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Editoriale 2006-2

by Mariapina Dragonetti

A cura della Redazione


Se, anziché una rivista che si occupa di problemi scolastici e culturali, fossimo un’azienda, diremmo che le nostre azioni hanno subito un inatteso e sensibile rialzo negli ultimi mesi, anzi non si sono mai trovate a un livello così alto, da quando la voce autorevole di Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona ha dato alcune indicazioni da cui discende in modo molto chiaro l’importanza dell’elemento classico nella nostra cultura attuale (e dunque, per naturale conseguenza, l’importanza di uno studio serio e motivato dei classici nella scuola). Il discorso del Papa ha rappresentato per tutti noi una scossa di fondamentale importanza: non per nulla subito dopo che esso è stato pubblicato sono iniziati lavori di rilettura e di riflessione nelle scuole, nelle università, nei centri culturali (dell’esito di uno di questi incontri rendiamo anche puntualmente conto nel presente fascicolo), nei siti internet (e anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo cercato di contribuire inserendo nel sito di Zetesis una pagina sull’argomento).

S. Botticelli, La Calunnia

Che cosa ha detto il Papa di così importante dal nostro punto di vista? Un passaggio in particolare vorremmo citare e richiamare:

«Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.»

Scaturiscono dal discorso del Papa due conseguenze.

1. La nostra cultura risulta dall’incontro tra linea ebraico-cristiana e pensiero greco. Il Cristianesimo ha valorizzato e recuperato quanto di positivo il pensiero greco offriva e ne ha fatto una parte indissolubile della sua cultura. Dunque né la cultura greca rappresenta un’incrostazione accidentale del Cristianesimo (come taluni hanno pensato, teorizzando anche un processo di deellenizzazione del Cristianesimo, come leggiamo verso la fine del discorso stesso) né l’eredità greca che costituisce il nostro retroterra culturale più remoto può essere concepita priva dell’apporto cristiano (come hanno fatto i legislatori europei, che hanno partorito dalla loro fantasia un’Europa razionalista nata dalle ceneri della Rivoluzione Francese). Questa è la faccia con cui ci presentiamo, e con cui possiamo avviare un dialogo fecondo con altre culture e con altre civiltà. Pensare di avviare un dialogo prescindendo o addirittura negando questa considerazione significa condannarsi a un suicidio: chi pensa realisticamente che questo modo di procedere abbia anche una sola lontanissima speranza di successo è un povero ingenuo o è una persona in mala fede che consapevolmente si pone al servizio di un disegno scellerato e nefasto.   

2. Il Papa ha additato una parola-concetto che l’eredità greca ha fatto rimbalzare fino a noi: la parola logos. Ciò che caratterizza il mondo classico è la sua volontà di interrogarsi, la sua capacità di procedere a un dibattito serrato di idee e di posizioni, nel desiderio di conquistare la verità. Questo dibattito è bene espresso dalla parola greca dianoia (cioè il passare attraverso, dià, col pensiero, il penetrare sempre più a fondo gli oggetti e i problemi): esso è rappresentato dalla continua volontà di capire, di porre domande, di riconsiderare ogni volta i risultati raggiunti e le risposte, “provando e riprovando”: così la descrive Platone in un passaggio del Teeteto (189 e): «Pensare (dianoeîsthai) è il ragionamento che l’anima di per sé fa con sé stessa intorno alle cose che indaga. (…) Io mi figuro che, quando l’anima pensa, non faccia altro che ragionare con sé medesima, per via di domande e risposte, di affermazioni e negazioni; e che, quando si ferma in un pensiero ben definito, sia che vi pervenga più o meno lentamente, o rapidamente e d’un colpo, quando si decide e non dubita più, questa noi la riteniamo la sua opinione. Sicché io, per conto mio, dico che l’opinare è un ragionare, e l’opinione un ragionamento espresso con parole, non però ad un altro né con la voce, ma a sé medesimo, in silenzio». Lógos è desiderio di ordine, cercare di capire i rapporti che legano e collegano le realtà del creato, partendo da quello stupore che per Aristotele è l’inizio di ogni filosofia, desiderio di capire se ciò che si offre al nostro sguardo, nella sua bellezza e nei suoi elementi negativi, è in qualche modo sostenuto da un disegno di cui possano comprendersi almeno gli aspetti più evidenti: se insomma il lógos della nostra intelligenza è in qualche modo immagine di un’intelligenza vivificatrice, almeno intravista da qualche spunto di pensatore greco. Dunque tra il patrimonio che il mondo classico ci lascia in eredità c’è anche questo appello alla ragionevolezza, al pensiero positivo, alla lucida volontà di capire. Ma lógos non è solo ragione: è anche la parola, che rende comunicabili e partecipabili i frutti del ragionamento, che permette all’uomo di realizzare nel concreto la sua vocazione di zôon politikón, di animale politico. E’ anche vero però che la ragione da sola non basta, e si mostra strumento inadatto, rispetto a ciò che da essa si pretende: è ancora Platone a ricordarcelo, sempre nel Teeteto: «Purtroppo, ci troviamo in una condizione così disperata da dover mettere a prova ogni argomentazione, voltandola e rivoltandola in tutti i sensi», o con altre parole (richiamate anche dal Pontefice a Ratisbona) nel Fedone (90 cd): «Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno». Il limite che si presenta all’intelligenza umana è invalicabile, e tale da generare sconforto. Ma questo non implica né un giudizio negativo sullo strumento né un abbandono di esso. E del resto uno strumento viene utilizzato in tutte le sue potenzialità solamente quando se ne conosce il limite: solo così si evita di farne un uso distorto.

