a cura della Redazione
Capita di incontrare vecchi amici, con cui nella giovinezza si sono condivisi studi, entusiasmi, tentativi di giudizio, opere. Il tempo è passato per tutti, con il suo bagaglio di preoccupazioni, difficoltà di lavoro e di famiglia, vuoti lasciati da persone care che ci hanno preceduto. Capita di parlare dei figli e soprattutto, per chi li ha, dei nipoti. I giudizi che emergono sono perentori. La scuola italiana non vale quella di altri paesi, bisogna importare nuovi modelli, lavori di gruppo, studio in gruppo: una visione che parte da esperienze universitarie e lavorative conosciute attraverso le generazioni più giovani, con un occhio all’Europa e al futuro, e che è pressante far partire dagli anni della scuola. D’altra parte, viene posto il dubbio sull’utilità della scuola in generale, in particolare degli studi fatti insieme, dello stesso lavoro svolto per anni: ha senso ancora il liceo classico? E inoltre: che cosa serve a noi ora continuare a studiare, approfondire, scrivere, pubblicare qualcosa? lavorare magari in due, in tre (tanto per contraddire l’entusiasmo appena espresso per il team lavorativo)?
Tante volte negli editoriali abbiamo parlato della scuola: siamo in questo periodo un po’ sospesi, in attesa delle molte novità che il Ministro sta annunciando e varando; in attesa di come andrà quest’anno l’esame finale, molte volte modificato, sacrificato nel periodo del covid e variamente ripreso, tanto che ci chiediamo in che rapporto sia quello attuale con l’esame introdotto nel 1999, dopo quello durato dal 1969 al 1998. Ma sospensione e attesa non ci impediscono di lavorare ancora per la scuola e nella scuola, soprattutto di credere al valore delle nostre materie. La scuola serve ad aiutare a ragionare, a trovare il proprio giudizio, a scoprire la bellezza, diciamo ai vecchi amici; il liceo classico con la sua unitarietà in cui ogni disciplina trova il suo posto, con la sua possibilità d’incontrare un mondo di grande spessore umano, di grande ricchezza artistica, di grande profondità di pensiero e di ricerca, ha certo ancora senso. E se si incontra qualcuno con cui lavorare, con cui studiare, leggere, scrivere, non è tempo perso, è una possibilità per sé, ed è un’offerta a chi ha ancora voglia di condividere un interesse e un giudizio. È il senso del lavoro di Zetesis, degli incontri dei Sabati appena conclusi, dell’attività editoriale che coinvolge alcuni di noi.
Certo, rispondiamo alle perentorie obiezioni metodologiche, vanno ricercati metodi che si adattino ai cambiamenti dei tempi, ai ragazzi sempre mutevoli. Ma proprio per questa fluidità siamo convinti che nessun metodo è assolutamente utile e definitivo. La polemica su voti e giudizi che imperversa anche sui social ci fa un po’ sorridere: chi ha figli di varie età è passato attraverso voti numerici, lettere dell’alfabeto, giudizi perentori o discorsivi, giudizi decisi o sfumati (quasi sufficiente, non del tutto sufficiente, appena sufficiente, sufficiente più…); chi insegna sa i limiti del voto “oggettivo”, del test, del questionario, del compito in comune su classi parallele, della valutazione “condivisa” che finisce in un “liberi tutti”. Chi ha vissuto gli anni delle sperimentazioni più ardite le ha viste terminare, a volte con dispiacere, a volte con sollievo, o trascinarsi stancamente per volere di qualche politico o di qualche preside; guardiamo alle sperimentazioni attuali (ne parliamo anche in queste pagine) con curiosità e interesse, certi che tutto dipende non dal format, ma dagli insegnanti che lo applicano, dall’attenzione con cui la classe e il singolo ragazzo sono seguiti e coinvolti, dalla capacità di non smarrire nel particolare la visione d’insieme. Francamente vediamo con più timore modalità d’insegnamento linguistico correnti nella scuola, soprattutto nelle materie che più ci riguardano: o ancorate a schemi già vecchi nel 1969, anno della soppressione della prova dall’italiano a latino, schemi rigidi tesi a sostituire regole alla ricchezza storica della lingua, formulati anche in modo assurdo (“ablativi assoluti coi participi passati transitivi attivi e intransitivi deponenti”: ma è sempre vero? e perché? e perché “attivi” se sono passivi? ci chiedeva stupita e confusa una ragazza); oppure modalità approssimative, soprattutto riguardo alla grammatica greca, così complessa che ogni riduzione lascia dei buchi irrisolti, ogni aggiramento impedisce la comprensione di un testo qualunque.
Parlare di scuola ci porta anche a prendere in considerazione due anniversari, oggetto di riflessioni e discussioni: i centocinquant’anni dalla morte di Alessandro Manzoni e i cento dalla nascita di don Lorenzo Milani. Lasciamo ad altri più autorevoli l’elogio del grande scrittore, e limitiamoci alla presenza dei Promessi Sposi nei programmi scolastici, presenza sopravvissuta ad ogni cambiamento. Già in un editoriale di vari anni fa (1/2006) avevamo notato che le edizioni scolastiche del romanzo lo utilizzano spesso come pretesto per ogni tipo di lavoro ed esercizio; aggiungiamo ora prassi scolastiche che richiedono apprendimento mnemonico e riassunti particolareggiati, tali da uccidere qualunque interesse, senso e gusto; o letture assegnate senza l’intervento del docente e a volte senza la comprensione neppure letterale da parte dello studente. Il romanzo è molto lungo, la scrittura difficile: perché se ne ricavi il valore letterario e umano ci vuole un lavoro in classe di lettura e spiegazione, e uno sforzo di comprensione simpatetica, di confronto consapevole, nel lavoro casalingo. È certo una questione di scelte nell’uso del tempo e delle altre letture da proporre.
Di don Milani è difficile parlare perché è stato odiato e osannato, ed è tuttora oggetto di polemica. La scuola di Barbiana costituisce un modello legato a situazioni particolari, un tempo scuola senza limiti, un numero di studenti ridotto, una programmazione fuori dagli schemi. Non è riproducibile in una scuola di massa, tempi sindacali, programmi apparentemente fluidi ma vincolati a obiettivi, progetti, competenze. Resta l’attenzione a chi è in difficoltà («l’occhio vi correrebbe su Gianni…»): allora socialmente ed economicamente, mentre ora si tratta di difficoltà di apprendimento, o psicologiche e caratteriali, o d’inserimento da altre lingue e culture, o di handicap. Molti passi sono stati fatti dalla situazione di privilegi ed esclusioni di cui parla la Lettera ad una professoressa. E forse si può togliere ciò che è caduco, una certa rabbia e disprezzo per i ragazzi bravi (i Pierini), anch’essi degni di attenzione e valorizzazione e non necessariamente privi di problemi solo perché avvantaggiati economicamente; un certo disprezzo per i programmi scolastici tradizionali, i grandi autori, il latino; la rischiosa idea di fondo che per insegnare basta vivere il proprio tempo, restare aggiornati sugli eventi, ed essere attenti ai ragazzi cui si fa scuola.