A cura della Redazione
Da vario tempo mi andavo chiedendo perché il lavoro su Omero in prima liceo classico presentava delle difficoltà. C’erano state delle tappe successive: inizialmente un’ignoranza quasi completa dei poemi omerici, quando, dopo l’epica della scuola media, nel biennio veniva letta secondo i programmi ministeriali solo l’Eneide; poi una conoscenza dei due poemi fondata essenzialmente su copioni antropologico/sociologici (sul tipo del Codino) applicati per lo più in modo forzato. Negli ultimi anni invece sembra prevalere la narratologia, per cui ogni sforzo di accostare gli studenti alla lettura, in traduzione o in lingua, del testo omerico da parte degli insegnanti del triennio viene filtrato dagli studenti attraverso una sorta di parole-slogan più o meno meccanicamente applicate: narratore onnisciente, punto di vista, intreccio… quasi che senza quelle il lettore si smarrisse, non sapesse più che cosa fare del testo. Così, mentre sono scomparsi gli schemi sentimentali, tipo Ettore eroe puro, Achille tutto d’un pezzo, Ulisse sempre ansioso di conoscenza, ecc., e gli schemi sociologico/politici tipo Achille come nascita dell’individuo, Tersite popolano contro il potere, ecc., sono scomparsi insieme anche Achille, Ettore, Ulisse e Tersite. Niente da dire contro la narratologia, ma l’impressione è quella di un testo come corpus vile su cui applicaredegli schemi, non, invece, ciò che dovrebbe essere, e cioè un testo scelto perché grande e bello e interessante, da leggere eventualmente con l’aiuto di metodi facilitanti un più profondo incontro.
Forse si tratta di un impaccio relativo a testi difficili da padroneggiare come gli antichi poemi, pensavo. Ma recentemente mi è capitata in mano un’edizione scolastica de I Promessi Sposi. Da molto non insegno al biennio, e avevo nella mente edizioni scolastiche con ampie note di commento, storiche, esplicative e interpretative. Trovo note scarsissime, un paio per pagina, tanto per spiegare qualche termine (neppure sempre correttamente). Sto per giudicare sbrigativamente l’edizione come un’opera che affida il testo allo studente o al docente cavandosela con pochissimo sforzo, quando mi accorgo che dopo ogni capitolo c’è un ponderoso bagaglio di commento narratologico, con l’inserimento di molti altri testi letterari di diversi autori ed esercizi applicativi a partire da vari passi di opere differenti. Capisco cioè che il romanzo manzoniano serve solo per imparare degli schemi da applicare altrove.
Le conclusioni sono sconfortanti, perché è evidente che non si tratta solo di metodi discutibili. E’ in gioco la distruzione di una cultura che ci ha generati, espressione di persone, di popoli, di valori in cui non a caso il senso religioso (o, nel Manzoni, la religione cattolica) gioca un ruolo essenziale. E’ in gioco la distruzione dell’io: quando tutto è interscambiabile (si legge per imparare schemi da applicare su altri testi, in una catena di sfruttamento culturale il cui fine è sconosciuto) dove si pone la persona dell’autore, del docente, dello studente? Quando, come, a che livello, avviene un incontro?
E ancora: se tutti i testi sono interscambiabili, non ci sono opere grandi e altre meno grandi? escludiamo un criterio di bellezza, di hypsos? Perché leggiamo in classe certe cose e non altre?
E infine: il poema, il romanzo sono stati composti perché il pubblico venga a contatto (con l’ascolto, con la lettura) con una bella storia. Una storia esteticamente alta, portatrice di idee radicate in una cultura, una storia con cui confrontare la propria esperienza umana…ma prima di tutto una storia. Il gusto di raccontare, la capacità di intrattenere, di dipanare una vicenda accomuna tutti i veri narratori, piccoli o grandi, Omero come Manzoni, Tolkien come Lewis, Asimov come la Christie. Ci stupiamo (magari qualcuno si scandalizza: e certo rientriamo nella questione delle scelte) se i ragazzi aspettano con ansia l’uscita di un nuovo Harry Potter? Dovremmo ringraziare il cielo che non abbiamo ucciso in loro l’amore al racconto.