a cura della Redazione
Si direbbe che negli ultimi mesi qualcosa stia cambiando. Un noto uomo politico ha avviato su Internet un forum che raccoglieva le opinioni dei visitatori circa il possibile ingresso della Turchia in Europa: un numero sorprendentemente alto di risposte faceva appello alla nostra identità formata sull’eredità classica e cristiana che ci definisce come europei, in alcuni casi richiamando il concetto con una vivacità e una risolutezza che mostrava come l’opinione espressa nascesse da un radicato convincimento, e non da una semplice affermazione di principio. Confessiamo di esserne rimasti un po’ stupiti, perché eravamo abituati, negli ultimi anni, a sentire solamente atti d’accusa nei confronti della civiltà occidentale, madre di tutte le possibili degenerazioni e perversioni della storia umana. È la concezione del “politicamente corretto”: atteggiamento di attenzione e di rispetto nei confronti di tutte le culture altre, atteggiamento di disprezzo nei confronti della nostra: giusta la prima parte, assurda la seconda (e purtroppo si affermava la prima non per intima convinzione, ma semplicemente come pretesto di disimpegno nei confronti della propria storia e della propria identità, per evitare di mettersi in discussione e di pensare). Ci era capitato più volte in questi ultimi anni di sentire magnificare, da parte di illustri studiosi, docenti nelle università italiane (e in un caso, spiace dirlo, anche nelle università vaticane), la tradizione di tolleranza dell’islamismo, confrontata con la tradizione di intolleranza o addirittura di persecuzione propria della cultura occidentale (e della Chiesa cattolica, l’istituzione nella quale in maniera più autentica e consapevole persiste il retaggio classico-cristiano). Persino in certi fumetti d’ispirazione cattolica si insiste nel contrapporre le figure intrinsecamente buone degli indiani d’America, animati sempre da principi di onestà e generosità, a quelle dei malvagi e avidi uomini bianchi: quasi che il peccato originale fosse prerogativa di una sola razza! E non ci si rende conto di come sia biecamente razzista (specialmente da parte di cattolici) un’impostazione del genere! Capaci di ascoltare le ragioni di tutti (o almeno così si dice, perché in realtà al fondo di un simile atteggiamento vi è un sostanziale disinteresse e disimpegno nei confronti di qualsiasi valore), ma incapaci di vedere il positivo (che non è poco) della nostra cultura. Con un rovesciamento inatteso del dettato evangelico, la pagliuzza del nostro occhio diventa una trave: ma una trave della cultura, della civiltà, della società, o di altri enti comunque impersonali, e dunque si tratta di una constatazione che non sollecita una presa di coscienza personale: una trave che non tocca la nostra responsabilità di individui si può facilmente ammetterla: non costa nulla.
Lungi dall’essere un invito alla tolleranza (sia pure parziale) e all’accoglienza dell’altro, l’ideologia del politicamente corretto (o meglio, del politicamente disimpegnato, ché tale in realtà finisce per essere) stava per trasformarsi in una vera e propria religione: si bandiva nelle scuole dell’obbligo ogni accenno al Natale cristiano, perché questo avrebbe messo a disagio gli studenti di altre culture e religioni, ormai numerosi, e si imponeva di credere (non è un’esagerazione: conosciamo scuole in cui letteralmente si imponeva di credere) a Babbo Natale, figura neutra che da una parte non costringeva gli scolari di altre culture a misurarsi con nulla (il che li condanna a una mancata integrazione, a un’impossibilità di dialogo, in sostanza a una situazione di emarginazione la cui colpa ricade unicamente su chi ha compiuto la scelta di censurare anziché di far conoscere), dall’altra faceva indirettamente capire che il Natale cristiano andava trattato al massimo come una leggenda, una bella fiaba magari anche con particolari toccanti o edificanti, con un generico appello buonista, ma comunque un racconto privo di spessore storico e ormai inadatto alle nostre coscienze mature ed emancipate.
In questi ultimi tempi sembra che cominci a spirare un’aria un po’ diversa. Dagli schermi televisivi, come da organi di stampa certo non sospetti di atteggiamento clericale (vedi il Corriere della Sera), ci sentiamo dire che non è la cultura occidentale a perpetrare atti di intolleranza e di fanatismo, e che in molti paesi del mondo i cristiani sono le vittime, non i persecutori (si veda il dialogo Mieli-Cardini sul Corriere di gennaio 2003), e che è grave colpa l’avere chiuso gli occhi in questi anni, accecati da un’ideologia assolutamente indisposta a prendere atto dell’evidenza dei fatti (consigliamo a questo proposito la lettura, persino impressionante, del libro di A. Socci, I nuovi perseguitati, Casale Monferrato 2002). Evidentemente, si era ormai raggiunto un limite oltre il quale non era possibile andare. Non è sufficiente stendere un velo opaco davanti ai fatti per celarli alla vista, perché la verità alla fine lacera il velo e irrompe davanti agli occhi: come ci insegnavano i Greci, è caratteristica costitutiva della verità quella di non potere restare nascosta (a–lētheia), ma di rivelarsi e di rivelare alla fine.
