a cura della Redazione
Non possiamo scrivere queste righe senza pensare alla guerra in corso, ormai da mesi, nell’Europa stessa, a poca distanza da noi. Abbiamo dovuto prendere atto, noi che siamo abilitati in storia e geografia, che le insegniamo o le abbiamo insegnate, di quanto poco siamo consapevoli di confini e date, di storia appena passata e implicazioni politiche; e i più vecchi di noi, che hanno conosciuto la rivolta d’Ungheria nel 1956, l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, la grande stagione di Solidarnosc in Polonia, del Samizdat in Russia, la caduta del muro di Berlino, la fine dell’URSS, sono i più disorientati, come davanti al rinnovarsi di un’epoca che sembrava lontana. La guerra a due passi, che chiede di schierarsi, che pone questioni di armi, di gas e di grano, di profughi e di alleanze mondiali, ci ha spiazzati, ci interroga, ci trova impreparati.
C’è, mi pare, un’impreparazione – un termine curioso, in questa fine anno, con la solita serie di interrogazioni di recupero, scrutini, esami di stato, esami universitari, lauree – sul rapporto fra la guerra e la pace. Molta parte dei testi che leggiamo (in particolare i testi di latino e greco) raccontano guerre: nell’epos, nella storiografia, a volte anche nella lirica. Guerre d’assedio, di conquista, di difesa, guerre con barbari, guerre fra compatrioti. Quando raccontiamo di una guerra nell’ora di storia indaghiamo sulle cause seguendo Erodoto, distinguiamo fra αἰτία e πρόφασις con Tucidide, cerchiamo il responsabile immediato dell’ἀρχή con Polibio, ma generalmente delle cause che elenchiamo abbiamo un’idea di irrevocabilità. «A questo punto la guerra era inevitabile» sembra essere sempre la conclusione, come se nessun fatto potesse evitare di diventare una “causa”.
Eppure che la guerra sia un’immane tragedia è chiaro. A partire dall’epica omerica, che nasce dalla memoria divenuta mito di guerre di espansione e conquista: Iliade poema della forza intitolava Simone Weil il suo saggio sul poema, rilevando come entrambi i popoli in guerra siano a turno costretti a sottomettersi alla supplica, al dolore, alla morte; e nell’Odissea tutti i superstiti di una guerra vinta ricordano senza orgoglio e con sofferenza i compagni, i parenti, gli amici perduti in battaglia o nel ritorno. Sventura è quella di vincitori e vinti nelle tragedie di Euripide, scritte e rappresentate durante la guerra del Peloponneso; anche la grande epopea delle guerre persiane è osservata da Eschilo dalla parte dei Persiani rimasti in patria, ad attendere con ansia e timore la sorte di una grandiosa spedizione in cui «non c’è nessun vecchio», in cui un’intera generazione di giovani è andata a morire. E da molte parti sui social è girata la frase che Erodoto fa dire a Creso, sconfitto e a rischio di morte: «nessuno è così folle da volere la guerra anziché la pace».
La bellezza della morte in difesa della patria è stata cantata da molti, come la grandezza del sacrificio di sé: non vi aggiungiamo altro. Ma la fatica di cercare la pace è essa pure importante: quante voci di pace, quante proposte di tregua, quanti rimproveri a chi ha voluto una guerra percorrono anche i nostri testi? Quanti eroi come Enea hanno avuto il compito così apparentemente poco eroico di fuggire per accompagnare un miserabile vulgus di profughi a cercare una terra altrove?
Altre voci più autorevoli della nostra stanno affermando l’importanza di costruire la pace, al di là di giudizi ed analisi, con l’apparente ingenuità di chi non considera prevalenti le ragioni politiche ed economiche. E se le “cause”, αἰτίαι e προφάσεις, hanno finora prevalso, dobbiamo tutti imparare (e insegnare) a credere nella loro revocabilità.