a cura della Redazione
Il polverone suscitato dall’abolizione degli esami a settembre e dall’imposizione dei corsi di sostegno ha – ci sembra – inquinato l’anno scolastico. Con sgomento ripensiamo al tempo trascorso a parlare in riunioni di ogni tipo, in convegni prontamente organizzati da chi ha sempre metodi infallibili e scientifici a portata di mano (sembrerebbe quasi ante eventum), soprattutto in chiacchiere che hanno esaurito ogni momento di libera conversazione fra colleghi; ripensiamo, non solo con sgomento, ma con rimorso, al contenuto di queste conversazioni e di queste riunioni, tese non a cercare comunque il bene dei ragazzi, ma ad escogitare il modo migliore di coprirsi le spalle, di evitare ricorsi, di convincere genitori e studenti che tutte le regole sono state rispettate: e quindi corsi su corsi, metodologici, trasversali, tenuti da non importa chi purché garantissero il permesso di bocciare. Con un cocente rimpianto per il tempo in cui i mesi estivi permettevano un prolungamento di studio ai deboli e ai negligenti, un periodo di maturazione per chi ancora non vedeva chiaro dentro di sé e una seconda possibilità di valutare e decidere.
Lasciamo tutti i suoi torti a D’Onofrio e a quanti hanno permesso che un decreto-legge continuasse a procedere senza tentare di fermarlo o almeno discuterlo. Ma accorgiamoci anche che quest’anno non si è veramente parlato dei ragazzi, né si è cercato il loro bene: travolti dall’organizzazione, dalla divisione fra gravemente insufficienti o insufficienti, fra recuperabili in classe o in un corso di dieci ore su tre mesi, abbiamo forse dimenticato di guardare i ragazzi con gli occhi vivi e attenti di Giovanni Paolo II: “Ogni educatore … deve amare ciò che è essenziale per la giovinezza. Se in ogni epoca della sua vita l’uomo desidera affermarsi, trovare l’amore, in questa lo desidera in modo ancor più forte. Il desiderio d’affermazione, comunque, non deve essere inteso come una legittimazione di tutto, senza eccezioni. I giovani non lo vogliono affatto: sono disposti anche a essere ripresi, vogliono che si dica loro sì o no. Hanno bisogno di guide, e le vogliono molto vicine. Se ricorrono a persone autorevoli, lo fanno perché le avvertono ricche di calore umano e capaci di camminare insieme con loro lungo i percorsi che stanno seguendo” (Varcare le soglie della speranza, ed. Mondadori, pag. 137).