a cura della Redazione
Mentre stiamo preparando il numero ricorre la Festa del Lavoro che al di là di polemiche e retorica ci porta ad alcune riflessioni. Proprio quest’anno abbiamo dedicato la serie primaverile dei tre Sabati di Zetesis ad Esiodo, e in particolare l’ultimo Sabato alle Opere e i Giorni, lo straordinario poema che pone al centro non gli dèi o gli eroi, ma il lavoro: rimandiamo al sito per l’ampio resoconto della lettura comune, ma vale la pena di accennarvi anche qui. Il poeta cerca una serie di motivazioni da proporre al fratello per convincerlo della necessità di lavorare: la decadenza dallo stato edenico, la colpa contro il dio, l’ingiustizia dei potenti, la crisi sociale. In un mondo fortemente negativo, in cui è venuta a mancare sia una gerarchia stabile, sia una solidarietà fra uguali, l’unica possibilità di sopravvivenza è l’impegno personale: e l’unica forma di aidós possibile, terminata la grande epoca di giudizio sull’eroismo e il coraggio, è la vergogna di chi è considerato socialmente disutile, costretto alla peraltro scarsa e poco benevola pietà altrui e all’invidia per i beni dei vicini. Ma, una volta accettata l’inevitabilità del lavoro per vivere, l’organizzazione del lavoro, agricolo in questo caso perché un’altra possibilità, il commercio, è appena accennata, comporta regole ben definibili, dai risultati certi: a fronte di un impegno rigoroso e continuo, di un’attenzione alla propria salute e al buon uso di ciò che si possiede, il piccolo proprietario ha un risultato sicuro, un buon raccolto da conservare e proteggere. Ci è venuto da pensare, leggendo nel testo la soddisfazione per il buon esito, alla parabola evangelica del contadino soddisfatto del proprio ottimo raccolto, che termina con «stolto, stanotte ti verrà chiesta la tua vita’» (Lc 12, 16 segg.): un monito a chi dà troppa importanza al prodotto del proprio lavoro. E tuttavia il valore del lavoro è continuamente affermato nel Nuovo Testamento, nelle parabole, nelle lettere di Paolo che era lui stesso un lavoratore, un tessitore; Gesù nella giovinezza ha condiviso il lavoro del padre, tanto da essere chiamato “il figlio del falegname”, e la Chiesa ha dedicato il Primo Maggio, la Festa del Lavoro, a San Giuseppe lavoratore.
Certamente il lavoro che più ci interessa e impegna la maggior parte di noi redattori e lettori è l’insegnamento. Ci sembra divenga sempre più difficile, soprattutto dopo che il covid, e ciò che ha comportato di DAD e di interventi ministeriali, ha appannato il rapporto coi ragazzi, la possibilità di un giudizio credibile, la riorganizzazione di tempi e programmi. Quest’anno giungono all’esame finale gli studenti che erano in prima l’anno del lockdown e hanno completato il biennio in una situazione continuamente interrotta e precaria: lo studio di base, tipico del biennio liceale, in particolare del liceo classico, è stato forzatamente molto fragile, e non solo per le promozioni obbligate del primo anno. Va da sé che tutti ne hanno risentito, e chi è ora negli altri anni delle superiori ha avuto i primi livelli di scuola, alla primaria o alla secondaria di primo grado, ugualmente interrotti e precari. Ci chiediamo se la cosa più importante di cui occuparsi adesso sia veramente l’accumulo di settori in cui è diviso l’orale d’esame, e in particolare quella specie di ciliegina sulla torta che si chiama “capolavoro”.
Chi scrive segue nello studio un gruppo di ragazzi di diverse età e tipi di scuola superiore, e condivide con altri docenti riflessioni ed esperienze di scuola. L’impressione è che qualcosa non funzioni: al di là di programmazioni disordinate, innovazioni sgradite agli stessi ragazzi, pretese eccessive o eccessive indulgenze, ciò che per lo più manca nell’insegnamento in classe è l’attrattiva: i ragazzi di cui ci occupiamo sono moderatamente studiosi, ma non si chiedono il senso di ciò che studiano, dei libri che devono leggere, non hanno il gusto per la bellezza, non si pongono domande, accettano qualunque metodo, qualunque fatto senza spiegazione, qualunque fenomeno senza indagine, qualunque giudizio senza dubbi: tutto si riduce all’esito delle verifiche, al calcolo delle medie. Può essere comprensibile questa attenzione al risultato, e forse è sempre stata una costante nella scuola: ma suscitare domande e dubbi, seminare entusiasmo e fascino dovrebbe essere lavoro dell’insegnante, il nostro lavoro.