Incontro dunque tra una tradizione che ha ricevuto dalle mani del Figlio di Dio la pienezza della Rivelazione, e una tradizione che a questa Rivelazione non ha mai potuto sperare di arrivare, ma ha articolato in modo lucido e preciso quelle domande sull’essere e sul suo significato a cui non sarebbe mai stata in grado, da sola, di rispondere. Un incontro tra due tradizioni complementari tra loro, dalle quali è nato qualcosa di originale e potente, tale da segnare positivamente la storia dei secoli successivi fino ad oggi. Chi ha un minimo soltanto di competenza storica sa quanto sia stato fertile e produttivo il prodotto generato da questo incontro: è dai suoi sviluppi che sono nate tante tradizioni collaterali: dall’Islanda ai popoli slavi, dall’Armenia all’Irlanda, è stata la diffusione di questa cultura cristiana alimentata dagli strumenti della cultura greco-romana a suscitare energie, a fornire i mezzi per esprimersi, a sviluppare potenzialità per creare nuove e diverse tradizioni. Questa cultura ha rivelato un’attitudine all’adattamento, un afflato universalistico, una capacità di valorizzazione del diverso unici in tutta la storia antica e tardoantica. Anche il mondo islamico è stato sfiorato da questa cultura, e per un certo periodo ne ha subito il fascino, ma alla fine ne ha abbandonata la linea e ha proceduto secondo una strada diversa. Ci sembra utile richiamare le parole, scritte a caldo subito dopo il discorso di Ratisbona, di un grande esperto, Massimo Introvigne, su il Giornale del 16 settembre 2006:

«I mali del mondo moderno in genere – non solo dell’Islam – sono ricondotti [dal Papa] a un ricatto intellettuale secondo cui esistono due soli modi di relazione fra religione e cultura, e anche fra religione e politica: il fondamentalismo (la fede senza la ragione) e il laicismo (la ragione senza la fede). Ma secondo il Papa le posizioni possibili nel rapporto fra religione e cultura non sono due ma tre: il fondamentalismo, il laicismo e la «sana laicità» che coniuga fede e ragione. Le religioni che procedono da Abramo hanno trovato in sé una via per sfuggire al fondamentalismo e al laicismo – ben prima che questi termini nascessero – grazie all’incontro con la Grecia classica. L’Islam ha incontrato l’eredità greca, ma la ha ampiamente abbandonata nel XIII secolo. Anche in Occidente il tentativo di separare il cristianesimo dalla filosofia greca ha prodotto prima una fede separata dalla ragione (che è alle origini di un certo fondamentalismo protestante), poi una ragione senza fede che genera il laicismo. Analoghi processi si sono svolti nell’ebraismo. In realtà, tutte e tre le religioni che riconoscono le loro radici in Abramo sono percorse da «guerre civili» in cui si contrappongono fondamentalismo, laicismo e «sana laicità», anche se nell’Islam la posizione intermedia della «sana laicità», pure non inesistente, è rimasta a lungo marginale e minoritaria».