Questo incipiente cambiamento richiama gli insegnanti di lettere classiche a una grande responsabilità. È compito nostro sottolineare l’esistenza di una continuità ideale tra cultura classica e cultura occidentale. Abbiamo già cercato di dire ampiamente, nel nostro lavoro di questi anni, in che senso vada assunta questa affermazione di principio. Se la nostra cultura è erede diretta del mondo classico-cristiano, è chiaro che l’appello alla cultura classica non basta, da sola, a definire la nostra fisionomia, in quanto ne costituisce solo una parte: l’eredità classica è stata recuperata e rivivificata nel contesto del messaggio cristiano, e dalla sintesi di queste due linee è nata la nostra identità, e col Cristianesimo sono entrati a fare parte del nostro bagaglio culturale anche tanti aspetti della tradizione semitica che il Cristianesimo a sua volta portava con sé. Posto questo, è chiaro anche che un prudente richiamo all’alterità del classico è doveroso: il mondo greco-romano costituisce un’esperienza ben definita nella storia e nel panorama delle culture, ed è giusto quindi considerare anche quest’aspetto di diversità e di relatività. Ma sarà anche compito nostro ribadire continuamente che molte idee forti della nostra tradizione culturale sono nate nell’antichità greco-romana: l’idea della vita come ricerca, l’idea della storia, l’idea della democrazia, tanto per citare qualche esempio un po’ a caso (se ne potrebbero citare certamente tanti altri), sono tutti elementi che definiscono la nostra identità culturale e che hanno la loro culla nel mondo classico, e pure nel mondo classico è la culla di una tradizione di letteratura, di arte e di pensiero che null’altro merita se non considerazione e rispetto (e l’obbligo di conoscerla in modo critico e consapevole, traendone gli spunti che se ne possono ricavare).
Vorremmo ancora aggiungere un punto su questo argomento, senza nessuna intenzione né apologetica né retorica: è vero che vi sono stati nella storia europea momenti negativi, non si possono negare nel lungo corso della nostra storia episodi di sopraffazione, d’intolleranza, di razzismo, e via dicendo. Ma sarà utile insistere su due fatti: primo, che appunto di episodi si tratta (spesso anche descritti in modo esagerato o contraffatto), e non certo patrimonio esclusivo della nostra storia (anche nelle altre culture esiste la guerra di conquista, lo schiavismo, la barbarie); secondo, che la nostra cultura ha al suo interno gli anticorpi per giudicare, e non appena possibile amputare, tali aberrazioni. Il nazismo è stato certamente una delle grandi tragedie del Novecento, ed è innegabile che sia nato e cresciuto all’interno del mondo occidentale, anche se si trattava di un’ideologia che rinnegava in sostanza i principi su cui la nostra storia e i nostri ideali si reggono (e non sarebbe male magari ricordare ogni tanto che durante la seconda guerra mondiale i capi dell’Asse si presentavano come la spada dell’Islam), ma è anche vero che il giudizio di condanna era chiaro e preciso all’interno stesso del mondo occidentale, che alla fine ha trovato il modo di abbattere il mostro. Un’altra grande tragedia del XX secolo è stata costituita dal comunismo, ideologia anche questa nata all’interno del mondo occidentale (Marx è erede di una certa linea di interpretazione filosofico-economica tedesca) e anche questa aberrante rispetto alle concezioni più autentiche della nostra cultura (perché, come bene ci insegnano gli antichi, un’ideologia totalmente materialista è un corpo estraneo rispetto al comune modo di pensare e di sentire dell’uomo occidentale), e anche questa sfaldatasi, sia pure dopo avere provocato decenni di lutti e di sangue, nel momento in cui le contraddizioni col patrimonio ideale dell’Occidente si sono fatte acute e laceranti, fino a risultare insostenibili.
