al momento fugace di un godimento estetico, o alla razionale rappresentazione del modo di vivere caratteristico dell’uomo antico, ma né l’una né l’altra di queste conclusioni può appagare in maniera esauriente la domanda che prima d’ogni altra l’addetto ai lavori, lo specialista di antichità classiche dovrebbe porsi: perché studiare un mondo lontano da noi millenni, una civiltà la cui esperienza è definitivamente conclusa, delle lingue che, nonostante le perdite di tempo di qualche sognatore che le vorrebbe imporre come lingue internazionali, sono morte? Né la soluzione del godimento estetico né lo studio cosiddetto scientifico dei modi di produzione risolvono la domanda; e l’aver privilegiato questi modi di affronto (il primo da decenni, il secondo da data più recente) nella scuola, ha portato al depauperamento dei nostri studi in attesa di una riforma della superiore forse destinata a sancire in maniera definitiva la posizione subordinata e sostanzialmente inincidente che lo studio del latino, e soprattutto del greco, avrà nell’educazione della persona, nel momento della sua formazione.

Il lavoro dì Zétesis cerca la possibilità di una strada diversa, che non si limiti alla prima parte del dilemma, ma ponga in maniera vigorosa anche la seconda, certo più difficile, più scomoda, più carica di pericoli, in quanto chiede continuamente a ciascuno di noi un giudizio su sé stesso, sul proprio modo di essere come persona, sui suoi ideali e sul suo modo di affrontarli e di tradurli in pratica. Noi riteniamo che una giusta collocazione del mondo classico nella scuola, e soprattutto nella società in cui viviamo, sia possibile solo sottolineando continuamente gli elementi di diversità che distinguono noi dagli antichi, e nello stesso tempo valorizzando quegli elementi di continuità per cui il mondo greco-romano si pone come inizio della nostra civiltà occidentale. Ma studiare la diversità e la continuità del mondo greco-romano vuol dire continuamente essere tesi a chiedere a noi stessi chi siamo, sia “chi siamo” nel senso sociale del termine (che cos’è la nostra società, su quali valori si fonda, quali sono i modelli a cui si ispira, che posto ha in essa la persona), sia, e questo, come detto, è il momento più scomodo, chi siamo noi come persona. Il recupero insomma del soggetto che fa cultura, oltre all’oggetto studiato, è il morente centrale che ispira il nostro tentativo.

Gli argomenti trattati in questo numero intendono essere esempi che rendano trasparente il nostro modo di lavorare e gli interessi che ci animano: tentare una lettura della religiosità euripidea, o proporre una lettura originale di un libro virgiliano ha senso solamente se ci si pone nella prospettiva che abbiamo detta; le nostre proposte di lettura, fra l’altro, tentano anche di procurare agli insegnanti strumenti utili di lavoro, in un momento in cui l’affronto di Euripide o avviene alla luce di pregiudizi anacronistici (verificare la posizione illuminista del poeta, per esempio) o si limita all’esame minuto di molte questioni marginali, senza tentare una sintesi che chiarisca l’originalità di una persona tesa a una ricerca continua, spesso disperata, talora illuminata da una speranza, ma sempre comunque sincera e piena di domande, del rapporto esistente tra l’uomo e il divino. In maniera analoga, l’aver iniziato uno spoglio sistematico delle varie posizioni assunte in questi ultimi anni sulla didattica delle lingue antiche, così come l’aver posto a tema il problema della traduzione sia da un punto di vista generale sia nelle sue implicazioni quotidiane, indica il nostro interesse per il recupero di un metodo di insegnamento che sia capace di proporre in modo esauriente i valori del mondo classico : e ci sembra importante sottolineare la parola metodo, in contrapposizione alla parola tecnica; nella sua etimologia  greca il metodo accenna all’accompagnare per una strada, accenna a un cammino che docente e discente percorrono insieme: un cammino nel quale anche il docente trova modo di crescere la sua personalità e di richiamarsi continuamente alla bellezza della strada che sta compiendo. Viceversa, la parola tecnica, nelle sue radici classiche, ricorda troppo l’accentuazione di una competenza fine a sé stessa e il possesso esteriore di alcune formule vuote di contenuto, utilizzabili sempre e dovunque, senza che si ponga il problema del rapporto con gli allievi né la domanda sulla motivazione del proprio operare. E il diffondersi sempre più rapido, nel mondo della scuola, di corsi di aggiornamento, articoli, saggi, conferenze che pongono come interesse preminente quello delle tecniche di insegnamento, mostra ancora una volta come il tentativo di eludere sistematicamente, se non dì soffocare del tutto, ìl problema delle persona nella scuola sia un rischio quanto mai presente oggi.