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Editoriale 1993-2

by Mariapina Dragonetti

a cura della Redazione


C’è modo e modo di dire Europa. C’è il modo di chi afferma i profondi motivi di unità fondati sulla fede e sulla cultura comune, a partire dai quali è possibile guardare “al di là dei propri confini e del proprio interesse” (Dichiarazione conclusiva dell’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi n. 11, citata dal Papa nella lettera ai Vescovi italiani del 6 gennaio); e c’è il tentativo di rinunciare quasi con fastidio ad un’eredità europea fondata sulla cultura greco-romana-cristiana annaspando alla ricerca di altri padri, dall’Islam al buddhismo, dalle antiche civiltà orientali ai nomadi sciamanici dell’Asia centrale ai vichinghi (si veda ad esempio l’articolo di F. Cardini Tutti figli della steppa su “Avvenire” del 22 gennaio). Aprirsi agli altri, all’est e al sud del mondo, consapevoli della propria e rispettosi dell’altrui identità è altra cosa che voler a tutti i costi disconoscere la ricchezza della propria storia e gli elementi fondanti che, rielaborando diversi apporti o integrandosi con essi, ci hanno costituiti quali siamo. Rinunciare alla propria identità non è mai un deterrente al razzismo, poiché genera indifferenza e disaffezione e ultimamente lascia indeboliti di fronte ai fanatismi altrui e alla sempre risorgente tendenza ai fanatismi interni.

Ma c’è modo e modo di dire Europa anche nella scuola. Nel nostro ambito l’unità europea è divenuta un pretesto per sperimentalismi svariati, e l’aggettivo ‘europeo’ una parola-slogan per la propaganda diffusa nei periodi di preiscrizioni, sostanzialmente desemantizzato come l’altra parola-slogan ‘informatica’, ma attraente per il pubblico di possibili utenti in tempi di crisi demografica ed economica. Che cosa promette in realtà la parola ‘europeo’? Migliori conoscenze di lingue straniere? È ancora l’ipotesi migliore. Possibilità di trovare più facilmente lavoro al di fuori dell’Italia? È tutto da dimostrare. Adeguamento ai livelli scolastici delle altre nazioni? Diciamocelo francamente, sarebbe ben rovinoso.
Al di là di singole proposte e innovazioni, una ce n’è che è stata voluta con decisione dal Ministero ed ha avuto l’avvio in quest’anno scolastico in nove licei. Ne dà ampia notizia la rivista «Nuova Secondaria» (n. 4, 15 dicembre 1993, pag. 24 segg.), con due articoli, uno contro del prof. Pier Vincenzo Cova, e uno pro del Dirigente ministeriale Antonio Portolano. Rimandiamo alle chiare obiezioni del prof. Cova per quel che concerne lo spazio lasciato alle materie classiche in una scuola che ha la pretesa di chiamarsi ancora ‘Liceo classico europeo’: basti dire che agli ‘insegnamenti congiunti di latino e greco’ sono dedicate tre ore settimanali in ogni classe, più due del cosiddetto ‘Laboratorio’ che, a quanto si capisce, dovrebbe essere rivolto all’approfondimento, a ricerche, discussioni utilizzo di materiali multimediali; ecc. Il tutto in un orario complessivi di 38 o 40 ore, che lascia evidentemente uno spazio quasi nullo alle studio individuale. Ciò che rende più perplessi è l’entusiasmo dell’articolo ‘a favore’, intitolato significativamente «Il liceo classico europeo: una scuola da inventare»: ogni obiezione di buon senso è scartata in nome del nuovo, dell’inventiva, dello svecchiamento, coi suggerimenti per l’uso delle ore di Laboratorio (in tutto 14-16 settimanali) che oscillano fra velleitarismi sessantottini e attività ovvie che trovano posto in qualunque programmazione appena decente.
Condividiamo col prof. Cova (anche se in ambiti paralleli) l’esperienza della Commissione Brocca: l’abbiamo vissuta con disagio e criticata quanto era necessario. Ma ci sembra che ora si proceda verso il vago e l’avventato, non è chiaro in nome di che. Dell’Europa?