C’è un secondo intervento di Benedetto XVI che vorremmo citare, il discorso pronunziato in occasione della visita all’Università Lateranense. Tra l’altro il Pontefice diceva in quell’occasione:

«L’Università è uno dei luoghi più qualificati per tentare di trovare le strade opportune per uscire da questa situazione. Nell’Università, infatti, si custodisce la ricchezza della tradizione che permane viva nei secoli (…); in essa può essere illustrata la fecondità della verità quando viene accolta nella sua autenticità con animo semplice ed aperto. Nell’Università si formano le nuove generazioni, che attendono una proposta seria, impegnativa e capace di rispondere in nuovi contesti alla perenne domanda sul senso della propria esistenza. (…) Ogni uomo, infatti, è chiamato a dare senso al proprio agire soprattutto quando questo si pone nell’orizzonte di una scoperta scientifica che inficia l’essenza stessa della vita personale. Lasciarsi prendere dal gusto della scoperta senza salvaguardare i criteri che vengono da una visione più profonda farebbe cadere facilmente nel dramma di cui parlava il mito antico: il giovane Icaro, preso dal gusto del volo verso la libertà assoluta e incurante dei richiami del vecchio padre Dedalo, si avvicina sempre di più al sole, dimenticando che le ali con cui si è alzato verso il cielo sono di cera. La caduta rovinosa e la morte sono lo scotto che egli paga a questa sua illusione. La favola antica ha una sua lezione di valore perenne. Nella vita vi sono altre illusioni a cui non ci si può affidare, senza rischiare conseguenze disastrose per la propria ed altrui esistenza. Il docente universitario ha il compito non solo di indagare la verità e di suscitarne perenne stupore, ma anche di promuoverne la conoscenza in ogni sfaccettatura e di difenderla da interpretazioni riduttive e distorte. Porre al centro il tema della verità non è un atto meramente speculativo, ristretto a una piccola cerchia di pensatori; al contrario, è una questione vitale per dare profonda identità alla vita personale e suscitare la responsabilità nelle relazioni sociali (cfr Ef 4,25). Di fatto, se si lascia cadere la domanda sulla verità e la concreta possibilità per ogni persona di poterla raggiungere, la vita finisce per essere ridotta ad un ventaglio di ipotesi, prive di riferimenti certi. Come diceva il famoso umanista Erasmo: “Le opinioni sono fonte di felicità a buon prezzo! Apprendere la vera essenza delle cose, anche se si tratta di cose di minima importanza, costa una grande fatica” (Elogio della follia, XL VII).»

Sono parole indirizzate al mondo universitario, ma possono bene adattarsi a tutti gli insegnanti. E’ un augurio che rivolgiamo a tutti i nostri colleghi e in genere a tutti i lettori della nostra rivista. Che il compito della ricerca della verità sostenga la nostra fatica quotidiana e il nostro impegno di docenti, e che questo lavoro sia in grado di generare stupore a chi ci ascolta. Il Papa indica ai docenti il fine e lo strumento: il fine è la ricerca della verità, il mezzo è un sano uso della ragione e della parola (che non rifugga l’illuminazione della fede quando ci si muove su un terreno dove la ragione da sola non sarebbe in grado di avventurarsi). È il solo rimedio per evitare tentazioni che portano fuori strada e, alla fine, cadute rovinose: non è più il calore del sole ad attrarre noi novelli Icaro, ma un delirio di onnipotenza che fa dimenticare i confini dell’agire e del capire umano, quando ingenuamente si ritiene che dalla tecnica e dai suoi presunti prodigi possano arrivare rimedi in grado di scardinare confini che la ragione ci presenta come obiettivamente invalicabili. Limiti che invece l’uomo classico aveva presenti in modo sofferto, ma consapevole: essere straordinario è l’uomo, l’essere più straordinario che esista in natura, i limiti della sua azione si sono dilatati in misura sensazionale nell’ultimo secolo o negli ultimi anni, ma la sconfitta del dolore e della morte perdura davanti a lui, nonostante i tentativi di mascherarla o di nasconderla perpetrati da tanta parte della cultura moderna. Il primo stasimo dell’Antigone sofoclea è ancora e sempre attuale, nonostante i due millenni e mezzo che ci separano dal suo autore.