Occorre dunque richiamarci a un atteggiamento costruttivo nella scuola. Per i motivi che abbiamo detto finora, gli insegnanti di materie classiche, e di materie umanistiche in genere, dovrebbero essere i gioiosi protagonisti della scuola attuale, senza complessi, giustamente ed equilibratamente critici di fronte a certe pretese di riforme che riducevano progressivamente lo spazio alle nostre materie (lo spazio in senso quantitativo, perché sempre meno tempo veniva loro assegnato, ma soprattutto lo spazio qualitativo, perché sulle nostre materie, talora tollerate più che valorizzate, pesava un giudizio di scarsa utilità, di sostanziale improduttività). Un volonteroso dilettante, assurto al rango di ministro della pubblica istruzione della Repubblica Italiana (e proprio in quanto volonteroso e pieno di iniziative apportatore di scompigli e di danni in numero maggiore di quanto fosse auspicabile) aveva rilasciato anni fa un’intervista in cui definiva la cultura del liceo classico dannosa e corruttrice (un’intervista rilasciata nel periodo di Ferragosto, che forse il volonteroso ministro aveva scambiato col primo di aprile). Oggi un intervento del genere sembra lontano anni luce. Ma occorre anche dire che, per quanto l’attuale impostazione riformatrice abbia in parte corretto tante storture e improvvisazioni dei progetti precedenti, preoccupa non poco il fatto che l’azione dell’attuale ministro, peraltro non incisiva e innovatrice come si sarebbe sperato all’inizio della legislatura, sia ancora condizionata da sedicenti esperti che sono pur sempre gli infelici artefici di decenni di cattive riforme, che hanno abbassato il livello della scuola italiana in modo pauroso. Per anni la progettualità scolastica è stata demandata a pedagogisti, sociologi, teorici, tuttologi svariati: tutti potevano in un modo o nell’altro incidere sulla scuola, salvo le persone più direttamente competenti, cioè i professori (che anzi venivano tenuti deliberatamente lontani, perché il loro diretto contatto con la realtà non li metteva in grado di vedere la situazione in modo sereno e dall’alto, parole quasi testuali che ci furono dette un giorno di tanti anni fa da un deputato democristiano impegnato nella politica scolastica). Ci preoccupa vedere come questi personaggi abbiano tuttora un’influenza (speriamo non determinante) nella formulazione di piani e progetti, da cui dovrebbero poi scaturire le decisioni dei politici. Molto è cambiato nel giro di pochi mesi: non si può far finta di nulla, come se uno scossone dirompente non fosse piombato all’improvviso sulla nostra coscienza un po’ intorpidita. E dunque è compito nostro essere protagonisti nella scuola, fare sentire la nostra voce, attraverso tutti gli strumenti che il nostro ordinamento democratico ci consente di utilizzare, con prese di posizione pubbliche, con appelli, con mozioni, sollecitando le nostre organizzazioni professionali a farsi interpreti delle nostre proposte, e così via. Dalle colonne del Corriere della Sera il 31 agosto 2002 E. Galli della Loggia prendeva acutamente posizione contro un progetto di “istruzione senz’anima” che ancora sembra albergare in sede ministeriale. Diceva tra l’altro che certi progetti elaborati dal ministero, come l’idea di inserire tra le materie scolastiche una “introduzione alla convivenza civile”, rappresentano la pietra tombale dell’idea di cultura «che storicamente discende dalla grande tradizione dell’Umanesimo occidentale. Al centro di tale tradizione vi è sempre stata l’idea che il sapere possieda in quanto tale un’intrinseca capacità di formazione umana e di incivilimento. L’idea che la conoscenza di una poesia, delle passate gesta di una civiltà, del movimento dei pianeti o del misterioso rapporto tra i numeri e le sostanze, che la conoscenza di tutto ciò, lungi dall’esaurire in sé il proprio senso, ne abbia uno più vero e più alto: la nascita di un individuo per quanto possibile libero e consapevole, in grado, proprio perché “colto”, “istruito”, di non soggiacere ciecamente alle passioni proprie e del mondo ma di avere lo sguardo rivolto alla ricerca della “verità”». Condividiamo pienamente questo appello. Proprio in questi giorni, un noto attore ha mostrato agli italiani come sia possibile leggere in televisione Dante (e non un passo qualsiasi, ma un passo del Paradiso pregnante di significato), incollando davanti allo schermo televisivo milioni di telespettatori, mostrando come la bellezza e il valore (il Sublime, per usare un termine familiare) afferrino, come vi sia naturalmente, più o meno sepolto, in tutti noi un desiderio di “cultura”, cioè di aprirsi alla contemplazione del bello e del valore. La scuola dovrebbe valorizzare e promuovere questo desiderio (è il suo compito istituzionale), non censurarlo. Quante volte ci eravamo sentiti dire in questi ultimi anni che la lettura di Dante è inattuale, è inadatta alle giovani generazioni, deve essere sostituita? E quanto Dante si legge oggi, anche nei licei? C’è un’evidenza dei fatti: Dante appassiona (e lo potremmo ripetere per Omero, per Eschilo, per Virgilio, per tantissimi altri); speriamo che questa ormai innegabile constatazione porti a una definitiva rimozione di politiche scolastiche ormai superate, rilanciando nella scuola una vera passione per l’educazione, che non è né l’educazione a generiche “tecniche della convivenza” né l’acquisizione di competenze settoriali utili nello specifico ma inadatte a formare l’individuo, inadatte a creare una consapevolezza critica di fondo capace di porsi in modo corretto di fronte all’umano. Siamo forse di fronte all’inizio di qualche novità interessante. Cerchiamo di essere capaci di afferrare questi germi di novità positiva e di valorizzarli nel nostro lavoro quotidiano. Consigliamo ai nostri lettori di rileggere l’articolo di Galli della Loggia (facilmente reperibile nel sito del Corriere): saremmo anche disponibili a ospitare nel prossimo numero di Zetesis le riflessioni dei nostri lettori su questo argomento.