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Editoriale 1995-1

by Mariapina Dragonetti

a cura della Redazione


Vorremmo avanzare due considerazioni.

La prima: si va diffondendo l’idea che il trascorrere il tempo in scuola abbia comunque effetti benefici. Questa linea di tendenza non è nuova: fu introdotta fin dagli anni Settanta dalle organizzazioni sindacali (che da sempre inseguono il sogno di pareggiare l’orario di lavoro degli insegnanti a quello delle altre categorie) e assunta da molti operatori scolastici, esperti ministeriali e politici. Il tempo-scuola si è progressivamente dilatato: prima si è recuperato un mese all’inizio (fino al 1976 si cominciava a ottobre inoltrato), poi si sono aggiunte ore di lezione attraverso svariate sperimentazioni, ora si sono inventati i corsi di recupero (non per questo il livello medio si è alzato: strano destino per un’istituzione che, messa da parte per ragioni ideologiche la sua fondamentale vocazione educativa, aveva fatto dell’efficienza una parola d’ordine e un mito). All’interno del calendario scolastico si situano le gite e le visite guidate, magari le settimane bianche: anche le attività di socializzazione devono essere gestite dalla scuola; tocca poi ai consigli d’istituto organizzare feste, premi letterari, attività sportive, mostre, proposte insomma di ogni genere per evitare che lo studente abbia del tempo libero o delle esigenze da gestire in proprio. Con le varie iniziative connesse al Progetto Giovani (per il quale si trovano lauti finanziamenti, mentre i supplenti aspettano il loro stipendio per mesi) quest’immagine della scuola onnipresente nella vita del ragazzo si dilata e si ingigantisce, e la scuola, ignorando il suo compito vero di educare, diventa un’agenzia sociale in cui la didattica è solo un momento, nemmeno il più importante, e in qualche caso l’insegnante che si ostina a ritenere l’insegnamento la parte più importante del suo lavoro è considerato un po’ limitato. L’aggiornamento degli insegnanti deve svolgersi a scuola: l’insegnante che desiderasse partecipare a mostre, congressi, conferenze liberamente scelte è visto con sospetto, e comunque la sua attività non ha nessun valore dal punto di vista giuridico, mentre il corso d’aggiornamento della scuola è valido come orario di servizio, dà accesso al fondo d’incentivazione e così via. In quest’ottica il momento dell’apprendimento, della rielaborazione personale, della verifica non sono nemmeno presi in considerazione. L’alunno Rossi aveva delle carenze in latino alla fine dell’anno: la sua valutazione sarebbe al massimo da cinque: non importa: venga a seguire tre lezioni supplementari a settembre e queste carenze spariranno, perché sola presenza in scuola ha un effetto magico. È facile immaginare quanto tutto ciò sia demotivante anche per lo studente (a che pro impegnarsi a fare versioni, quando la pura e semplice presenza a qualche ora di lezione è ritenuta una valida sanatoria?)

La seconda considerazione è esito diretto della prima: in questo clima, si ha una deresponsabilizzazione collettiva di tutte le categorie che operano nella scuola. Si è consapevoli dell’inutilità di tante iniziative, ma le si mette in pratica ugualmente, anzi c’è chi spera di ottenere qualche riconoscimento (ingraziarsi i diretti superiori, avere qualche miglioramento di status, se non altro la manciata di lire del fondo d’incentivazione) facendo valere la sua disponibilità. Si propongono sperimentazioni oggettivamente impraticabili, di cui è evidente fin dall’inizio l’inevitabile esito fallimentare: il preside si darà da fare per farle passare in collegio docenti per farsi bello coi superiori o per attirare iscrizioni, e il collegio docenti dirà di sì per non inimicarsi il preside. Il fatto che all’allievo vengano propinate ore di scuola prive di spessore educativo o culturale, programmi scoordinati o pieni di buchi, o semplicemente che si sottoponga l’allievo a un carico di ore e di materie insostenibile (soprattutto in scuole come i licei, dove il momento dello studio personale è ancora essenziale) poco importa. A questo punto, l’allievo Ferrari va malissimo nella mia materia, ma perché devo assumermi la responsabilità di bocciarlo? Ci pensino i miei colleghi. E se il sommarsi di questi collettivi atteggiaenti rinunvciatari ha come esito la promozione di Ferrari, mi lamenterò per giorni coi colleghi: ma come hanno fatto a promuovere Ferrari? Non si sono accorti che era insufficiente in tutte le materie? La candidata Brambilla ha avuto dalla scuola una presentazione negativa alla maturità, le prove scritte sono state mediocri, il colloquio orale un disastro: nello scrutinio il presidente di commissione propone la bocciatura (o meglio, l’eufemismo della non maturità): una dei commissari si oppone per ragioni ideologiche: non si può bocciare, in quanto la bocciatura rappresenta il fallimento della scuola (non dell’allieva, perché i ragazzi di quest’età sono tutti uguali, non vi possono essere varietà di vocazioni, di capacità, di esiti); gli altri commissari dicono candidamente che sì, la ragazza sarebbe da bocciare, ma non se la sentono. In conclusione l’allieva viene considerata matura col solo voto contrario del presidente, e si scrive nel giudizio che la commissione ritiene di trovave negli atti elementi positivi in numero superiore a quelli negativi (ed è un falso in atto pubblico, perché di elementi positivi non c’è neppure l’ombra).

Ciò di cui c’è bisogno, nel momento attuale, è un richiamo forte alla propria responsabilità e alla propria professionalità, in tutta le sue complesse sfaccettature: innanzitutto la didattica, perché è dalla capacità di trasmettere contenuti culturali che si misura la qualità di una scuola, e poi la capacità di saper assumere la personalità del ragazzo, valorizzandone gli aspetti positivi, aiutandolo a riconoscere la sua vocazione culturale (il che implica anche la necessità di indicargli i suoi punti deboli), mettendolo di fronte alla necessità di scegliere coscientemente, perché la vita obbliga talora a scelte difficili o addirittura dolorose, aiutandolo a divenire una personalità adulta capace di interagire e di cooperare coi suoi simili nella costruzione della società, e infine la consapevolezza che la vita dell’allievo, come quella del docente, non si esaurisce nella scuola: la scuola rimanda ad altri momenti. Per noi in particolare, significa richiamare l’allievo a un dialogo con le culture e le grandi personalità del passato, e fare in modo che il patrimonio del loro pensiero e della loro testimonianza aiuti a far maturare le sue capacità critiche e a divenire una persona adulta e formata. All’individuazione degli strumenti più adatti per raggiungere quest’obiettivo è dedicato il lavoro che svolgiamo da anni in questa rivista. Non scholae, sed vitae discimus, dicevano saggiamente gli antichi: sarebbe ben singolare, che oggi la scuola venisse a coincidere con la vita.