a cura della Redazione
Tempo fa un giovane excollega mi ha detto che voleva imparare il greco. Ha fatto il liceo scientifico e lettere moderne, ha insegnato italiano e latino allo scientifico e ora è in un liceo con diversi indirizzi per cui insegna alcune ore anche al classico. Appartiene quindi a quel vasto panorama di docenti che insegnano il latino senza conoscere non solo la lingua ma neppure la letteratura greca, se non gli inserti sui generi letterari nei manuali di letteratura latina, qualche tragedia vista a teatro e un po’ di epica in traduzione. Ho spesso diffidato di colleghi italianisti che insegnavano anche latino nella tradizionale suddivisione del triennio del classico, ora sconvolta dalla necessità di far quadrare gli orari di cattedra, o in cattedre del liceo scientifico o di altri tipi di scuole superiori: in genere erano arroccati su una grammatica rigidamente normativa, astorica, oppure si limitavano alla letteratura, con qualche testo tradotto a fronte. Ho visto spesso in loro una divisione fra il “vero” insegnamento, quello dell’italiano, e questa sorta di appendice, meno importante e un po’ simile ad un hobby.
Perché dunque il giovane excollega vuole imparare il greco? Lo accolgo con scetticismo, chiedendogli anzitutto i motivi e gli scopi, e gli propongo un manuale semplificato. Ma mi accorgo che fa sul serio e nei mesi successivi vedo che lavora sulla grammatica, fa esercizi e versioni; parallelamente legge testi letterari in traduzione per incontrare la cultura greca. I nostri colloqui escono dall’aiuto spicciolo su temi nominali e problemi di lessico per entrare nel confronto fra le lingue, sulla diversa logica di vedere e comunicare che distingue latino e greco, sulla comune origine indoeuropea che dà ragione di tanti fenomeni: studiando il greco si accorge di comprendere meglio il latino, che pure insegna da tempo. Un’esperienza davvero bellissima anche per me.
Circola sui social la preoccupazione per la riduzione d’iscritti al classico, con un allarmismo un po’ insensato in questo periodo d’inizio anno scolastico: le iscrizioni con relativi numeri risalgono a febbraio, ora le notiamo solo visivamente. C’è il calo demografico e c’è fortunatamente anche una certa inversione per cui si torna a scegliere in una più vasta gamma di offerte, i tecnici, i professionali, dopo un’ubriacatura di licealizzazione forzata e ultimamente frustrante. È bene che vi sia un orientamento in terza media che prescinda da ambizioni dei genitori, ma anche da paure e spauracchi inutili; è bene cioè che ogni ragazzo si misuri con capacità e interessi, puntando ad un impegno costruttivo. Vediamo che ritorna la vecchia proposta del latino alle Medie, che abbiamo anche appoggiato in anni passati ma con qualche perplessità: come mi è capitato di dire in un convegno, per insegnare poco o pochissimo occorre sapere molto, saper scegliere e graduare, usare il tono giusto senza spaventare né illudere: un compito difficile, non sempre riuscito, ma se aiuta a orientare ben venga.
Intanto giungono proposte di ogni genere sul latino o sul mondo classico, convegni, lezioni, letture; su fb fioriscono gruppi di amici della letteratura latina, amici del Rocci, difensori del liceo classico e simili: tutto fa brodo, si potrebbe dire, purché si evitino snobismi e amarcord e si vada veramente all’essenziale.
Ma qual è l’essenziale?
Mentre scriviamo la guerra in Ucraina prosegue e s’incrementa, Hamas ha assalito Israele, la Siria muore sotto le sanzioni, l’Africa manda ogni giorno notizie allarmanti: «Non dov’è Dio, ma dov’è finito l’uomo» si chiede il cardinal Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme. C’è una crisi dell’umano: per questo vale la pena di cercare l’umano nelle sue espressioni più profonde, nell’homo sum di Terenzio, nel non ignara mali di Didone, nell’amicizia che lega Orazio a Virgilio e a Mecenate, nel sacrificio di Antigone o di Alcesti, nel perdono di Ippolito al padre. Un’umanità che non ha conosciuto Dio, nessuno dei “tre dii” a cui sere fa un comico in tv si appellava parlando di Gerusalemme e della crisi in Medio Oriente, ma l’ha cercato con zetesis inesausta, «senza speme vivendo in disio» direbbe Dante; ne ha intuito qualche aspetto, ne ha temuto altri, ne ha ansiosamente aspettato il palesarsi. E intanto ha vissuto senza abdicare al proprio essere un mondo di uomini.